Speronari speronari, costruttori di speroni. Attenzione perché l’attenzione non è casuale. È possibile che l’immagine sia adeguata alla memoria storica della strada medievale, via Speronari. È possibile quindi che, dal tempo di Josquin des Prés, sec. 15, su fino alle meraviglie dell’occupazione austriaca, la strada ospitasse gueux, quasimodi e accattoni. Qui e adesso ce n’è uno solo. Siede sul gradino di un uscio di servizio, non so di che servizio. Sudicio, lui non il servizio, sta seduto con le gambe stese in avanti su uno straccio la cui funzione, di riparo o di comodità, è nulla. Accanto a sé due stampelle. L’orlo dei pantaloni ritirato su fino sotto i due ginocchi scopre gli stinchi, tibie e pèroni, appena rivestiti di tessuto muscolare ipotònico; il colore della pelle suggerisce forse, anche a un occhio inesperto, i segni di una cattiva irrorazione. In fondo a ciascuno stinco, l’articolazione che ci si aspetta di solito in fondo a una gamba è assente o incompleta o non visibile, protrude in una chela, una specie di chela, rigida. Non è un arto accennato o deformato ma un’altra cosa. L’imitazione delle tenaglie dei granchi e, come per i granchi, una differisce dall’altra; l’architettura biologica parrebbe seguire e costruire secondo gli stessi schemi strutturali, pene e clitoride; Gaudì lo intuì bene benché egli attribuisse questo comportamento alla gloriosa intelligenza del Gran Ordenador Celestial. Provo a immaginare che la deformità possa essere anche il risultato di un’ustione gravissima, giunta alla combustione, alla consunzione e mai curata o altrimenti di una realizzazione congenita, trattata in modo analogo. Non lo so. Ma non evito di guardare. L’uomo, perché è di uomo il corpo lì sul gradino, legge una rivista, sfoglia le pagine per essere precisi; un bicchiere di carta della coca-cola più volte piegato e dispiegato serve per raccogliere le elemosine.
Si dice che la brutalità è risultante dell’ignoranza, forse dimenticando che l’ignoranza è una delle manifestazioni della brutalità e poi si dice cultura di qualunque insieme di norme che la giustificano, l’infibulazione e la lapidazione sarebbero pertanto atti culturali e infine, a torto, si pretende cultura un’attitudine a ingentilire la deriva violenta di noi bipedi per virtù della bellezza, cito a caso, la bellezza della musica, dell’arte in genere; la musica dovrebbe essere tra le più gettonate dispensatrici di serenità e oblio. Proust ci ha insegnato quali e quante regole di vivere culturale avesse inventato il mondo del tempo perduto per regolare ogni atto quotidiano; la prima guerra mondiale dimostrò che nulla impedisce a un raffinato pianista di essere uno squalo e di sganciare una bomba al fosforo e al professore di filosofia di essere una carogna e lanciare sé stesso, baionetta in canna, su un bersaglio umano. Suonare notturni e polaccche e infornare ebrei non era così inusuale. Sono immagini e ricordi che ciascuno di noi, che sia cresciuto prima di facebook ha negli occhi.
Quella creatura granchio, deforme o, quest’ultima è un’altra ipotesi per il medesimo risultato, deformata in culla da qualche tipo di violenza domestica e quindi culturale è la fonte di reddito di sé medesimo o della sua famiglia, della sua tribù. Non si getta via nulla. Tutto serve a produrre un profitto, dal livello più miserabile alle più raffinate e furbe forme di appropriazione indifferente al debito. È il principio, mi pare proprio, su cui si fonda la società capitalista, né più né meno. Il suo modello relazionale. Sfruttare. L’opera del mendicante.