Ad Apollonio Discolo da Pollaiolo D’Ashqelon

Coggeshall Church, Essex 1940 by John Armstrong 1893-1973

John Armstrong (1893–1973) Coggeshall Church-Essex, 1940

In questo giorno d’allegrezza pieno, mi fa piacere starmene zitto e dare spazio a una voce che conosco solo pe’ l’allegro crepitare sul foglio elettronico delle belle lettere, materia diffusa come pulviscolo celeste dunque, la voce di Apollonio Discolo, chi sarà costui ch’eppur si muove...Saper vorreste/Di che si veste,/Quando l’è cosa/Ch’ei vuol nascosa./Oscar lo sa,/Ma nol dirà,/Tra là, là là… greco egiziano, già ne vedo il naso da cleopatro e gli occhi lunghi di chi ha orizzonti lunghi; imbarcato in barchetta da Alessandria d’Egitto e risorto non si sa come, qui da qualche parte, a bastanza vicino da farla sentire la propria voce. Eccone, per cortese concessione, un testo che mi piacque assa’ del 23 u.s. ( data per me indicativa ma sono affari miei) qui a seguire integrale, solo cambiato in Bembo il carattere, inteso come più appropriato del bastoncino elettronico senza corpo. Chi po’ fussi affamato di parole ‘propriate alla temperie ciacolonica e voresse, potresse completare la lettura con http://apolloniodiscolo.blogspot.com/2020/04/cronache-dal-demo-di-colono-63.html. Ora me tace e si dà proprio oggi, temporanea pace.

f.to Pollaiolo D’Ashqelon

Apollonio Discolo –23 aprile 2020-

Dare i numeri senza averli 

Sulla lingua, persiste una depressione ciclonica. Chetatasi la procella delle pubbliche fustigazioni grammaticali, adesso piovono glosse a catinelle. La stagione le incoraggia, quasi le richiede e non c’è chi, professionista o dilettante della penna, dimessi i panni di Aristarco, non abbia rapidamente preso quelli di uno Spitzer. Resa acuta in tal modo la propria matita, si è messo o messa a chiarire il trasparente uso di metafore cristalline, a dipanare derivazioni lessicali rettilinee, a spiegare arcane antifone da asilo nido. Questo va del resto sul mercato delle idee e guai a non assecondare il mercato: “il mercato” è la prosopopea di una tirannia e non si sa il tiranno, ma certo i suoi pavidi e interessati lacchè mal sopportano che lo si contraddica o che ci sia qualcuno che, al suo cospetto, faccia spallucce e, sovversivo, gli giri le spalle.

È così che si è appreso, tra l’altro, che quanto sta accadendo, malgrado se ne parli come di una guerra, non è una guerra, anche se, in figura, potrebbe esserlo e forse ineluttabilmente lo è. È così che si è capito cosa veramente significa quello “stai buono e composto o viene l’orco e ti mangia” che non manca momento non rimbombi in celle i cui reclusi e recluse tollerano qualsiasi cosa, ma non che qualcuno o qualcosa venga a ricordare loro l’unico vero e ineludibile obbligo contratto con l’atto neppure volontario, chissà se intenzionale, di venire al mondo. Insomma, tutta roba che, non ci fosse chi la porta alla luce, non si sa come farebbe la società locale e globale a essere consapevole di sé medesima in un momento tanto critico.

Se questo è lo stato in cui versa oggi la metalingua, i due lettori di Apollonio saranno clementi con lui. Al diluvio questo diario aggiunge infatti una lacrima: si tranquillizzino, effetto del ridere. Sarà la goccia che farà traboccare il vaso della loro pazienza? Forse. Ma il danno sarà limitato dal sottovaso del loro affetto per il vecchio Apollonio, che appartiene a un categoria a rischio, ma che, con le due raffazzonate nozioni apprese da autodidatta, è lui piuttosto un rischio, pur se modestissimo, per la categoria.

Tanti e tante, come si diceva, parlano incessantemente di parole. E da dove le parole vengono. E cosa significano. E come si usano. E come andrebbero usate. E che fini perseguono. E che conseguenze avranno o potrebbero avere. E così via. Come se, nel discorso a una dimensione che si è oggi impadronito della totalità dello spazio pubblico in maniera appunto e propriamente totalitaria, la cosa più importante fosse quanto si presenta sotto la forma di parole. Non è così, invece, a parere di Apollonio. A caratterizzare quel discorso, a qualificarlo in modo pertinente non sono le parole, qualunque esse siano, ma sono i numeri.

Qui, bisogna che i due lettori di Apollonio facciano attenzione, per non rimanere, almeno loro, vittime di un luogo comune inveterato. Non solo inveterato, ma tra quelli che, da qualche secolo, impediscono che delle cose morali, concretamente morali del mondo, si abbia una percezione ragionevole. Ci si sta riferendo al luogo comune che vuole in contrasto numeri, valorizzati positivamente come certi e affidabili, e parole, valorizzate negativamente come approssimative e inaffidabili.

Intendiamoci: giudizio di valore, ciascuno dà il suo e qui non si insiste un solo momento sulla questione. Libere opinioni. Ciò che il luogo comune nasconde o distorce non è però un’opinione, è un fatto. E nascondere o distorcere fatti è falsa coscienza o ideologia, dicevano due acuti osservatori che, ora è un secolo e mezzo, di come stesse già procedendo la società dell’Evo moderno s’erano fatta qualche penetrante idea, magari sbagliata. Ma, come ripeteva ad Apollonio in anni ormai lontani una persona a lui carissima, è meglio avere idee sbagliate che non avere idee del tutto.

Cosa cela allora la prospettiva che, nel discorso, vuole numeri e parole irriducibilmente diversi? Cela il fatto che nel discorso in genere e ancor più nel discorso pubblico, non c’è niente, non può esserci proprio niente che non sia parola, in ultima e fondamentale istanza. Insomma, non c’è nulla che non soggiaccia al sistema del discorso. Se numeri vi ricorrono, dunque, come ricorrono in effetti e in maniera ossessiva nell’odierno discorso pubblico, si tratta in modo lampante di parole vestite o, meglio, mascherate da numeri.

È questo un elementare dato di realtà, della realtà linguistica, dello stato dei fatti linguistici; realtà, stato dei fatti assoggettabile a osservazioni sperimentali e alla formulazione di ipotesi che provino a renderne conto allo stesso titolo di come si fa con ogni altra realtà, con ogni altro stato dei fatti, mutando ovviamente ciò che c’è da mutare quanto al metodo. Ogni seria prospettiva osservativa ne ha infatti uno suo proprio: insostituibile e talvolta frutto di pratiche faticose e secolari. Ce l’ha persino la linguistica, a proposito della quale Apollonio non si nasconde il dubbio possa sul serio essere qualificata, tra le discipline, come seria.

Ancora una volta, però, attenzione, pazienti Lettori. Dei numeri presenti nel discorso, non si sta qui dicendo che si può discutere in quanto numeri (cosa peraltro ovvia, dovunque i numeri sono eventualmente numeri e basta: sempre che un contesto siffatto esista). Si sta dicendo una cosa più specifica, linguisticamente. Si sta dicendo che se ne può discutere per ciò che sono nel discorso: cioè per il loro valore di forme superficiali di parole. Se ne può quindi discutere proprio in quanto parole che si presentano come numeri, con tutti i correlati effetti discorsivi. Un discorso con parole che compaiono come numeri soggiace infatti, come ogni altro discorso, ai modi costitutivi e di sviluppo del discorso e, nel discorso, i numeri possono mentire esattamente come possono farlo, dandosi il caso, le parole. Ma, di nuovo, è questa un’ovvietà di cui non si vuole fare qui la minima questione. Solo i gonzi (incoraggiati a essere tali da altri gonzi o da furbi imbroglioni) possono credere che chi, nel suo discorso, mette tante parole travestite da numeri sia perciò stesso esente dal sospetto d’essere un millantatore, un imbroglione, un mentecatto. La cruda e penetrante ingenuità della lingua possiede in proposito una locuzione rivelatrice: dare i numeri.

Interessante è in ogni caso osservare che, linguisticamente, una cosa è parlare per parole mascherate da numeri, una cosa diversa è parlare mescolando parole e parole vestite da numeri, una cosa ancora diversa è parlare solo per parole. In scelte siffatte, ci sono infatti valori diversi e bisogna evitare di cadere nella trappola del vieto e malandrino “I numeri parlano da sé”: Apollonio sa di parecchi malfattori che non si servono di questa formula, ma non sa di nessuno che se ne serva che non sia un malfattore. Pericoloso, aggiungerebbe.

Nei discorsi, i numeri, come maschere delle parole, non hanno mai parlato da sé. Se dicono qualcosa, a chi li sa osservare criticamente, dicono al massimo che sono forme che celano parole e che le relative parole sarebbero magari in apparenza più vaghe, ma sarebbero almeno parole smascherate. O cui si potrebbe togliere più facilmente la maschera. La parole mascherate da numeri hanno infatti maschere corazzate. Avanzano con violenza, quando si tratta di contrasti, e non fanno prigionieri: le parole prive di maschere e inermi ne vengono di norma sterminate.

Se, giunti a questo punto, i due pazienti Lettori provano a figurarsi l’oceano di discorsi caratterizzati da numeri in cui da decenni si trovano immersi come destinatari; se si accorgono come tale oceano, nella presente temperie, sia divenuto ben più che tempestoso e, da dove dovrebbero giungere parole, arrivano loro addosso numeri a ondate gigantesche e contrapposte; se osservano che si tratta di numeri tanto irragionevoli e spaventosamente grandi o, quando di taglia accettabile, tanto assoluti e privi dello sfondo che li qualifichi, da risultare completamente incomprensibili, tranne che nella loro funzione di opachi involucri di parole; se insomma, a mente sgombra e per un momento, riflettono sullo stato presente della comunicazione e della soggiacente espressione, Apollonio è certo che non potranno non concordare con lui. Stare a fare chiacchiere sulle parole, sulle metafore e sulle etimologie, sulle inferenze e sugli impliciti e così via, pensando così di cogliervi chissà quale essenziale spirito del tempo è gingillarsi, se mai è stata cosa diversa.

Oggi le sole parole che contano (ed è facile gioco di parole) sono i numeri. E il discorso pubblico della modernità putrefatta (pubblico e totalitario, c’è da precisare) non fa altro che dare i numeri. Li dà senza tregua, parossisticamente e a dosi sempre più massicce. Li dà in modo da instupidire, da stordire chiunque lo ascolti. Dà i numeri (ed è questo l’aspetto più comico della faccenda) senza avere i numeri per darli, cioè senza il fondamento di quel pensiero umano ragionevole fatto di parole libere che non c’è numero possa mascherare. O, forse, che non c’era numero potesse mascherare.

Apollonio Discolo

About dascola

P.E.G. D’Ascola ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: "Le rovine di Violetta", "Idillio d’amore tra pastori", riscrittura di "Beggar’s opera"di John Gay, "Auto sacramental" e "Il Circo delle fanciulle". Sue due raccolte di racconti, "Bambino Arturo e il suo vofabulario immaginario"" e "I 25 racconti della signorina Conti", i romanzi "Cecchelin e Cyrano" e "Assedio ed Esilio", tradotto questo anche in spagnolo da "Orizzonte atlantico". Nella rivista "Gli amanti dei libri" occupa da molti anni lo spazio quindicinale di racconti essenziali, "L’ElzeMìro".
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4 Responses to Ad Apollonio Discolo da Pollaiolo D’Ashqelon

  1. Onorato dalla ripresa, Apollonio è grato al Collega blogger.

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    • dascola says:

      Mi fa piacere saperlo. Mi auguro che la brevissima presentazione sia stata adeguata, appunto brevissima. Da Pollaiolo insomma

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  2. Leonardo Taschera says:

    Non credo ci sia nulla da aggiungere salvo che, nell’attuale circostanza, qualche volta i numeri sono mascherati da parole: i nostri angeli, i nostri eroi…Pochi sanno quanti fossero quando erano ancora in carne ed ossa…

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    • dascola says:

      Capirai Leo, non avevo niente da dire prima immaginarsi dopo. Apollonio mi parse appropriato al silenzio. Grazie

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