Mi riferisco al pezzo di Giovedì 9 novembre – https://www.ilpost.it/2023/11/09/ce-ancora-domani-paola-cortellesi/– circa il mistero del successo del film C’è ancora domani di Paola Cortellesi. Ebbene, un vecchio direttore editoriale di mia conoscenza mi spiegò secoli fa che se era facile prevedere la pioggia o il sole era impossibile predire la fortuna di un libro, la più bella scrittura e il miglior marketing non avrebbero assicurato alla pubblicazione il successo auspicato in camera di lancio, Ci si può augurare che vada bene, non di più, mi disse.
Del resto l’esperienza personale racconta che ben tre miei volumi, ritenuti strepitosi da alcuni lettori elettivi, meno di venticinque – editori a parte che su quei libri scommisero con dedizione – non ne hanno guadagnati nel tempo più di altri cento. Parlo per eccesso. Amen. Dunque per Paola Cortellesi lo stupore è giustificato dal fatto che esiste l’imponderabile. Ma non per il film in sé. Che è formidabile. Dire opera prima è una stupidaggine. Cortellesi è da tempo regista di sé stessa per la maestria attoriale con cui costruisce e racconta i suoi personaggi e li domina ( si guardi Petra, che si regge su di lei a dispetto della modestia della serie). Cortellesi ha il dono dello straniamento naturale, lo avevano Gasmann e Proietti, Totò e Eduardo, De Sica e Sordi.
Lo straniamento è quel modo, piuttosto ignoto in America dove l’attore per solito insegue l’identificazione con un niente chiamato personaggio, per cui, come affermava Brecht, l’attore non impersona ma ne indossa, per così dire, la maschera, lo fa parlare come il pupàro fa col pupo, lo racconta, lo epicizza come i cantori omerici dovettero fare con l’Iliade. Brecht, durante la sua visita a Milano, nei ’50, scherzando con gli attori del Piccolo Teatro che gli chiesero, Come facciamo a essere straniati come maestro, ebbe a dire, Cari ragazzi –allora lo erano più o meno tutti – che diavolo andate cercando da me, io parlo per i tedeschi che non lo capiscono ma voi italiani lo straniamento lo avete per natura e cultura, la commedia dell’arte, basta ricordarsene.
Poi Brecht usava nel suo ( straordinario n.d.r.) teatro degli accorgimenti per escludere lo psicologismo del teatro del fine XIX sec. : la canzone ( come l’aria nell’opera e nell’operetta che sono per natura straniate e che per se stesse rendono ridicole le letture psicologiche di fatti e personaggi – che esistono solo all’attuarsi della finzione – che ne danno soprani e tenori nelle interviste) il cartello esplicativo, il coro, il siparietto e via discorrendo : tutto ciò che leva al pubblico l’incantesimo e produce pensiero attraverso lo sfaglio, la cesura, l’inciampo ; che spariglia le carte in tavola.
Non è come alcuni intendono, e male, freddezza, distacco dall’emozione, al contrario è un opposto modo di prendere il pubblico, ma per il bavero. Chi abbia visto e apprezzato Il sol dell’avvenire di Moretti, capisce appieno la Cortellesi, attrice colta e regista di sé stessa quanto del suo film : sa tutto quanto detto e lo mostra. Il pantomimo delle sberle, così poco apprezzato pare da certa critica (ignorante), è insieme una trovata di maestria interpretativa, è un’espediente di quelli citati e una chiave di montaggio. Non mi si dica che non induce qualche pensiero. In sé è un bellissimo espediente e del resto tutto il film adopera espedienti ( il vuoto di colore, la ratio in ¾ alternata al 16/9) ed è un bellissimo espediente per raccontare la puzza, in senso fisico, e la puzzoneria etica dell’Italia di allora e poi di oggi che, in più, si è sottratta al sogno che ci sia ancora domani. Punto.

Penso che il cinema sia come la politica: il successo dipende dal saper cogliere il sentimento del momento tra le masse. Fare neorealismo alla Cortellesi è un punto di vista femminista, movimento che ora punge e fa presa, come presa l’ha fatta il politicamente scorretto prima che si arrivasse al silenzio dei recenti tempi. Il film in questione, si intenda, anch’esso possiede una comicità scorretta sebbene con accezione negativa. E bello, è bello. Un po’ perché, come riportato dal Fatto, ricorda Parasite ovvero quel genere di film che evolve con il personaggio, partendo dal comico e culminando nel tragico, per poi magari ritornare al semiserio. Un po’ perché ricorda quello che di meglio il cinema italiano, nel dopoguerra, ha saputo realizzare. “C’è ancora domani” come una citazione del “Bellissima” di Visconti, con a capo la suprema Magnani. Impossibile non vincere l’Oscar, non soltanto come miglior film straniero. Si pensi a “Roma” di Cuaron in B/N che riuscì a vincere un po’ di tutto, con certo una poetica differente e probabilmente più originale nel concetto. L’unica pecca di “C’è ancora domani” è non essere riusciti a rappresentarlo nell’oggi. Esperimento in cui Sorrentino riuscì, nella sua visione della “Dolce Vita”. Per il resto, davvero un gioiello. Ed ho visto solo il trailer.
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