L’ElzeMìro di Martedì 14 marzo

Fablìole – Il citòfono pirata

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BAMANTI
Desideria Guicciardini-L’Elzemiro alla sua tastiera
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Ma la c’è la provvidenza?

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Ieri, prima che imperversasse il circo degli Oscar, ho avuto tuttavia una mezza giornata di delirio cinematografico. Dopopranzo ho finito di guardare in Netflix le ultime tre puntate di una serie spagnola, che consiglio e che mi ha ipnotizzato, 45 Revoluciones, ossia 45 giri ( per chi non sapesse il numero di “rivoluzioni” di certi piccoli vinili detti singoli se recavano incisa solo una canzone. Narra le difficoltà soprattutto, gli inciampi, le passioni, i tormenti, le paure di un casa discografica spagnola agli albori dell’era Beatles/Rolling Stones, di Mary Quant e delle sue minigonne, nella Spagna ancora “graniticamente” in mano a Franco e alla sua nomenclatura cupa, stolta e cattiva. La seria è bellissima, ben scritta e bene raccontata e servita da un cast di attori spagnoli, giovani e meno giovani, da primo piano tutti, in senso letterale, anche i caratteri secondari come la segretaria Inés e la madre – che raggiunge vette di odiosità da moglie per riscattarsi però alla fine come semplice madre – tutti robusti e credibili e dalla bella dizione, belli e demodé nell’indossare costumi e riproporre usi puntigliosamente d’epoca: le cene in famiglia e il culto della stessa e della messa, i fidanzamenti ufficiali, il collant, gli stivali con la zip al polpaccio, i sotterfugi per infilare il moroso nel proprio letto, le ansie per i ritardi del ciclo e i patimenti dell’essere femmine (memorabile la scena in cui il tecnico in capo di un teatro insulta la protagonista Maribél/Guiomar Puerta – capace di essere bella e giusta benché non bellòna – e la sua segretaria Clara, il cast completo in Wikipedia, perfetta in un ruolo sommariamente marginale – rifiutandosi di accettare lei e l’altra come direttrici/organizzatrici di un concerto etc.etc. Cose che conosciamo noialtri quelli del latte conservato fuori dalla finestra in inverno. Girata quasi in economia con in pratica solo tre set raccomando la serie 45 revoluciones a chi non sappia come sfuggire a poliziotti antimafia che boffonchiano come Nazzari nel ’30 e squinzie che si mangiano così tanto le parole che una serie con il loro impegno potrebbe fermarsi prima della fine. Le recenti propagandate produzioni italiane che non cito per vergogna di patria ne sono le prove ammesse a un tribunale internazionale d’arte non ancora nominato. In Italia del resto per vergognarsi chi ha ancora il senso della vergogna ha di che. E, a proposito di vergogna, dopo questo piacevole inizio di pomeriggio, ho scelto di malavoglia la ventura di andare a vedere il pompatissimo Tàr con Blanchett. Dio o il buon senso semplice ti guardi. È raro capitombolare su pellicole tanto brutte e che siano però, come oggi succede, offerte da una propaganda di sordi, muti e ciechi a un pubblico di normo-udenti e vedenti. ( l’altro caso è Triangle of sadness del quale è parimenti impossibile dire trattandosi del super8 del cugino di un amico del figlio del nipote della cugina della sorella vedova di Ferreri, giovelofulmini). Ma insomma Tàr, dirne è antiecologico per tanto è scritto e male da una personalità schizoide – si suppone –, per tanto non è diretto da un regista fantasma, per tanto è mal recitato da una Kate Blanchet che con questa alzata di ingegno del farsi addosso un film rischia di essere considerata la diva sul viale del tramonto di Viale del tramonto, una ex grande attrice. Avendo lo sai passato una buona metà finora della mia vita in mezzo ai grandi, Abbado, Böhm, Kleiber, vedere con quanta poca perizia Blanchett ne imita i gesti riuscendo peggio della Guzzanti che di suo è pessima, dà la misura di questo film dimenticato prima d’essere. Così che al ritorno a casa dopo due ore e quaranta di proiezione dalla quale volevo scappare, e dopo un bel minestrone per cena, con mia moglie abbiamo riguardato Amarcord, di Federico Fellini, Oscar 1973 e ho detto tutto. Nel 2023 Tàr non ha meritato ieri notte nessuno Oscar. Ma la c’è la provvidenza.

P.S.Ho colto e divulgo l’invito fatto da Taschera nel suo commento a leggere https://www.internazionale.it/opinione/eileen-jones/2023/02/19/tar-recensione-film-snob-impantanato. La critica della Jones è cortese per un prodotto che è di fatto scortese, e la Jones non omette il fatto, nei confronti del pubblico. Mia opinione, per indole mai abbastanza repressa, è che le repliche, peraltro vagheggiate da Jones, e le migliori a tanta scortesia sono  quelle di  Sparafucile (in Rigoletto-G.Verdi):

Soglio in cittade uccidere,
Oppure nel mio tetto.
L’uomo di sera aspetto;
Una stoccata e muor.

Aggiungo per finirla qui, nel caso di Tàr, e per chi volesse nonostante farne l’esperienza ma abbia un po’ di sensibilità, che è palese la scollatura di Blanchett dalla musica  cui in tutta evidenza è sorda, tal che trasforma il gesto in gesticolare. Totò/Antonio Scannagatti  quando dirige la banda di Caianiello in Totò a colori non solo è da sganasciarsi ma è musicale. A perpetua memoria, altro che; Blanchet, Field cirèa ( ma questo la Jones non poteva saperlo)

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Il grande scafista

Ieri 6 marzo, Michele Serra nella sua newsletter settimanale Okboomer ne Il Post , ha scritto cose che suggerisco molto di leggere;  belle e meritevoli di lettura a prescindere da chi è Michele Serra. È per gli abbonati al quotidiano ma la si trova tuttavia cliccando nella barra del menu sulla voce newsletters. Il pezzo prima o poi la si troverà alla voce numeri precedenti appena sotto il logo Ok boomer. La newsletter è piuttosto lunga e non posso riportarla qui;  anche per ragioni di copyright. Ma oggi stesso ho replicato al pezzo di ieri per il gusto di farlo, per grande bellezza, così che riporto qui sans façon ma integralmente la mia lettera.

Screenshot 2023-03-07 alle 10.30.38Caro Michele Serra,
le dico, il pezzo di ieri 6 marzo, non saprei dire di preciso come mi ha toccato, mi ha commosso forse, e per due motivi. Uno: lei ha scritto della siccità nei termini più appropriati, e mi hanno di nuovo stretto appunto il cuore, ovvero che si tratta con molta probabilità della fine del mondo; la sua cisterna è un simbolico bunker, la città è, come bene lei dice, un’invenzione che diniega la realtà del campo su cui è costruita, radendolo al suolo quel campo, e che fantastica per sé stessa il ruolo che è proprio solo del campo, di fabbrica della sopravvivenza.

Due: lei pubblica e replica a una lettera abbastanza ben scritta di un giovanotto, circa il senso dell’esistenza in riassunti termini. Lei nel modo più impeccabile possibile e con un accento che mi è parso accorato, da anziano, mi permetta; io lo sono più di lei e mi fa piacere immaginare che lei non voglia essere chiamato di me più giovane ma di poco meno anziano. È d’accordo? Lei ha argomentato, dicevo con cautela e nel modo più razionale, corretto, amichevole, paterno credo, per non pizzicare le corde che a me sono sembrate religiose del giovine; non ha scritto quindi quello che mi permetto invece di riassumere: che l’esistenza umana, qualsiasi esistenza che respiri, dalle api, ( poarelle), ai gatti a noi stessi, nessuna specie ha un senso qualunque. Esistiamo per caso, per caso avveniamo, obbedendo a un meccanismo ben rodato di nascite e morti. Nessun gatto, che io sappia si è mai domandato che senso abbia la propria esistenza, gli umani se lo domandano da tempo rinunciando a rispondersi nel modo che a loro forse pare brutale, a giudicare come eludono la domanda con risposte che la contraddicono: che il senso è sopravvivere e moltiplicarsi.

Da qui nasce da sempre in modo inconsapevole l’invenzione di alternative: il fare arte ( artificio cioè) è una , forse la principale e artificio ( la città o la Brianza) è tutto il fare umano, spesso però legato a quel primo motivo, sopravvivere e moltiplicarsi; che è in sostanza il vitello d’oro. Agli animi religiosi non è mai bastato ( vai sul Sinai e vedrai che roghi) e cercare un senso di là e dall’altra parte, in metafisica, è stato mi pare lo sforzo fatto nei millenni; sforzo per cercare un Grande Scafista che traghetti oltre il dolore e la pena e la fatica e gli scacchi matti dell’esistenza. La morte che a noi compresi pare incomprensibile, paurosa o quanto meno seccante. Essendo in larga misura insopportabile a tutto questo si è cercata la mai-risposta risposta che sappiamo. Sciocchezze a mio modo di vedere, comprensibili ma non giustificabili, difficili da sovvertire come qui e adesso. Il senso, lei pero ha fatto bene intendere, lo si trova nel fare (bene) qualcosa, non importa cosa, sia la gru di Faussone*, sia boh( sarebbe meglio qualcosa di non pericoloso come invadere l’Ucraìna, tra l’altro invasa male).

Si passa il tempo in sostanza, come sto facendo io adesso, contento di arrogarmi il diritto di dialogare con lei che con tutta probabilità non ne può più ma non importa; a me l’illusione di avere annodato un legame che mi fa tirare avanti per qualche minuto in più. Da scrittore si figuri quante ore impiego nel ricaricare tutti i giorni la molla agli orologi del senso. Ma non credo che sia diverso per il consulente finanziario che, in più, costruisce però il suo vitello d’oro e se ne compiace e rallegra. Tanto ormai e per fortuna per lui nessuno scende da nessuna montagna a spaccargli in testa nessuna tavola della legge e poi la domenica via che va a messa e si contrita un po’.

Eppure i gatti e molti altri mammiferi manifestano con loro grande vantaggio rispetto agli umani, e a volte  in misura straordinaria, una affettività spiccata, gratuita, offerta per generosità e spesso superiore a quella di molti umani, per alcuni non pochi dei quali invece, è stata coniata la parola anaffettivo: la perdita, la rinuncia a qualsiasi senso, direi. In questo senso darsi un senso qualunque è indispensabile. Non so se mi sono capito, caro Serra che leggo con grande simpatia.

*Leggi La chiave a stella – Primo Levi – Einaudi 1978

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Errata corrige?

In Charlie Hebdo dicembre 2022

Tempo addietro in una conversazione amichevole mi è stato riproposto il tema, anzi l’assunto che, Uno non è libero di dire quel che gli pare non può insultare ciò che per altri è sacro e intoccabile e magari solo perché è francese o occidentale e si sente migliore e si sa che quelli(dai terroristi islamici su fino ai pederasti in turbante dell’Afganistan e Iran) non son spiritosi e patapìm e patapum il discorso è appunto cascato su Charlie Hebdo (rivista peraltro poco divertente cui il Vernacoliere di Livorno fa una benché truce ma migliore concorrenza, perché invece molto spiritosa e supportata benissimo dall’uso straniante del vernacolo appunto li’ornese. Peraltro il Papato ebbe un fustigatore eccezionale nel noto Pasquino*).

Ora io direi questo per concludere subito la questione oggetto del conversare. È vero che in Francia ognuno si sente libero di dire quel che gli pare di chicche e ssia ( Totò); è vero per storia, per cultura – alla Francia il termine si attaglia, guarda che cosa ha prodotto in tutti i campi dalle arti alla moda all’icché te tu vvoi – è vero perché questa libertà di espressione, per quanto fastidiosa possa a volte apparire è una conquista collettiva, che riguarda la Francia (non l’Italia per esempio ma sì la Spagna che dopo tanta dittatura guai a chi tenta di zittire qualcuno): è un bene tutelato in quel paese. (Non in Pakistan dove mi sembra l’altra settimana una folla ha linciato (sic) non so quale offensore del corano).


Ma intervenire a mano armata adducendo le ragioni avverse alla libertà in voga altrove e in una superstizione sfavorevole alla critica è giuridicamente sbalestrato. Nessuno fuori dal proprio ranch può far valere altrove le sue paranoie, leggi, manie. Non con le armi. Non c’è rapporto di causa/effetto tra il dire e l’assassinare. Tra l’offesa supposta o immaginata e la reazione. Se ammazzi tua figlia in Bangladesh perché si veste all’occidentale e frequenta un occidentale posso solo indignarmi da qui, ma se l’ammazzi a Parma ti pesco e condanno a trent’anni. Vale la mia legge non la tua. Non è protezionismo leghista è l’assodato giuridico del diritto razionale che vale dove vive; si chiama territorialità del diritto: art. 6 del codice penale italiano.

A questo proposito voglio continuare con una storiella che mi riguarda. Ero in terza elementare e un bel pomeriggio di primavera, di quelli che persino a Milano sembravano belli, me ne stavo a giocare, presso la vascona delle ninfee ai giardini Guastalla, con il mio amico Federico. Giocando giocando vedemmo che a noi si avvicinava un bambino (Giusti, per la cronaca e tale che più tardi verrà conosciuto come Giustisbagliato). Era uno scalmanato, non so che volesse da noi ma lo ignorammo, però ricordo che sussurrai al mio amico, Quello è un cretino. In men che non si dica usano dire nelle fiabe, mi ritrovai spalmato nella ghiaia, sotto il cretino a cavalcioni che mi stringeva le mani alla gola e stringeva stringeva altro che ( anche i bambini sono assassini se vogliono). Il mio amico Federico tempestava di pugni il Giusti ma a salvarmi fu l’intervento provvidenziale di una mamma che con la forza di un adulto mi levò di dosso lo strangolatore e lo cacciò strillandogliene di ogni. Anni di poi ritrovai il Giusti con casco contundente arruolato nella cosca che fu l’MS o movimento studentesco. Avrà 70 anni adesso, è nonno chissà e gli auguro di stare in salute e in pace.

A mio avviso la questione che sorge non è dunque circa il limite tra opinione e offesa. Ma tra opinione e reazione all’opinione. Ho detto, tu non puoi esportare i tuoi sentimenti fuori dal tuo ambito (p.es.tu associazione provita cattolica non puoi chiedere la punizione di due pifferi che si sono baciati sul palco di sanremo, santo ma non scemo), né puoi pretendere di esportare la tua bassa asticella dell’offesa. Rivendicare un diritto universale alla vendetta per lo scritto. Che il tuo sentimento sia riconosciuto se non come sentimento. Ma se sei permaloso come un calabrese, in sintesi, impara bello, mi diceva la mia mamma quando da bimbo m’impermalivo per un nonnulla, impara a tagliarti la parte offesa. Non la testa altrui. La mia mamma, in conclusione, essendo nata nella libertà di Francia, non lesinò mai a nessuno le sue strigliate verbali. Riusciva a essere feroce benché pedagogica. La vita peraltro, non solo la mia mamma, dovrebbe insegnare a incassare, the slings and arrows of outrageous fortune (le frecce e i colpi dell’avversa fortuna) recita Amleto.
E a proposito di asticelle e Amleti ti propongo una sintesi da un pezzo del Guardian di oggi circa la “censura” sui librini di Roald Dahl :

If we start down the path of trying to correct for perceived slights instead of allowing readers to receive and react to books as written, we risk distorting the work of great authors and clouding the essential lens that literature offers on society. (Se iniziamo a cercare di correggere le offese percepite invece di permettere ai lettori di ricevere i libri e reagire ai libri come scritti, rischiamo di distorcere il lavoro di grandi autori e di offuscare l’obiettivo essenziale che la letteratura offre alla società.)

Il pezzo integrale eccolo qui:

https://www.theguardian.com/books/2023/feb/20/roald-dahl-books-rewrites-criticism-language-altered?utm_term=63f2fe557357979ceee3b5f3651ecf50&utm_campaign=GuardianTodayUK&utm_source=esp&utm_medium=Email&CMP=GTUK_email

*Da Wikipedia alla voce Pasquino:

(omissis) Presto si diffuse il costume di appendere nottetempo al collo della statua fogli contenenti le cosiddette “pasquinate”, satire in versi, dirette a pungere i personaggi pubblici più importanti. Ogni mattina le guardie rimuovevano i fogli, ma ciò avveniva sempre dopo che erano stati letti dalla gente. In breve tempo la statua di Pasquino divenne fonte di preoccupazione, e parallelamente di irritazione, per i potenti presi di mira dalle pasquinate, primi fra tutti i papi.

Diversi furono i tentativi di eliminarla e il primo fu il forestiero Adriano VI (ultimo papa “straniero” prima di Giovanni Paolo II), durante il suo breve e controverso pontificato (15221523), che tentò di disfarsene, ordinando di gettarla nel Tevere. Fu distolto quasi in extremis dai cardinali della Curia, che intravidero il pericolo e la possibile portata di un simile “attacco” alla congenita inclinazione alla satira del popolo romano. Anche Sisto V (15851590) e Clemente VIII (15921605) tentarono invano di eliminare la scomoda statua.

Quando altri, successivamente, la fecero vigilare notte e giorno da guardie, le pasquinate apparvero infatti ancora più numerose ai piedi di altre statue: l’idea era stata di Benedetto XIII (1724-1730), che emanò anche un editto che garantiva la pena di morte, la confisca e l’infamia a chi si fosse reso colpevole di pasquinate. In realtà già nel 1566, sotto Pio V, Niccolò Franco era stato accusato di essere l’autore delle pasquinate e per questo condannato a morte e giustiziato sulla forca. Le pasquinate però non tacciono, e ai versi propagandistici si sostituiscono invettive moraleggianti, soprattutto nei confronti di un dilagante nepotismo e di una certa “prostituzione di lusso”.

Verso dopo verso, Pasquino era di fatto asceso ad un rango di specialissimo antagonista della figura papale, simboleggiando il popolo di Roma che punteggiava coi suoi commenti gli eccessi di un sistema col quale conviveva con sorniona sufficienza. Pasquino segnalava che, per la sua particolare storia, Roma sapeva valutare anche figure che assommavano in sé il massimo potere religioso ed il massimo potere di governo, riuscendo a scorgerne le eventuali umane modestie, a rimarcarne velleità e malefatte. Come tale, era fisiologicamente un punctum dolens dei vescovi di Roma, ma pure come tale la sua “produzione” si estinse con la fine del potere temporale, con la breccia di Porta Pia, che metteva il popolo romano di fronte a nuovi tipi di sovrano, a nuovi tipi di stato. Si è detto che Pasquino sia stato “distratto” dalla contemporanea messa in circolazione dei sonetti del Belli, che col suo spirito mostravano più di qualche apparentamento e che nel medesimo senso proseguivano la sua opera; in ogni caso la statua, priva del suo antico bersaglio, smise di essere teatro di un evento periodico e da allora fogli appesi se ne videro solo saltuariamente, avendo di mira tipicamente il nuovo governo unitario della città eterna. Per esempio, nel 1938, in occasione dei preparativi per la visita di Hitler a Roma, Pasquino riemerse dal lunghissimo silenzio per notare la vuota pomposità degli allestimenti edilizi e scenografici, che avevano messo la città sottosopra per mesi:

«Povera Roma mia de travertino
te sei vestita tutta de cartone
pe’ fatte rimira’ da ‘n imbianchino
venuto da padrone!»
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L’ElzeMìro di Martedì 14 febbraio

Fablìole – Minervina

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BAMANTI
Desideria Guicciardini-L’Elzemiro alla sua tastiera
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Da da dadà

Cover Funerali atipici copia 2

Funerali atipici  è un volumetto autoprodotto, silloge del  premiato Idillio toscano con fiori – una prosa ritmica per voce e strumento – e di 37 nuove liriche con il titolo unificante appunto di Funerali atipici. Titolo che è indizio.

La copertina è di Desideria Guicciardini, che tutti conoscono nel mondo dei libri

Non ha prezzo di copertina. Tu fossi interessato a leggermi puoi contribuire ai costi di stampa con una donazione. Dai quel che puoi. Spedizione a mio carico. Se deciderai di ordinare il volume e se, letto, ne vorrai fare un po’ di passa parola grazie.

PER ORDINARE mail to : pad8@icloud.com.
Precisare nome, indirizzo per la l’invio in piego di libro e allegare ricevuta del bonifico effettuato.
BONIFICO A : PASQUALE DASCOLA – IBAN : IT13G0623022900000015124696
CAUSALE :  FUNERALI ATIPICI
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4 vestiti 4 colori

Caso più unico che raro, il mio divertito scritto sul festival dei festival ha suscitato ben 4 commenti. Ma lo scritto si sa che fa fatica a rendere l’intonazione sorniona e sarcastica che la parola detta ha nella propria faretra. Ringrazio tanto interesse che avvalora la tesi che  un tema così sciocco fa audience – modesta ma dotta, fino a citare il vangelo, uno dei 4 – così come fa audience la direzione artistica di Amadeus e che egli butterà come Brenno la sua spada sul piatto di qualsiasi bilancia: una media di 10.5 milioni spettatori, picco di 16, e 60 % di share circa. Ecco l’oro. I dati precisi si leggono nell’autorevole – mi pare circa le cifre, Il sole 24 ore –. Per il resto più che ringraziare per tanta attenzione non saprei altro che fare se non far scegliere l’abito da un titolo di secoli fa (1962)

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San Remo intercede pro Marameo

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Kitty Pearson, 1973 by Alice Neel (1900-1984)

Il mondo brucia ma madame si fa i ricci. Quindi è bello ogni tanto occuparsi di stupidate. E non sono così snob da non avere mai guardato il triccheballache di San Remo. In anni molto passati sì. Forse per imitare Luchino Visconti che snob e nob lo era. In verità qui in casa non guardiamo la tv nazionale da non so quanto, direi vent’anni. Per difetto il computo. Ciò nonostante l’altro ieri abbiamo voluto assistere ai primi venti/trenta minuti di trasmissione. Bello il Presidente della Repubblica con la sua bella figlia a simboleggiare il suo ruolo di nume tutelare di tutti e che va sì alla Scala ma questa volta anche all’Ariston. Che per non sembrare com’è di provincia per prima cosa dovrebbe cambiare il proprio titolo in uno che suoni meno da cinema porno.

Poco dopo in una operazione di sicuro mani tese ( cioè ho bisogno di lavorare) ecco Benigni, che non lavora da un pezzo infatti, pare starnato e stonato e sproloquia io dico per venti minuti sulla Costituzione. Esce a capo chino come lo scolaretto che  potrebbe fare di più se si impegnasse e lo sa.
Poi una Anna Oxa vintage e patetica( dopo una certa età che diventa certa ci si trasmuta tutti in tali ) e fatta su in carta regalo nera che sibila, scatarra e rutta in albanese da tanto poco si capiscono le parole. Poi un paio di nuddu ammiscatu cu nnenti, il primo descamisado il secondo che canta accompagnato da un buffo coretto di bambini così carini poi da aver eccitato il cuore di più di un nonna. Poi vista la signora Ferragni, per fortuna in Dior vero. Tutti però in emozione di ordinanza. Oh basta.

Letto poi in ANSA, e mica è finita la giostra, delle esternazioni di detta Ferragni sulle donne. E poi della tale iraniana, e poi di Fedez contro un ministro o una minestra la cui esistenza ignoravo. Poi di un’altra che viene in pace; non so chi sia anche questa, ma del mondo italiano presente ignoro con metodo quasi tutto. Poi letto anche di un tale della lega dei chissenefrega che ha stigamtizzato il festival. Forse, mi sono domandato, tale indignazione di partito è dovuta al fatto che il festival da tempo è una fiera di parole in libertà in un paese dove è la libertà di parola non è del tutto intesa. MA… basta che sia tra lor signori, diceva Marco Pannella. E quindi la lega menzionata vorrebbe che che che a fronte di un Fedez che strappa cartoline ci fosse chissà un pensionato che grattaevinci a reti unificate o un piccolo imprenditore di Lecco o Lodi o Seregno che fresano, fresano fresano. Così che accanto all’abbasso di chi, nella vulgata, lavora solo ogni tanto e guadagna troppo ma si sa, di Roma, suonasse anche l’evviva di chi s’affretta e s’adopra con la partita iva lombardo-veneta. Non lo so, è una fantasia.

Tuttavia mi pare che questa deriva radicalista del festival cui sembra faccia da contraltare la sua scarsa, forse nulla qualità musicale in genere, tanto bassa che vengono accolti con peana vecchi stonati come il signor Albano, tale deriva chissà non serva a procurare un elettroshok positivo, a prescindere dalla posizione degli elettrodi, in tante testoline italiche così ottuse, così governative, così in frack da Don Calogero Sedara, così in ghette bianche e camicia nera in ultima analisi, per quel fascismo naturale, endemico, genetico o antropologico che denota, è probabile il pubblico di San Remo, e si sa il carattere dei nostri compatrioti. Quindi vai a indovinare se tutta questa fiera di bassa qualità, di retorica instagram, di bolscevismi sdentati, di provincialismo in pailletes e mutande sudate non serva a redimere un po’ il paese da sé stesso. E un’ipotesi diagnostica.

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Dire per dare

Cover Funerali atipici copia 2
Funerali atipici  è un volumetto autoprodotto, silloge del  premiato Idillio toscano con fiori – una prosa ritmica per voce e strumento – e di 37 nuove liriche con il titolo unificante appunto di Funerali atipici. Titolo che è indizio.

La Graphus di Lecco ne ha curato la grafica, la copertina, reminiscenza de L’Amante morta di Arturo Martini, è di Desideria Guicciardini, che è mia moglie e che tutti conoscono nel mondo dei libri; il logo in calce è di Anna Rimoldi.

Non c’è prezzo di copertina. Tu fossi interessato a leggermi puoi contribuire ai costi di stampa con una donazione. Dai quel che puoi. Spedizione a mio carico. Se deciderai di ordinare il volume e se, letto, ne vorrai fare un po’ di passa parola grazie.

PER ORDINARE mail to : pad8@icloud.com.
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L’ElzeMìro di Martedì 31 gennaio

Fablìole – I fiori rubati

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