Da leggersi Dune

Dal basso della mia posizione di specialista dell’insuccesso qual io mi vanto posso parlare con il massimo agio di film di fantascienza perché circa la loro genesi e sviluppo mi laureai a suo tempo, relatore Umberto Eco che mi accusò di spiritualismo senza sapere che di Bergson non avevo letto nemmeno le date di nascita e morte, che ero ateo genetico e nietzsciano acquisito dopo averne acquisito ed eletto l’opera omnia, hmm quasi omnia, dell’adelphi; ma a lui, all’Umberto stetti semplicemente sulli cabasisi perché non usai i suoi strumenti di indagine semiotica. Un punto mi diede per premio, un punto e mi fermò a 109.

La fantascienza è nata con il cinema, il cinema fu in sé fantascienza e, per esteso, l’arrivo della locomotiva in sala vista dal punto di vista di uno che sta sui binari fu il primo di una serie di film catastrofisti. Ma insomma se vuoi sentirti citare qualche titolo più denso prendi Metropolis di Lang, senza gli interventi di Moroder al sintetizzatore . Poi il cinema si sbizzarrì in avventure spaziali, molte di serie B o C, Quatermass, Forbidden planet, in mostri, The Thing, Them, nelle distopie, 1984, e poi Brasil che di serie era A con relativi cliché di paura e orrore ( vidi Cittadino dello spazio al cinema Prealpi di piazza Prealpi a Milano, ah Milàn Milàn l’era bela granda , avevo 3 anni e baby sitter era termine ignoto ai miei giovani genitori sicché sempre con loro dovunque : e io mi spaventai a sangue alla vista di un cervellone gigante che cento ne pensa e mille ne fa) Il genere, piuttosto tipico prodotto della guerra fredda – gli alieni, i manipolatori, i cattivi del di fuori sono i sovieti, vero è uguali a oggi, come poi in 007, a guardare i film con occhio interpretativo ; la lotta degli umani, cioè dei buoni occidentali è sempre per salvaguardare le proprie cocacole, i frighi e la cucina americana – , il genere prese a declinare intorno ai sessanta del XX sec. A parte arrivarono Alphaville di Godard che a suo modo fu un capolavoro, e poi Stranamore, capolavoro, e Space Odissey, Solaris, sai di chi, e Star wars, il primo, che vidi nell’enorme cinema Manzoni a Milano in prima fila centrale allucinato dalle immagini ; infine Blade runner, visto e stravisto : I’ve seen things you people wouldn’t believe… Attack ships on fire off the shoulder of Orion. Ma dei film moderni, anche la serie Spazio 1999 che passava in tv la domenica pomeriggio alle cinque, visti o rivisti appaiono come prodotti di un declino. La vera ascesa allo spazio e tutta la tecnologia connessa, compressa quella qui che mi permette di scrivere sciocchezze e di metterle in rete, volessi persino dettando a questa macchina, bè hanno in larga misura superato i limiti fantastici evocati dal cinema.

Ma se capita, vado ancora a vedere cose. A suo tempo, con piacere, il Dune di Linch, molto disprezzato e che invece era un bel lavoro di costumistica, ambientazione, luci, messa in sccena e recitazione – il barone Arkonnen come un brufolo raccapricciante e capriccioso e il bellissimo androgino Sting, superbi –. Quindi dei sequel, del sequel del sequel in sala da ieri mi pare, che vuoi che ti dica perché guarda che è difficile parlare male di una cosa che non è un film, questo dune ; leggilo all’italiana dune perché altro non è se non  la proiezione di diapositive – sai gli amici che ti suppliziano con le loro foto animate a Photoshop – del viaggio di nozze in Marocco di Paul Atreides and Chani Kynes. Si può invero lamentare la riduzione del cinema a questo, si può lamentare la mancanza di cinematografia, di mise en scene. E si può osservare come il regista che ha il nome di un automobilista di F1, sia apparso alla madonna della mediocrità e sotto il suo manto azzurro si sia accoccolato. Hic manebimus optime. Altro boh. Di Dune la prima e l’ultima cosa bella che ho avuto dalla noia è Zendaya, per cui ho un debole e che trovo di cangiante e inquietante bellezza da quando la scopersi, fino a scovare in rete tutte le sue apparizioni da ragazzina, in quella formidabile serie fuori dalle righe che fu Euphoria… andata a male in secondo stagione in un autocliché…. e in coppia con la fulminante e bellissima anche lei Hunter Schaefer ( mi rifiuto di qualificare la sua situazione di genere di cui non ce ne può fregà de meno). Zendaya/Chani, qui tra le dune si muove bene, ex ballerina, agile agile studiata, regge benissimo il primo e il primissimo piano, è intensa senza essere straordinaria e si vede che ha cercato di suggerire al regista, senza essere ascoltata ma lasciata fare senza volante, che occorre essere credibili. Chalumet-della-pace-sia-con-lui, forse dovrebbe riflettere invece sul cosa fare da grande ammesso che arrivi ad esserlo e decida di cambiare parrucchiere. Il resto del cast con qualche nomone, omesso per rispetto alla carriera, attinge ai propri ricordi di scuola d’arte drammatica i dejà vu  appresi, ma senza nemmeno l’impegno contrattuale. Forse pagati poco o stufi di tenere la testa ferma, le braccia ferme, gli occhi sgranati in un esoftalmo maligno, la bocca in un ghigno da ictus. Ma ripeto, tutti ospiti del viaggio di nozze, tra tramonti, arconti, pobbie, sabbie, rune, crune, lune e dune e tiro alla fune, con verme.

Volevo uscire dopo il primo tempo che in questo caso è arrivato gradito a lasciare sgranchire il sedere formicolante. In più ostia, davanti a noi una coppia disturbata di piccioncini presi da una còrea extraterrestre, e tuffa le dita nel popcorn e bevi la sprite e apri la minerale e pulisciti il bocchino e vai a fare pipì. Veri alieni? No, autentici rompicoglioni. Dune è risultante di un marketing fascistoide, vedér per credér, che conosce mandibole, tentacoli, ureteri  e allahkbar del suo pubblico.

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L’ElzeMìro di Martedì 27 Febbraio

Dopomezzanotte – Zucchini

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BAMANTI
Desideria Guicciardini-L’Elzemiro alla sua tastiera
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La zona di disinteresse


Guarda ti chiedo scusa per il titolo che è un gioco di parole – del resto c’è da capire quando le parole non giocano visto che giocano un ruolo diciamo di non poco conto nel quotidiano e oltre – ; questa sarà meno ancora che in altre occasioni una recensione , piuttosto un invito. Invito ad andare a vedere La zona di interesse, questo film definitivo l’ha definito l’amico Prato che ogni tanto fa qui delle apparizione come commentatore. Allora definitivo credo venga a dire che, dopo questo, nessun altro film è possibile sulla soluzione finale,  sullo sterminio industriale, detto angelicamente Shoa, fabbricato dai tedeschi quali attori integranti e risolutivi del progetto nazista. Attento a quel che penso : che senza la partecipazione attiva delle masse disaramate quelle armate fanno, fanno ma non sono abbastanza. Ai fascismi, vedi oggi, servono i coscritti volontari, quelli che si lanciano sui cadaveri degli amici pur di conquistare un muro e una ragazza. Non me la danno a intendere Putin ha duecento-mille-milioni di Balilla coltello-tra-i -denti a suo integrale godimento anche qui nella bassa vetero industriale e agroElementare. Altro che vittime e pentiti, la gente segue i duxi secondando la propria naturale propensione alla carogneria, lo scrisse meglio Céline,  al furto, all’appropriarsi, al parlare male e trattare male le serve – si legga Genet – e si ascolti nel film il dialogo tra signore al tè di Auschwitz ; mi dirai se quel parlare male, quell’insultare  il personale, che non si trova o di cui al contrario v’era ai tempi eccedenza, non è uguale, non ti è capitato di sentirlo, a me sì di persona personalmente, tra signore lombardiche, delle sarde ( non intese come pesci azzurri) delle meridionali, delle peruane. Certo la differenza è che poi non si lascia che queste ultime passino per qualche camino ma è uniforme il disprezzo, l’arroganza di chi pro tempore ha il potere di nuocere o se l’è conquistato a gomitate e mica lo molla. Tutti Gengi-skanno tutti Alessandre macedoni. Solito. Vabbè, il film è un raro esempio di coincidenza totale tra forma e se stessa, tenuto in conto che nel vaso il vuoto dentro coincide appunto con il contorno senza soluzione di continuità. Vedrai e ascolterai soprattutto, colpo  di maestro dell’immagine di questo Glazer, poco noto forse ma notabile, vedrai le sequenze notturne che spazzano via gli effetto notte consueti : il buio con fasci di luce a megawatt in un angolo dell’inquadratura. Qui invece, in Glazer, credo l’infrarosso o il negativo, non saprei come altrimenti perché non conosco l’acrobatica tecnologica del cinema d’oggi ; quindi capace che sia bastato convertire un blocco di fotogrammi già montati  con un clic di Adobe after effects. Vedrai. Vedrai che appunto ogni minima scelta tecnica obbedisce all’espressione, ascolterai la musica raccapricciante con cui, su nero, il film inizia e finisce. Basta ; non voglio sversare un canale di parole, ne leggerai a sfare. Mi preme però dire che l’altra sera alla prima proiezione qui nel cinema di Lecco, Palladium, a metà proiezione un angelo del signore ( il cinema è proprietà parrocchiale) è intervenuto con la sua spada a ordinare, Cut . La proiezione si è interrotta, la sala ha preso luce, è partita dai diffusori una musichina da supermercato, parte del pubblico stanco del digiuno sofferto fino a quel momento è andato a prendere bottiglie di conforto e fioriere di pop-corn. Dal punto di vista antropologico pare di poter osservare che l’intervallo e i pop-corn sono nello specifico e di  preciso gemelli ideali del diniego e del disinteresse, unito a una notevole dose di sadismo, con cui le SS si comportavano. E con cui se si vuole, qui nelle nostre tiepide case (→ Primo Levi – Se questo è un uomo), si mastica/mastichiamo, digeriamo, defechiamo l’orrore di fuori. Ci pare che permettere, inconsapevolmente, a questi sentimenti di rimbalzare dallo schermo alla sala sia un gran brutto affare. Ho subìto indignato, indignata mia moglie è filata alla cassa a protestare, con lo chic che le è proprio beninteso ; le/ci è stato detto di scrivere al cinema. Cosa fatta capo ha. Questa la lettera a doppia firma inviata ieri :

Gentili,
abbiamo visto ier sera il film “La zona di interesse”. Nel lodare la scelta di proiettarlo, ci permettiamo tuttavia di stigmatizzare l’altra decisione : di proiettarlo cioè come se si trattasse di un “Barbie” o di un “Poor things” qualsiasi e non di un’opera d’arte. Direte voi : ma chi stabilisce e che cosa qualifica e differenzia l’opera d’arte dall’intrattenimento, dallo spettacolo, in ultima istanza dal marketing. Beh questa trinità di termini spiega da sola a sufficienza.

Nel caso specifico poi ci pare che “La zona di interesse”rientri in un campo estetico più esteso, quello del silenzio : permettere che alla fine di un’immaginaria parte prima , con un cut che ferisce il film come una mannaia, non solo attacchi una musichina da supermercato e qualcuno si alzi per rifornirsi di generose porzioni di pop-corn e bibite, hmm, con animo giapponese da parte nostra, ci pare cozzi con il silenzio appunto con cui certe opere, opere come “La zona di interesse” dovrebbero essere accolte. Il bar potrebbe rinunciare a qualche monetina per rispetto all’opera?

Il film è un capolavoro beninteso e, visti i tempi che corrono, di non poca forza politica.

Con molta cordialità

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L’ElzeMìro di Martedì 13 Febbraio

Dopomezzanotte – Dama che cuce in verde

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L’aria che tira

A occuparsi di qualcosa l’orrore prevale. Un orrore accantonato, una cenere sommessa, niente baraonde, vivente. Leggi qui per comprendere a che accenno perchè accennare è l’unico modo per dolersi,

https://www.quotidiano.net/cronaca/tra-i-detenuti-in-cura-pochi-bagni-umidita-e-stanze-anguste-soluzione-estrema-e8b9952e

E intanto l’Italia che fa? Prega San Remo ah ben si sa.

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Perfects days

Non ti saprei rispondere alla domanda perché ne parli. Tutti parlano di tutto, di argomenti che da certi divengono incerti, cioè assodati, nello stile hai letto-hai visto-siete andati, nello stile del salotto contemporaneo; della coppia creativa  Pericoli e Pirella di Tutti da Fulvia il sabato sera, le strips concluse nel 2009 su Repubblica che al meglio lo descrivono –.  In nulla simile mi pare al salon parigino o  persino milanese di epoche lontane, ma del resto nessuna illusione : Proust racconta bene il salon di Madame Verdurin, per quanto averne, e Flaubert ben scrisse il Dizionario dei luoghi comuni ovvero delle idee chic – Adelphi  (Le Dictionnaire des Idées Reçues et Le Catalogue des idées chics-Livre de poche 2004)

Le critiche dei critici, le anticipazioni della stampa – attento che non affermo nulla di nuovo o che non sia evidente a chiunque abbia un po’ di connaisance de cause – fanno di ogni prodotto per quanto d’arte una merce. Per carità i films xe vèro hanno una loro teca nel supermercato del mondo e compito della critica è appunto quello di entusiasmarsi o farsi entusiasmare per entusiasmare : di un film, in questo e quel caso, di una serie, di un libro come qualcun altro, un tempo si sarebbe detto la massaia, si entusiasma della nuova colf colombiana, del Dyson o del pulitore ecologico per tutte le superfici ( esiste) ;  sono merci  in partenza, anche la colombiana, e dunque giustificate dal mercato. Tutto si trasforma con la chiacchiera o con il premio Strega, sicché il regista diventa genio per i suoi peti o per la baraonda. Anzi quanto più fa baraonda. Vedi Lánthimos.

Ieri sono andato a vedere Perfect days che al singolare era una canzone di Lou Reed bella, a mio sentire. Al plurale,  un film di Wim Wenders. Sono uscito in lacrime  e, se ci penso, ancora adesso il ricordo mi tocca le lacrimali. Non c’è un perché. Potrei razionalizzare ma non ne ho voglia anche perché la lacrima è un oggetto d’uso molto personale. E dunque come si diceva a Catania  a lei che ce ne n’importa. Ma qualche nota mi sento di scriverla perchè mi pare che di un’opera  il pregio è il silenzio, il vuoto che innesca ; qualcuno alle mie spalle in sala alla fine della proiezione è rimasto fermo al suo posto senza dire una parola : buon segno. Io non leggo le spieghe, le critiche, mai, non ho nemmeno mai lette quelle ai  miei lavori  benchè fossero di solito positive ( ah aha) ; come dico a mia moglie che invece ama documentarsi, io guardo le figure, non mi faccio spiegare né prima né dopo ; c’è quello che c’è sullo schermo, in scena o sulla carta. La sintonia con un’opera se è d’arte mi sforzo da me di trovarla se ci riesco. Del resto, un regista di peso in passato, Luca Ronconi, lo dichiarò proprio, dichiarò che il suo lavoro, lo spettacolo era lì da vedere, che non c’era niente né da spiegare, né da anticipare, esso appariva e scompariva in scena nel tempo del suo avvenire. Mescitore di oblio si diceva nel Giappone antico del teatrante, dell’attore. Poi ognuno… fine.

Perfect days intanto è girato in 4:3 scelta di non poca curiosità. Lo schermo non si anima nel consueto 16:9. 4.3 è una scatola, senza entrare in dettagli tecnici, una scatola  di lacca, preziosa. Ci sono scatole per ventagli bellissime. Tu guardi dentro e ci trovi il film, un ventaglio che muove per un po’ l’aria e poi più. Un film, questo Perfect days, che non racconta una storia con un inizio, un centro e una fine ; con un fine ;  sì racconta la storia di uno Jedermann, l’Ognuno di Hofmannstahl ma senza la tradizione dei morality o degli autos sacramentales, senza il fine. Non è un’opera poetica come a qualche sciocco mi è stato detto è venuto in mente di scrivere, preso dalla confusione tra poetico e sentimenale. Con perfetto nihilismo Perfect days è un film senza volontà : si attiene al tempo con l’accorgersi. Poi si ritira. Lascia che lo spettatore si confronti con le inquadrature fisse, osservi e si accorga, usi del tempo, per lasciare passare ; per eccesso è un film che andrebbe osservato dalla posizione del loto. Il primo piano finale di trenta secondi sul volto dell’attore che muta carattere al suono di una canzone che ripete lo stesso ritornello, è una nuova alba, un nuovo giorno e io sono felice, è un mantra. È un’opera zen in questo senso. Senza perché. Un antidoto alla baraonda.

Shiki soku ze ku/Ku soku ze Shiki

La forma è il vuoto/il vuoto è la forma

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L’ElzeMìro di Martedì 30 Gennaio 2024

Dopomezzanotte – La congettura di Kaminski

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…e su questa Stone sfonderai ( è scritto)

In un tempo trapassato e remoto a Milano, piazza Cavour, si pubblicava un fogliaccio voluto da un industriale, il Pesenti, e da un prete metropolitano, Don Pisoni : La Notte. Perché giornalaccio è presto detto : lo dirigeva Nino Nutrizio che oggi  sarebbe minimo ministro della cultura in quanto caro alla signora Meloni ; Nutrizio era inteso fascista, in casa mia, e il suo giornale era scarso in notizie ma sovrabbondante in titoli grassettatti corpo 72. Ne ricordo uno da schiantarsi dalle risa : bimbo ritrovato in una valigia dopo un anno. Inutile dire che mi venne in mente, cambiategliela gli starà stretta . Allora  la Notte era letto e straletto dall’italiano di sempre, non ti dico quale ché già lo sai. La Notte usciva di sera, non ricordo l’ora, ed era però comprata anche in casa mia e per una ragione sempliccissima. In ultima pagina pubblicava la lista completa e senza pubblicità di tutta la programmaziane nelle innumerevoli sale cinema in città, divise per le categorie di allora, prima, seconda e terza visione. In prima i film stavano un po’ di tempo e la prima costava parecchio, le sale erano sontuose, prendi l’Odeon, tutto un sogno art nouveau. Aspettiamo che passi in seconda, dicevano i miei delle pellicole che  interessavano loro ; di altre si aspettava l’arrivo in terza così da risparmiare un bel po’. C’erano inoltre film che andavano subito nelle due altre categorie : i film popolari che a mia madre non garbavano, quei di Totò per esempio. Tutto questo the way we were, per dire che in quella pagina di cinema e nell’altra più succinta delle sale teatrali – che non erano poche, anzi – la redazione composta a dire di chiunque da geni del riassunto stringeva o stroncava la pellicola in oggetto con due righe che invariabilmente davano un’idea di trama e valore propriamente cinematografico del film. Non ne ricordo una ma che so, di 8 e 1/2 avrebbe potuto scrivere : Assilli, capricci e bisticci di un regista al quasi nono film. Sogna e si arrovella nel girar la manovella. Ma Fellini convince ancora. Da vedere. Seguivano gli asterischi o stellette che costituivano sommariamnete il voto al film.

Ora ieri sera sono andato a vedere Povere cose, titolo che traduco dall’inglese poor things, e non si capisce il perché dal momento che more solito il film è doppiato ; e in questo caso abbastanza bene da non doversi gridare vendetta al cospetto degli dèi. Sono andato a vederlo, non ci ho dermito e mi sono seccato non so se più per il film o per un trio di scellerate che alcune file dietro la mia, hanno fatto baraonda come i peggiori teppisti delle terze visioni dei miei anni dorati, gli anni di Bergmann e Fellini e Visconti, che alle proiezioni sbagliate per le loro menti primitive, reagivano appunto col chiasso, le risate fuori luogo e altre amenità da bar del Giambellino. Ma senza Cerutti Gino. Alle scellerate alle fine ne ho dette un po’ più di quattro ma col senno di poi concludo nello stile de La Notte : E Frankestein creò la donna ma gli sfugge di mano e patatrac. Confusione e  compiacimento nel dire e fare il risaputo in una baraonda di colori, scenografia, costumi e sesso ai limiti del ridicolo. La Stone e  Defoe volonterosi volontari per destinazione ignota, soccombono da eroi ma povere cose in mano a un regista seriale. 

Ah dimenticavo, La Notte inventò anche la sigla n.m.r. ovvero non meritevolo (di)recensione. Se ti pare puoi  applicarla a Poor things . Bacio le mani.

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Una nomination non si nega a nessuno

Come di consueto,  ho letto l’Okboomer di Michele Serra su il Post di questa settimana al termine. Tema Barbie. Mi ha talmente colpito, in negativo, che il Serra si sia allineato nei ranghi dei tenori primi al coro degli osanna, che mi sono al solito divertito a replicargli nel modo che qui di seguito copio e incollo :

De gustibus non ad libitum est sputazzellam. La battuta è di Totò ne Totò, Vittorio e la dottoressa, caro Serra. Scrivo solo perché non sono d’accordo con te. E finalmente dirai. Ma proprio per niente e su un campo in cui  gioco in casa : Barbie – non in casa di Barbie –. Premetto, alla mia età e dopo avere visto, per passione e mestiere io non so quanti, forse 10.000 forse 20.000 film, boh, nulla oggi mi cattura più, non come Frenzie o Barry Lindon  e del cine dai primordi fino a non escludere alcune belle pellicole del ventennio, prendi Condottieri, Grandi magazzini, e inorridisci, Olympia Triumph des Willens. Ho visto tutto e di tutto. Totò in toto. Come si fa il cinema lo so. Questo per dire che Barbie quanto l’altra pellicoletta della tale quarantenne signora Gerwig, Saltburn, altro motivo di osanna, vien via no dai. Vuoi trovarci una critica della Merica, beh guardati tutte le serie compresa l’ultima di Fargo e allora lì vedi cos’è lo humour e il sarcasmo e anche qualche bel sentimento (l’ultima puntata dell’ultima stagione è un capolavoro di montaggio e di tenuta degli attori al primo piano che Eisenstein avrebbe promosso.) Barbie : trovo più interessante la vicenda di Klaus di questa sceneggiata così faticosa e in giravolta continua intorno a niente che nessuna regia l’avrebbe potuta salvare : perché non c’è nessuna regola di inizio, centro, sviluppo e fine. Nessuna messa in scena. Solo il continuo associare un puzzle di inquadrature non vincolate al tempo che è il cinema. Nessuna suspense o agnitio… insomma nessuno dei capisaldi drammaturgici riconosciuti. Barbie : frankly non saprei che cos’è. Ah no, ci sono, è un  30 secondi di due ore in stile algida/kinderbrioss ma della Mattel ; una sciocchezza in cui una attrice, con mezzi espressivi e bellezza però, sostituisce alla meno peggio un(a) regista impegnata come oggi si usa in tutt’altro che alla direzione.

Al regista, lo dico pour connaissance de cause non è richiesta l’invenzione di niente che non sia già scritto in sceneggiatura ( Hitchcock scrisse : i miei film sono scritti con tale precisione che chiunque potrebbe girarli e la mia presenza sul set sarebbe superflua). Il regista è poco o niente se non crea il clima di innamoramento, bellezza e incantamento che mette a proprio agio gli attori permettendo loro di creare lo spettacolo, non il personaggio che è solo omoretismo e annoia. Chi mai si diverte a guardare uno che si trastulla. Così qui in questo film assistiamo ai tentativi volonterosi di orgasmo da parte dell’attrice e il nuddu ammiscatu co’ nnenti di Gosling cui si vede che la regista ha forse raccontato un sacco di scempiaggini intellettuali cui ello, per solito bravo attore, non ha saputo che gesto dare. Tutto brilla per assenza di stimoli. Nulla vieta che lo spettatore se li inventi  : per non annoiarsi come una scimmia in gabbia sono incredibili i salti mortali dal trespolo che fa lo spettatore, peraltro nel ruolo di terzo narrante  – c’è chi al ristorante mangia non quello che ha nel piatto, anche una porcheria, ma le sue fantasie sul chi è del cuoco o del padrone  ;  e se il fruttarolo te la racconta, il mandarino secco sarà frutto dei più migliori–. No, il vuoto è la cifra che distingue il cinema di oggi e non è solo di giovanotte come la signora Gerwig ma anche gli anziani in fine di carriera e di vita, Scorsese o Allen ma non Loach, ormai languiscono a fare film di inquadrature, vedasi l’ultima scorsesata appunto per non dire del Coup de chance dalla cui proiezione non sono uscito solo perché la sala era caldina, fuori faceva freddo assai e io ho pisolato davanti a uno schermo per me vuoto. Peccato,  perché gli attori sono anime candide : quando gli viene raccontato che parteciperanno a una grande impresa, è tale in loro la necessità di crederne la sostanza, indispensabile per mettersi in scena e in gioco, che la inventano come l’assetato inventa l’oasi. Credimi, quella del regista è una mitologia, il cascame del titanismo romantico e della nouvelle vague : Renoir figlio di sé disse a ragione che faceva un mestiere d’arte. Il regista che c’è, non si vede e a rigore non se ne parla nemmeno. Il regista bravo sparisce dopo le riprese. L’attore resta e se non c’è quello addio fichi e anche… vag-iai-na. ( come da ultima battuta di birba barbie)

Cordialmente, tuo Pasquale D.

 

p.s. Letto e riletto chissà quanti refusi non ho visto e mi scuso. Il tu con Serra è dovuto al fatto che da tempo ci diamo del Pasquale e del Serra

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Oh che bel re-woke

Ne il Post ho letto con vera curiosità questo sciocco (?)articolo : https://www.ilpost.it/2024/01/20/storia-tossica-della-letteratura-italiana/?homepagePosition=9. Non dico altro ; forse sbagliando ho pensato di scrivere alle due autrici qualcosa di altrettanto sciocco ma che mi ha divertito molto scrivere. Come Palazzeschi… E lasciatemi divertire.

Lettera semiseria a Lorena Pieri e Michela Violante.(→)

Gentili signore, sono nato e vissuto in una famiglia di anarchici, di quelli  in giacca e cravatta che non esistono più, tutti Spagna, Bakunin, Cafiero, Malatesta, Orwell e Catalogna. Dei miei e del loro circolo di splendidi amici, intellettuali, combattenti, legion d’onore, ricordo  bene la francofilia e come e quanto affrontassero la letteratura italiana da sciocchi e spesso da snob, facendo fuori ogni volta questi per catechisti, Manzoni, Dante ; quelli per nevrotici, Leopardi, altri per  fascisti, D’Annunzio ovviamente, borghesi, tutti a principiare dal Moravia, di cui non apprezzavano ovviamente il suo essere caro ai comunisti.  Quando sarebbe bastato dire che era modesto. La lettura ideologica sconfinava : viva Zola e Balzac, abbasso Gide e Proust . Più che circoli intellettuali quelli dei miei erano plotoni di esecuzione.

Lo stesso fate voi oh garbate signore. Ma senza la giustificazione di essere nate e vissute in un paese sciocco, truce, violento e di pessimo gusto, la cui dittatura i miei maggiori avevano combattuto rischiando il collo – mio padre due volte schivò la crocifissione al palo del telegrafo di Quasimodo  – nell’illusione di un certo qual sol dell’avvenire e con una solida preparazione politica. Siete figlie a dir tanto della democrazia cristiana ( per non citare i cashmerini del Cavaliere)  e da lì nelle vostre tiepide case ( Primo Levi, Se questo è un uomo eh sì che non è se questo è un uomƏ + lgbt+qaklpz) gozzovigliate con le interiora di alcuni grandi o grandi piccoli cui è probabile non riuscireste ad allacciare le stringhe o imitare un sonetto – non lo so non vi ho lette e non vi leggerò, ho un’età nemica del tempo perso –. Ciò, donne o uomini che siate o vi percepiate (tranquille io amo e coltivo il mio côté Guermantes, di lei of course della duchessa).

Gl’è che sfoggiando una coda di paglia senza vergogna rivelate per moto contrario il vostro wokismo. Sciocco senz’altro e senza l’attenuante snobbish che allietò la mia infanzia. Su Verdi, su Puccini mettette poi il carico da undici di stoltezze da registi di avanguardia, di quelli che scoprono che Macbeth è un guappo neviorchese e che Don Carlo viaggia non per le Fiandre ma per la Russia degli Zar. Questo davvero non lo si può perdonare. Non è tuttavia colpa vostra ma della redazione de Il Post che vi ha dato credito e per ciò stesso assunto al cielo delle pietre di paragone. Ascoltatela la Pietra, per diletto, ascoltate La serva padrona e non per fare le femmes savantes che interpretano. Non siete i soggetti supposti sapere, di Lacan. E fate la figura di madame Verdurin
Salutarvi cordialmente sarebbe uno spreco di cordialità, direbbe forse Lady Violet Crowley in Downton Abbey, ma avete il privilegio di appartenere a una casta che a gomitate sta diventando dominante egemone. E se ne frega.

P.E.G. D’Ascola

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