Fablìole – I fiori rubati

Questo autoprodotto volumetto è la silloge del premiato Idillio toscano con fiori – scritto per essere detto con musica; non un vero melologo ma una prosa ritmica per voce e strumento – e di 37 nuove liriche con il titolo unificante di Funerali atipici. Titolo che è indizio.
Un ottimo studio, la Graphus di Lecco, ne ha curato la grafica, la magnifica copertina – omaggio a L’Amante morta di Arturo Martini – è di Desideria Guicciardini, che è mia moglie e che tutti conoscono nel mondo dei libri; il logo in calce è di Anna Rimoldi.
Mi è costato parecchio, ma non ha prezzo di copertina. È un lavoro tuttavia e non posso regalarlo. Tu fossi interessato a leggermi puoi contribuire ai costi con una donazione. Dai quel che puoi. Spedizione a mio carico. Se deciderai di ordinare il volume e se, letto, ne vorrai fare un po’ di passa parola grazie.
PER ORDINARE la tua copia MAIL TO : pad8@icloud.com. Precisare nome, indirizzo per la l’invio in piego di libro e allegare ricevuta del bonifico effettuato.
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CAUSALE DELLA DONAZIONE : FUNERALI ATIPICI
Questo autoprodotto volumetto è la silloge del premiato Idillio toscano con fiori – scritto per essere detto con musica; non un vero melologo ma una prosa ritmica per voce e strumento – e di 37 nuove liriche con il titolo unificante di Funerali atipici. Titolo che è indizio.
Un ottimo studio, la Graphus di Lecco, ne ha curato la grafica, la magnifica copertina – omaggio a L’Amante morta di Arturo Martini – è di Desideria Guicciardini, che è mia moglie e che tutti conoscono nel mondo dei libri; il logo in calce è di Anna Rimoldi.
Mi è costato parecchio, ma non ha prezzo di copertina. È un lavoro tuttavia e non posso regalarlo. Tu fossi interessato a leggermi puoi contribuire ai costi con una donazione. Dai quel che puoi. Spedizione a mio carico. Se deciderai di ordinare il volume e se, letto, ne vorrai fare un po’ di passa parola grazie.
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CAUSALE DELLA DONAZIONE : FUNERALI ATIPICI
Questo autoprodotto volumetto di lirica in due parti presenta nella prima il premiato Idillio toscano con fiori, scritto per essere detto con musica; non un vero melologo ma una prosa ritmica per voce e, forse, chitarra. La seconda parte del volumetto riporta le 37 liriche sviluppate nel tempo che danno il nome alla collezione: Funerali atipici. Il titolo è indizio.
Un ottimo studio, la Graphus di Lecco, ne ha curato la grafica, di Desideria Guicciardini, che è mia moglie e che tutti conoscono nel mondo dei libri, è la magnifica copertina – omaggio a L’Amante morta di Arturo Martini – il logo in calce è di Anna Rimoldi.
Mi è costato parecchio, è un lavoro e non posso regalarlo. Mi pare quindi che la cosa migliore per te e per chi altri sia interessato a leggermi, sia contribuire ai costi con una donazione. Ognuno dia quel che può. Spedizione in piego di libro a mio carico. Se deciderai di ordinare il volume e se, letto, ne vorrai fare un po’ di passa parola grazie in anticipo.
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CAUSALE DELLA DONAZIONE : FUNERALI ATIPICI
Mi spiace caro mio e cara mia, oggi sarò sgradevole e brutale ma senti, se accetti e inghiotti senza un plissé la lettura delle notizie dall’Iran, dall’Afganistan e dalla Russia e se non ti vanno per traverso i piccoli corollari qui locali – per esempio che nel sacrario franquista della Valle de los Caídos dove i fraticelli si facevano gli orfanelli dopo averli imbriagati, anni ’60 – se non ti indigna che un deputato in parlamento metta mano alla Bibbia per stigmatizzare ex cathedra gli amori non consacrati dallo stigma del triangolo e della colomba, se non salti per aria a leggere degli attacchi alla senatrice Sègre da parte di uno chef bisunto e antisemita, bref, se non sei colto dall’orrore per quello, non mi verrai a dire ora che ti farò schifo io qui imponendoti una barzelletta turpe e rivoltante che mi fu raccontata secoli fa da un notissimo e bravissimo attore fiorentino ormai stradefunto e superomo, per quanto squisitissima persona. Ma insomma ognuno, se è intelligente e di gusto, ha, passa e smussa i suoi angoli deteriori, anch’io; se ne rende conto e chiede scusa a sé stesso, soprattuto per essersi offeso.
Non insisterò ora sul termine che leggerai e che è divenuto comune oggi, non nella mia giovinezza, tanto che le ragazze più timorate ne usano riferendosi, così mi è parso di sentire dire, a sé medesime e alle amiche. Osservazioni parzialissime fuori dai licei, ma non solo. Ebbene la ricetta: per non offendere oltre, la ricetta è ripeto turpe e offensiva e girava nell’ambiente di teatro e di omosessuali, ambiente in cui sono stato senza paure né fastidi, tranne in un paio di occasioni prepotenti alle quali mi opposi con bel garbo. Ma della prepotenza, del dileggio feroce, dello stupro mentale prima che fisico, della prevaricazione, in altre parole dell’abuso, mi pare sia assodato esista, sia largamente diffusa e propalata un’inguaribile, cultura è offendere la parola nell’usarla, quindi diciamola tradizione, costume, farlafranca. Sfondata questa porta aperta, e detto che ai tempi la barzelletta offese il mio femminile (parafrasando un detto tedesco Auch die Frauen sind Menschen-anche le donne sono uomini, dico con sicurezza: Auch die Menschen sind Frauen-anche gli uomini sono donne) si tratta di una ricetta di cucina e alla lettera eccola qui: la figa al mattone.
Udite: si prenda dunque una …vulva freschissima di al massimo 15 anni, la si tagli al carpaccio sottilissima, se ne pongano le fettine tra due mattoni roventi per un minuto e poi le si lasci marinare in (olio limone, pepe, sale al solito) per almeno un pomeriggio. Così come sono nella loro marinatura si avvolgano le fettine ciascuna su una bella oliva grande con una fetta di prosciutto, una foglia di alloro, si fermino gli involtini con uno stuzzicadenti e li si ponga su una fetta di pane casereccio su cui avrete disteso un bella fetta di lardo con un filo d’olio; pepate e passate in forno a 180° per una ventina di minuti. Servite caldissima ma purtroppo sentirete che la vulva avrà ancora sapore di vulva.
È questo sapore di vulva, l’orrore per l’origine del mondo che a mio immodesto avviso suscita e tiene viva l’onta, larvata qui, schifosa lì, di violenza, di sopruso, di abuso, di dileggio, di prepotenza contro donne, bimbi e ultimamente uomini, basta essere indifesi o fragili o intesi tali, cioè donne. Ora mi lancino un fatwa che ci faccio un aeroplanino di carta, ma questi delinquenti iraniani, afgani, la duma, Putin, i popi e tutte le chiese ( vae la chiesa con la sua feroce esaltazione della donna tappata, denaturata, circonflessa, di fatto infibulata, offesa da uno spirito divino assassino – ma i greci non furono da meno –), vorrei che fosse chiaro: sono pederasti in turbante. Pederasti che non a caso oggi fanno i genitali delle donne al mattone sparando loro a brûle-pourpoint. Quindi altro che: blocco navale, blocco delle esportazioni e delle importazioni, ritiro dei diplomatici, delle banche d’affari e di tutti gli affaristi da chilli paiesi, rescissione unilaterale di commesse, contratti, transazioni. L’Iran com’è e gli altri citati vanno fatti fuori.
Con buona pace di personaggi come Massimo Fini che afferamno il contrario, non sono per niente d’accordo che ogni popolo abbia diritto a darsi la forma di governo e le leggi e i modi che più gli piacciono: esiste un diritto non saprei come dirlo, sovrumano, al bello e al buono che se offeso, intaccato, brutalizzato anche da quei genitori che coerciscono – non li si scambi per blandizie i battesimi, i catechismi, le comunioni – i figli a condotte familiari e religiose, è una bestemmia, un delitto di lesa umanità: non di genere. La religione è un delitto. Un delitto da pederasti.
https://www.theguardian.com/commentisfree/2022/dec/09/britain-oligarchs-dictators-fear-us-britain
Te lo dico col cuore: sono molto contento. Ieri sera e nonostante la consueta diffidenza per i cindarassbùm scaligeri, come ogni anno da qualche anno però, ho voluto assistere questa volta all’inaugurazione, da casa ovviamente, soprattuto per Musorgskij, autore che conosco quel poco e per la curiosità verso il Boris Godunov che non conoscevo affatto. Folgorazione doppia: dall’opera stessa – opera poi, ah vedremo – incontenibilmente geniale; e dallo spettacolo di cui il meno che si possa dire, ricorrendo a una terminologia riduttiva teatrale, è che è azzeccato, funziona. Poi se ne può dire di tutto, persino, vedremo, che ha qualche debolezza. Ma in generale quello che mi piace sottolineare è che ieri sera ho rivisto la Scala degli anni miei, di Grassi e Abbado, quando l’inaugurazione era una grande inaugurazione, con cast da paura, direzioni musicali di Abbado da pelle d’oca e tutto il senso del teatro, vero teatro: niente treni, allusioni ad anna magnani e lambrette e zeffirelle di torino con barba. Ci si intenda, l’opera lirica rimane quell’ibrido che è ma è inutile storcere il naso, la sua comparsa sulla terra va intesa a tutt’oggi come una meraviglia. Lo dice uno che non l’ha mai amata per principio ma per per la fine.
Premetto che non sono in grado di farne, ed è inutile peraltro perché di analisi della partitura ne esistono a schiovero e, anche ne fossi capace, perché mai farne un’altra. Dal punto di vista teatrale, quello che interessa qui, voglio farti notare qualcosa di non poco conto. L’assoluta genialità della struttura del Boris sta nel fatto che non è un’opera lirica. Circa 50 anni prima di Brecht, Musorgskij scrive una dramma musicale radicalmente nuovo (1869), cosa che a Wagner non riuscì preso com’era dalla sua ideologia da cigno. Boris sta all’Opera da tre soldi non ad altro. Certo è più impressionante ed anche meglio scritto ma quello che conta, a mio modo di vedere, è che è un dramma epico: l’azione è quasi di continuo narrata, epica appunto; è l’Iliade o se vuoi del tutto simile a Macbeth o ad altri drammi di Shakespeare in cui duelli, battaglie, le cose vengono raccontati: poi ci sono le canzoni e i cori. Detto questo hai detto tutto. Sulla funzione del coro, che è anonimo, popolo appunto o polis, non starò qui a ciabare. In Boris il coro non è il coro della Traviata. Tutto ciò avrà/ha quasi con certezza a che fare con una tradizione da cunto de li cunti , da conteurs se mai ce ne sono stati in Russia ma credo proprio di sì, che è con tutta probabilità incistato in quella tradizione e che a Musorgskij stava a cuore, contro la tradizione lirica europea: arie, cabalette duetti e piripì. Vabbè, nota bene dunque: epica. Su questa pietra si appoggia una dramma di squisita natura politica, veemente, tragicamente pessimista se vuoi, rivelatore di un pensiero che ieri sera mi è parso ben esplicitato ( ma senza, treni, carri armati e mitragliatrici) dalla direzione attenta di questo signor Holten e dal suo sodale Es Devlin: la Russia non cambierà mai finché non la smette di aspettarsi piccoli padri e messia. Finché non si riscatta dalla superstizione e dalla convinzione dei santi e di una sua immaginata grandeur. Dal suo misticismo primitivo. Dalla sua debolezza di mente. La relazione con l’oggi è automatica e ci sta proprio.
Trattandosi dunque di epica il sontuoso impianto scenotecnico, più che ottimamente secondato dai macchinisti della Scala, chapeau, è basato, avrai visto, su una sorta di struttura cavernicola fissa ad emiciclo, ostruente e obbligante come una scena greca. E da una serie di sipari che in realtà non sono tali; si tratta di illustrazioni da libro, vuoi per l’infanzia vuoi di cronache popolari. Queste illustrazioni di incredibile fattura e bellezza, alte come una casa hanno il duplice ruolo di didascalie e di conduzione dello spettatore dentro una sorta di matrioska di immagini che alludono, spiegano, portano nel mezzo di ambienti e situazioni suggerite, alluse, guarda, teatrali tout court. Per insistere sono i cartelli brechtiani elevati alla enne. Qualche imbecille, traviato dai vezzi delle fiammiferaie e dalle maîtresses della regia italo-europea di oggi, ha osservato, il povero facocero, che la regia era statica. Certo: un’opera parlata si parla mica si shake come una spear, a muzzo. Cosa vuoi agire un lavoro basato sulla solennità della parola, russa magnifica proprio perché non si capisce niente ( evviva i sottotitoli tuttavia) declamata, detta, cantata sì a suo modo e che tuttavia, te lo dico in serio, mi ha fatto piangere. Parola usata dentro l’orchestrazione non per volarne fuori nell’aria sentimentale ( sentimentalismo assente, sentimento tanto) ma per avvinghiarsi all’organico strumentale in un continuo avvicendarsi di soluzioni musicali che si discostano, ripeto, e dai numeri chiusi e da quelli aperti: Boris, a volere, dovrebbe essere eseguito dritto senza intervallo, non fosse che almeno per Boris il secondo atto è una fatica di presenza continua (per quanto? 75 minuti dicono). Di fatto lo spettacolo fila via liscio che nemmeno ti accorgi.
In sintesi, benissimo invece questa regìa accorta e attenta alla struttura e alla direzione musicale anche proprio nel senso dello stare attenti a Chailly e ad ogni richiamo dell’orchestra. Attenta a stare nei binari del rigore estetico. Qualche pecca minore. Se nel primo atto lo spazio scenico vuoto era del coro senza altre distrazioni, a parte la formidabile meraviglia del corteo di intronazione, con una porta che si spalanca per magia scenotecnica da uno dei sipari e si apre, (dirai su un corteo di lambrette? no no), una coorte di preti e e spose e labari d’oro e tutto un repertorio iconico semplice: un corteo, a piedi e stop; nel secondo atto l’intuizione corretta di fissare lo spazio in un interno un po’a Mosca a Mosca, un po’ biedermeier, allusivo dell’epoca di Musorgskij e quindi teso a levare la storia dalla storiografia per renderla l’eterna storia deteriore della Russia, casca un po’ nel genere attrezzeria Rancati ( vedi →). I tavolini e le abat-jours, il mappamondo, il lettone sì, vabbè ma non sono icone, non sono segni, sono arredamento. Pier Luigi Pizzi avrebbe messo un divano, ah certo, ma lungo 8 o 9 metri e con un tavolo, a volerlo, di eguale sproposito davanti. L’allusione alle dismisure del Cremlino di oggi avrebbe giovato. Il ricreare un ambientino da boudoir di Boris non è stato geniale come il vuoto da cappella del primo atto. Bello invece l’arrivo dei boiari, attaccati alla poltrona e bello in generale far notare con piccoli movimenti quale sezione di coro canta: tenori I, baritoni, bassi, II e idem soprani, mezzi e contralti. Un’esigenza di chiarezza che imparai fin dai primi giorni di Scala. Si vede che il signor Holten ha studiato. Bellissime le luci( nonostante la convivenza con quelle invadenti della televisione: che altro dire) Per me sorprendenti, dato che non sono più aggiornato in tecnologie di teatro, gli effetti di luce che colano come acquerello sui sipari, colando alla lettera ora in questo ora in quel punto voluto: non ti saprei dire che diavoleria hanno usato ma super-efficace ( perché poi sono convinto che sia semplice, all’antica). Ho apprezzato persino l’uso del seguipersona, quelle che tu chiamerai magari follower e che fa figo ma è la stessa macchina dei tempi del varietà. Ci sta.
Un cenno ai costumi di Ida Marie Ellekilde va fatto: ecco, non sono eccezionali e trovo che in generale, tranne quello delle guardie nere con la corazza ma anche i fucili, (ci stanno non disturbano, rendono l’idea dell’eterna polizia), non sapevano da che parte andare. Mescola mescola elementi del ‘600 russo alle consuete marsine ottocentesche il risultato è che i costumi erano un po’ da grande magazzino danese, schiavi di un design minimalista o puramente senza fantasia. Un panciotto marrone sotto un abito marrone fa Ermenegildo Zegna non Boris. Del resto la costumaia si presenta alla ribalta per gli applausi con un feltro crème da homassa ignorando che non è estate a Principina a mare e che in palcoscenico non si indossano cappelli. È pura ignoranza della buona educazione; sicuro che la signora si si sentiva quello che è forse: una turista danese. Intendi bene questa blanda osservazione leva poco a un spettacolo sontuoso e ripeto, azzeccato. I costumi alla fine non si notavano e va bene così.
Un cenno ai protagonisti va fatto. ( Il coro si sa è storicamente eccellente alla Scala). Ebbene di rado si sente cantare, fraseggiare, modulare, utilizzare il proprio strumento espressivo, la voce, con la maestria che tutto il cast, anche le parti minori hanno portato in scena. Poi tu puoi leggere i punta spilli della stampa. Eccezioni di spicco, diciamo un rigo sopra gli altri senza mai andare fuori dalle righe, il signor Boris e il signor falso Dimitri (qui di seguito tutti i nomi), entrambi peraltro di bell’aspetto. L’attitudine in scena, del tutto libera di darsi spazio e attribuirsi con vasta autonomia il gesto, ha contribuito a una visione senza peccati di psicologismo – assente nell’opera proprio ripeto per essere epica – o eccessi grand guignol. Una cosa non mi è piaciuta: la coltellata finale Boris che non c’entra. A mia moglie invece il transito ripetuto dello zarevich insanguinato dal principio alla fine dello spettacolo. Non dava troppo fastidio a mio avviso e la comparsina che ne sosteneva il ruolo era educata ad arte a non strafare. Ma vabbè. In definitiva, come ho accennato, una resurrezione della Scala. Ora se si libera piano piano dalle vetriniste… ebbè.
Inutile dire della regìa televisiva, indispensabile e attenta alla musica. Sbagliata nel ricorrere di continuo ai primi piani: ma si sa che il primo è il piano televisivo per eccellenza. Là dove il totale dall’alto schiaccia inesorabilmente le prospettive e non rende i volumi. Lo si sa e non c’è niente da fare. È tutto. Suggerisco di investire in un biglietto per una delle prossime recite. Stammi bene.
Boris Godunov – Ildar Abdrazakov (basso)
Fedor – Lilly Jørstad (mezzosoprano)
Ksenija – Anna Denisova (soprano)
La nutrice di Ksenija – Agnieszka Rehlis (mezzosoprano)
Vasilij Šujskij – Norbert Ernst (tenore)
Ščelkalov – Alexey Markov (baritono)
Pimen – Ain Anger (basso)
Grigorij Otrepev – Dmitry Golovnin (tenore)
Varlaam – Stanislav Trofimov (basso)
Misail – Alexander Kravets (tenore)
L’ostessa della locanda – Maria Barakova (mezzosoprano)
Lo Jurodivyi – Yaroslav Abaimov (tenore)
Pristav, capo delle guardie – Oleg Budaratskiy (basso)
Mitjucha, uomo del popolo – Roman Astakhov (basso)
Un boiardo di corte – Vassily Solodkyy (tenore)