Giovedì 17 aprile. Siamo stati di nuovo a visitare gli Uffizi. Era qualche anno che non ci s’andava, Desideria la di me signora e me stesso. Considera il prezzo dell’ingresso, 29 euro, riduzioni per pensionati zero. Si sa che l’arte è un lusso, è incontrovertibile e va pagata come tale, lo stesso però mi pare checchazzo : du’ baiocchi di sconto, almeno per quei pensionati acculturati che di pensione vivono, potrebbero concederli, gli Uffizi. Che sono speciali e allora vabbè andarci è un dovere. Non che manchino le quadrerie in Italia, pensa a Urbino, uàu, se vuoi Brera, Parigi, Vienna ahpperò, e nel resto del mondo. Escludo dalla conta quelle americane. A un naso europeo infatti, di noi buoni per una soluzione finale, da parasites cioè, come ci è stato ricordato di recente dalla coppia più brutta del mondo, i Trusk, le due gallerie, belle non discuto la National di Washington e la Metropolitan di NY, che ebbi modo di visitare avevano, 1976, e hanno oggi nel ricordo l’intollerabile poetica dell’eccesso, della boutique burlesque, ogni capo col suo cartellino del prezzo. O forse nemmeno : il prezzo è così alto che si dà per scontato che nessuno lo chiederà, nemmeno alla cassa dove basterà dire Vanderbilt e il conto arriverà dritto per mail al commercialista. Così immagino che vivano gli abitanti di Nolita a Megalopolis. Quelle esposizioni, hanno l’odore, delle dame di tutti i generi, dalla elle alla q alla di più, ma tutte del lusso appunto, che si adornino di Pollaioli e Beati Angelici come si fa con un Dior e un paio di Louboutin. Ovvie le mutande di Victoria’s secrets. Et merde alors.
Ma gli Uffizi. Pènsane quello che vuoi ma questa raccolta fiorentina mi pare oggettivamente unica in quanto esposizione totalizzante di tutta l’arte che in Italia, in buona misura a Firenze, si è fatta. Visitare tutto quel monumento nazionale è impossibile, ci passi, sniffi qua e là ma prima di cascare nell’abuso di stupefacenti. Se si ha l’accortezza di decidere in anticipo che ci si limiterà a un consumo personale, selettivo delle opere, se ne esce scossi ma ancora vigili, reattivi e collaborativi, e in uno stato di gioia raccolto, pensoso e segreto che, bada, non è euforia. Dunque ti dico di tre cose che mi hanno colpito come altrettante frecce. In primissi : La battaglia di San Romano, di Paolo Uccello, che mi sta a cuore da tantissimo tempo ma, sai com’è quando vedi e rivedi dei capolavori, capita che o ti deludano perché ti rendi conto di avere nel tempo intromesso tra te e un’opera ridondanti lenti di magnificazione, lenti di fabbricazione mentale, specialità del narciso che nell’osservare proietta sulle cose una luce di compiacimento ; l’arte peraltro se è tale, tutta l’arte ti trafigge a seconda del momento in cui ti trovi. In secundissi la quadreria dei ritratti giù al primo piano e in terzissi la Giuditta e Oloferne di Artemisia Gentileschi. E lì proprio la trafittura è il motivo del quadro.
La battaglia di San Romano di Paolo Uccello, avviene in un momento in cui l’arte musicale è ancora lì a organizzarsi, sicché Paolo dipingendo suona, ovvero, all’osservarla nei particolari al meglio delle possibilità del mio occhio di Watson, la campitura della battaglia mi ha rimandato al termine partitura. Dipinge musica Paolo : guardo e vi catturo il frastuono metallico del cozzo, tra il De Pero e l’intonarumori di Russolo, ah bè è molto forte, stride, e puzza l’odore del sudatizzo e del sudicio, feci persino, e di sangue spruzzato sulle lamiere. Uscendo a malincuore dalla sala dove volendo avrei già chiuso la mia visita per eccesso di segnale, bon mi sono tuttavia domandato ancora una volta la domanda cretina : come è stato possibile, da dove arrivò tanta sapienza, trascura pure la tecnica perché la tecnica è solo il presupposto, una astrazione che si incarna nell’artista, assume le sue mani, come, a mio avviso nevvéro, come l’ovulo lo spermio, e occorre adattarla alla rivelazione che di sé fa la composizione prima che la si traduca in gesto. Beninteso : la stessa interrogazione te la rivolge una discreta maggioranza delle opere rinascimentali esposte o di cui hai memoria, ma di nuovo : come è stato possibile. Una parziale risposta è arrivata un paio di ore dopo nella galleria dei ritratti. Prima però un’associazione mi è brillata in capo tra la sanromana e le partiture di Sylvano Bussotti, fiorentino di nascita e inclinazioni, capisca chi può, partiture irte di segni grafici, rimandi pittorici di lui il sylvestre, pittore di musica pittrice. Paolo Uccello non so se lo fosse, musicista dico, ma quella tela procede ripeto come una partitura. Le lance di sinistra, le fiorentine vincitrici con in vetta il loro campione Niccolò da Tolentino si rincorrono come in una fuga di tutti i violini, primi e secondi, precipitano verso il tema della scena, lo scavallamento del campione senese Bernardino della Carda, lì dove affondano tra timpani e grancassa di cavalli, e teste e zoccoli e viole e celli. Le aste senesi, svettano sì ma in resta, ferme, vinte arcate di contrabbassi. L’asta del da Tolentino dritta come un a solo di tromba. In alto a sinistra lance di chissà forse una riserva di fanti che procedono per moto contrario a quelle del primo piano : biscrome puntate di trombini in Si♭, che ne annunciano il passo. Roba da Rossini. È un quadro non bello, bensì bellissimo e di più ; si sa peraltro realizzato in tre sezioni, la seconda a Londra, la terza a Parigi. Dicono che Picasso avesse in mente un altro lavoro, dicono il Trionfo della Morte ; invece non sono riuscito a levarmi di testa l’impressione che per la sua Guernica avesse proprio la Battaglia di San Romano negli orecchi. Musica concreta, un Morricone quello di Picasso, vai a Maˈðrið/al Reina Sofia solo per questo e mi dirai se non ho ragione di avere orecchie per intendere. Ognuno beninteso senta e ascolti quel che può come può.
Artemisia Gentileschi, l’ho vista per la prima volta dal vero. E dico apposta Artemisia e non Giuditta. È un quadro enorme che narra di un enorme trafittura, lo sconcio – noto a tutti voglio credere – appunto subìto da Artemisia che, una metafora del cazzo fa infilare in gola a Oloforne dal proprio doppio Giuditta : e ben ti stia maialo. Sotto a mirarlo c’era un trio di visitatrici, con una bambina. Signore sì, tagliare tagliare. A fronte del continuo ricorso all’omicidio di tutti questi accoltellatori evangelici direi che il manifesto del femminismo potrebbe essere il quadro di Artemisia.
Infine la quadreria dei ritratti e autoritratti. Mai vista prima, però mia cognata, un tempo restauratrice al laboratorio di Pitti, mi dice che sono stati recuperati alle cantine decine di quadri, oltre a quelli trasferiti dal corridoio vasariano. Vabbè, eccoli qua i volti degli autori. Una considerazione inattuale. Volti di persone che al contrario dei loro predecessori duecenteschi, pittori della fede, raschiatori di martiri e cristi e mani e piedi a perpetua esaltazione della morte e del sanguo che la loro fede presupponeva, allora poi, quando si fa strada la rinnovellazio umanistica, ed è una mutazione genetica della fede, la religione, a prendere il sopravvento, la pittura è lì a sondarne l’umano troppo umano : madonne che ammiccano, bambinelli smorfiosi, e santi e magi pigliati tra Medici o tra chi al loro posto, umani troppI umani. E Vèneri. Con la nascita correlativa e con la Primavera, Botticelli rivela che dietro il quadro c’è un volto, c’è un autoritratto. Che l’umano troppo umano salta fuori e svela occhi di intelligenza prepotente, sfavillante, capace di concezioni pittoriche ardite, di arte e oltre all’infinito. Prima di tutto. Con la religione si prese a fare i conti, nel senso di fatture al cliente con saldo a trenta giorni. Ognuno badando al suo particulare.
Autoritratti da cani. Ho osservato che sempre di più gli umani intorno, dal loro specchio interiore rimandano il ritratto ringhioso del loro camuso cagnazzo da combattimento, qualcuni nemmeno, quello di metallo del loro suv pit buller. Per dire che le persone sono una canea affamata della pappa altrui, americana, da fiera delle obesità. Brüta e cativa. Rari i buoni, se non i buoni a nulla come me.

