Nessuna pietà per i vincitori.

Kiev, 28 agosto
(REUTERS/Stringer)

Tienti forte ché stai per leggere una frase di una trivialità cosmodromica. La frase non è mia ma mi è rimasta impressa, per affetto verso un mio collega della Scala di Malanno, une bel tipo del PCI,  che la usava spesso, magari durante un contenzioso di estetica musicale, come variante del vezzoso chacun à son gôut ; con il suo bell’accento genovese  acculturato però ti sparava lì per lì un bel, c’è chi ci piace il gelato al limone e chi ci piace prenderlo nel culo.  La battutaccia, dalle sue labbra mi arrivava come una soavità di Da Ponte e mi serve a convalidare un argomento la cui versione complessiva e dotta trovi qui in calce nel link al solito Post. Se per caso sei abbonato. 

C’è chi fa, o dis-fa ( sottolineo per separazione il negativo dis- che in latino viene a significare malamente), c’è che si affretta e si adopra, crea opere d’arte o comunque dell’ingegno e che tuttavia  poi si scalmana allo stadio a gridare, ammazzalo. Tra le due persone non c’è contraddizione perché stanno nello stesso sistema e si possono sommare tra loro e via discorrendo. In parole povere, ho sempre creduto e spiegato per conseguenza agli allievi della mia istituzione d’arte, che tra l’artista e l’uomo la differenza è in quello che fa a letto o in gabinetto. E non è conciliabile, del resto il grande e capace produttore di cinema Weinstein si accertò che era  il lupo mannaro che metoo. Ricordo a questo proposito un fatto che uno può credere o non credere. Ero al secondo anno di lavoro alla Scala, appunto con quel mio collega,  e si stava allestendo il Macbeth di Verdi. Direttore Claudio Abbado – forse ne è rimasta qualche memoria – regista Giorgio Strehler – credo del tutto dimenticato anche dagli animali da palcoscenico che abbiano meno di settanta anni –. Bon, in una pausa dalle prove estenuanti mi capita di andare al bagno a darmi una lavata ( il lavoro di noi apprendisti consisteva nel correre come criceti in gabbia). Al piano palcoscenico c’erano due bagni  separati da un sopramattone. Sicché  chi stava nell’uno, sentiva bene ciò che accadeva nell’altro. Allora, io sono di qua a darmi una rinfrescata e a fare pipì, e dall’aldilà sento arrivare inequivocabili rumori di intestino che si libera di gas e altre cose. Che fare, niente, so ist es mi Leben, così è la vita. Fatto sta che  mi arriva anche l’inconfondibile accento triestino del Maestro Strehler che, ah che bella cagata, sbròdola. Ne fui scioccato, allora, perché da sciocco pensavo che il sublime Maestro, il fondatore del Piccolo Teatro, dovesse essere un corpo unico di intellettuale ed artista sublime che tutti gli appiccicavano.  Che il maestro dovesse reprimere l’intestino , anzi che non dovesse averlo per niente, non come noi mortali, lui l’angelo brizzolato e tinto di azzurrino, tanto che ai tempi lo si chiamava la fata turchina. Off the Records , a me era simpatico il fata soprattutto quando gli partiva il detto dialetto con il suo conterraneo Edo Müller, gran pianista. Più tardi mi si è chiarito, e so di sfondare una porta aperta, che invece in tutti noi convivono, magari addentandosi, diversi tipi umani, dai comportamenti differenti, con epifanie del desiderio che confliggono, non per caso direi, con l’immagine che, come  pubblico, dall’opera, dall’arte vogliamo  ci venga restituita di ognuno : di angelo in buona sostanza. Credendoli angeli, il pubblico si identifica con un’immagine che di sé allestisce per supervalutazione dell’usato, che aiuta a piacersi e spesso giustificarsi. Diffusamente, si esige coerenza dall’artista, quella che il poveretto non riesce a trovare perché non si guarda allo specchio. Transeat. Insomma delle somme, l’opera d’arte non è l’artista. Guarda Caravaggio, per dire. Non gli presteresti mai cento euro, sai che mai li rivedresti. E occhio a spiegare, ah spiegare spiegare spiegare, questo o quel brano di musica con i patimenti, the slings and arrows of outrageous fortune, del compositore.

Allora c’è un contenzioso che mi vede del tutto contro chi tira in ballo la balla, la sciocchezza né bella né buona che l’aarte, la mòòòsica sono sopra tutto, al di là delle parti, la trinità, linguaggio universale  bellezza purezza ; e contro certi artisti che alla balla si appellano e sono toccati dalla grazia ma di Putin, e il discorso vale per i tanti quanti che da questo o quel dittatore (tutti maschi se ci fai caso), sono (stati) beneficiati o hanno scelto di lodarlo, allisciarlo, nemmeno richiesti complici di malefatte, solo per  identificazione o, dìn dòn dàn, viltà. Ci torno. Capita dunque che Woody Allen non solo vada a Mosca per un autarchico festival del cinema, in barba alle sanzioni, ma dobbiamo apprendere che si ritrova a dibattersi in un dibattito tra artisti di regime, quel lì neosovietico del Putin, stira loro il pullover, e ah Bondarciuk che grande maestro, (magari chissà, ah Cechov e Tolstoj )   e a Mosca e (san) Pietroburgo e che magari magari, gli si offrisse l’opportunità, un film in Russia ei lo girerebbe ; non so se ha ricordato, a me capitò però di sentirlo dire da chi non dico, il bene che fece Stalin alla cultura aprendo scuole di musica e di ballo e che in Urss ai tempi a scuola tutti. Poi l’Allen, con grande incoerenza corre ai ripari e al Guardian dichiara che Putin, ah orrore, ah obbbbrobrio però però però l’artista e l’arte no, non me la toccate. Ora invece secondo me va toccata. Sia chiaro non si può levare la carta igienica agli Strehler, al cui non si comanda. Ma alle opinioni, a prescindere, sì. Ovvero, i ciula ( pop. sett. persona stupida e credulona) e i carògna ci sono sempre stati e non se ne vedono per ora segni di estinzione ; vero che un uomo che fa un mestiere d’arte è libero, in tutta evidenza di fare l’uomo, persino il maschio, ed esprimere o persino rappresentare qualsisiasi idea o corrente o quel che sia, prendi Marinetti o il Pirandello della lettera al duce : abbagli. Però se sfila sul carro del vincitore deve essere, moralmente e in pratica disposto ad accettarne le conseguenze : che nessuna pietà per i vincitori. Questo se ha carattere e coraggio. Oppure è un Don Abbondio che, per sua stessa ammissione, il coraggio non se lo poteva dare. Un vile. 

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About dascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi della rivista Gli amanti dei libri, diretta da Barbara Bottazzi, sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito
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2 Responses to Nessuna pietà per i vincitori.

  1. azsumusic's avatar azsumusic says:

    Signor Furore si era però discostato da signor chiaccherone (ndr). Poi che essere nazionalisti sia cosa comune a tutti li popoli, con esiti diversi…dico, diversamente ci estingueremmo. Diventeremmo androidi. Non che il processo sia lontano: la globalizzazione fa man bassa al grido della sua grancassa. Bip, Bip, Bip. Sono 127 euro e 69 centesimi. Il sorriso non è incluso, la roba te la imbusti da te, alle 19:30 stacco. Va detto: alcuni nazionalismi, tipo quello italico, sono genialate. Neghiamolo, va bene. Si torni alla turca senza bidet. Dei nazionalismi fottitori, alla romana, ne abbiamo un tremendo bisogno. Prendi spunto, si, ma poi elaboralo a modo tuo, fagli credere che lo hai fatto tu. Miglioralo. Non fare come i Guandong. Passino i pisciatoi ma facciamoli al chiuso. Diamogli identità. Evitiamo il volto di un altro alla Teshigahara. Insomma, perché mai dovrei mostrare le fattezze del mio attrezzo visto dall’alto alla concorrenza? Perché mi fottano le notizie a loro volta? Deve esserci l’effetto sorpresa. Il ringalluzzimento finale. Le scommesse al tavolo. Tutti abbiamo la sotto qualcosa: dobbiamo fare a gara a chi è più bravo nel ladrare, nell’elaborare. Fotografare da sotto con un tele allunga. Altro che svelare quello che si sa già, come appiattire tutti a tennis con calzini Nike porno ’93. Ecco, se essere nazionalisti significa inventarsi qualcosa facciamolo. Per i nostalgismi ci pensano i talebani e quelli che gli sono fratelli. I risultati li sai. Poi, forse ci si scorda che tutti siamo nazionalisti dell’io, individualisti al nucleo. Mentre quei pochi Santi che non lo sono perdono la vita e prendono la medaglia al valore per aver salvato qualche imbecille convinto che un tuffo nel mare forza 8 sia un potente digestivo dopo il pranzo fatto mezz’ora prima al “Porcaccio”. La famiglia dell’eroe? Una targa con stretta di mano sudaticcia. Quindi: serve essere nazionalisti o no? Facciamo o no vedere che Salò con Sodoma sono quello che può essere l’essere umano? Oppure vigliaccamente facciamo all’americana, standard mondiale, al massimo smembramenti, mai con gli attori che nei film scopano senza la scopa ma che non si lavano le membra, non cacano ne pissano ruttano no signore scoreggino sia mai.

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