Ieri, prima che imperversasse il circo degli Oscar, ho avuto tuttavia una mezza giornata di delirio cinematografico. Dopopranzo ho finito di guardare in Netflix le ultime tre puntate di una serie spagnola, che consiglio e che mi ha ipnotizzato, 45 Revoluciones, ossia 45 giri ( per chi non sapesse il numero di “rivoluzioni” di certi piccoli vinili detti singoli se recavano incisa solo una canzone. Narra le difficoltà soprattutto, gli inciampi, le passioni, i tormenti, le paure di un casa discografica spagnola agli albori dell’era Beatles/Rolling Stones, di Mary Quant e delle sue minigonne, nella Spagna ancora “graniticamente” in mano a Franco e alla sua nomenclatura cupa, stolta e cattiva. La seria è bellissima, ben scritta e bene raccontata e servita da un cast di attori spagnoli, giovani e meno giovani, da primo piano tutti, in senso letterale, anche i caratteri secondari come la segretaria Inés e la madre – che raggiunge vette di odiosità da moglie per riscattarsi però alla fine come semplice madre – tutti robusti e credibili e dalla bella dizione, belli e demodé nell’indossare costumi e riproporre usi puntigliosamente d’epoca: le cene in famiglia e il culto della stessa e della messa, i fidanzamenti ufficiali, il collant, gli stivali con la zip al polpaccio, i sotterfugi per infilare il moroso nel proprio letto, le ansie per i ritardi del ciclo e i patimenti dell’essere femmine (memorabile la scena in cui il tecnico in capo di un teatro insulta la protagonista Maribél/Guiomar Puerta – capace di essere bella e giusta benché non bellòna – e la sua segretaria Clara, il cast completo in Wikipedia, perfetta in un ruolo sommariamente marginale – rifiutandosi di accettare lei e l’altra come direttrici/organizzatrici di un concerto etc.etc. Cose che conosciamo noialtri quelli del latte conservato fuori dalla finestra in inverno. Girata quasi in economia con in pratica solo tre set raccomando la serie 45 revoluciones a chi non sappia come sfuggire a poliziotti antimafia che boffonchiano come Nazzari nel ’30 e squinzie che si mangiano così tanto le parole che una serie con il loro impegno potrebbe fermarsi prima della fine. Le recenti propagandate produzioni italiane che non cito per vergogna di patria ne sono le prove ammesse a un tribunale internazionale d’arte non ancora nominato. In Italia del resto per vergognarsi chi ha ancora il senso della vergogna ha di che. E, a proposito di vergogna, dopo questo piacevole inizio di pomeriggio, ho scelto di malavoglia la ventura di andare a vedere il pompatissimo Tàr con Blanchett. Dio o il buon senso semplice ti guardi. È raro capitombolare su pellicole tanto brutte e che siano però, come oggi succede, offerte da una propaganda di sordi, muti e ciechi a un pubblico di normo-udenti e vedenti. ( l’altro caso è Triangle of sadness del quale è parimenti impossibile dire trattandosi del super8 del cugino di un amico del figlio del nipote della cugina della sorella vedova di Ferreri, giovelofulmini). Ma insomma Tàr, dirne è antiecologico per tanto è scritto e male da una personalità schizoide – si suppone –, per tanto non è diretto da un regista fantasma, per tanto è mal recitato da una Kate Blanchet che con questa alzata di ingegno del farsi addosso un film rischia di essere considerata la diva sul viale del tramonto di Viale del tramonto, una ex grande attrice. Avendo lo sai passato una buona metà finora della mia vita in mezzo ai grandi, Abbado, Böhm, Kleiber, vedere con quanta poca perizia Blanchett ne imita i gesti riuscendo peggio della Guzzanti che di suo è pessima, dà la misura di questo film dimenticato prima d’essere. Così che al ritorno a casa dopo due ore e quaranta di proiezione dalla quale volevo scappare, e dopo un bel minestrone per cena, con mia moglie abbiamo riguardato Amarcord, di Federico Fellini, Oscar 1973 e ho detto tutto. Nel 2023 Tàr non ha meritato ieri notte nessuno Oscar. Ma la c’è la provvidenza.
P.S.Ho colto e divulgo l’invito fatto da Taschera nel suo commento a leggere https://www.internazionale.it/opinione/eileen-jones/2023/02/19/tar-recensione-film-snob-impantanato. La critica della Jones è cortese per un prodotto che è di fatto scortese, e la Jones non omette il fatto, nei confronti del pubblico. Mia opinione, per indole mai abbastanza repressa, è che le repliche, peraltro vagheggiate da Jones, e le migliori a tanta scortesia sono quelle di Sparafucile (in Rigoletto-G.Verdi):
Soglio in cittade uccidere,
Oppure nel mio tetto.
L’uomo di sera aspetto;
Una stoccata e muor.
Aggiungo per finirla qui, nel caso di Tàr, e per chi volesse nonostante farne l’esperienza ma abbia un po’ di sensibilità, che è palese la scollatura di Blanchett dalla musica cui in tutta evidenza è sorda, tal che trasforma il gesto in gesticolare. Totò/Antonio Scannagatti quando dirige la banda di Caianiello in Totò a colori non solo è da sganasciarsi ma è musicale. A perpetua memoria, altro che; Blanchet, Field cirèa ( ma questo la Jones non poteva saperlo)
Lontano è il tempo in cui un film comico italiano, trattante la guerra, vinceva il titolo per il miglior lungometraggio in lingua straniera.
Quest’anno, il titolo citato lo ha vinto un film sulla guerra e basta.
La prima guerra mondiale non è mai stata trattata in ambito cinematografico quanto la seconda.
Può essere che abbia vinto questo, il fatto di parlare di ciò che non ha voce, anche se credo che la vittoria la si debba più agli gli effetti speciali da sempre molto apprezzati in quel di “Holy Wood” piuttosto che al concetto.
In “All Quiet on the Western Front” ci sono talmente tante oscenità da far venire il voltastomaco ed immagino che i venditori di popcorn non abbiano fatto grandi affari nell’intervallo delle proiezioni.
Un pensiero andrebbe rivolto anche agli addetti alle pulizie dei teatri, costretti a togliere da poltroncine e pavimenti il vomito degli spettatori.
Il film, che a dispetto del titolo, quieto non si può certo definire, ti fa disprezzare la guerra (come se ce ne fosse ulteriore bisogno), sebbene il suo reale obiettivo sia dimostrate che gli europei possono realizzare dei colossal e con meno soldi degli americani.
Insomma, se in Europa quella guerra l’hanno fatta gli europei, chi meglio di loro potrebbe nuovamente inscenarla?
Piuttosto che “All Quiet” avrei preferito veder trionfare “The Quiet”(girl), un film dal valore pedagogico, un insegnamento sul come affrontare le emozioni tra le diverse generazioni, tra adulti e bambini.
The Quiet Girl è educativo come Efter brylluppet di Susanne Bier, anch’esso candidato come miglior film in lingua straniera nel 2006, una candidatura che si arrese alla premiazione a un film ambientato (e prodotto) guarda caso sempre in Germania, tra il thriller di spionaggio e la politica nella DDR.
Non è vero, come diceva quel saggio, che alla fine vincono i buoni.
Alla fine vince chi porta più soldi.
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Non ho capito perchè All quiet farebbe vomitare. E corretto storicamente, di ambientazione e nella descrizione del sentimento bellicista oltre che bellicoso. Un film scolastico tale forse da non meritare tanto riconoscimento, ma Hollywood premia, va detto, anche quello che c’è in giro. Va aggiunto che prendono anche cantonate solenni laggiù: premiarono Salvatores per Mediterraneo, che è da 0, (voto che per uno che assolutamente non sa che cosa vuol dire regia e cinema è già molto). Il quiet movie mi pare un compito di maturità ben eseguito da 8 e non di più. Un’argomentazione a giustificazione del vomito, cioè del 4– ci starebbe. Poi non capisco perchè il criterio del valore pedagogico, ammesso che sia un valore, potrebbe/dovrebbe essere appunto un criterio con cui valutare un’opera. Sa un po’ di Centro cinematografico cattolico che cassò, se non ricordo male, La dolce vita e altre opere del neorealismo. Non credo nemmeno infine che sia un criterio di giudizio negativo il fatto che un’opera frutti denari e successo. Denari e successo sono una casualità imprevedibile, vedi il Gattopardo, il film o la stessa Dolce vita. Dipendono credo almeno in parte dall’onestà dell’autore e quasi mai dal soggetto. La grande guerra, senza pretenderlo, fu un capolavoro e fruttò: Dipese dal duo Gassman-Sordi senza dubbio, ma geniale fu la scelta e superba la recitazione. Uomini contro anni e anni dopo fu un tronfio pateracchio educatitvo, con uno stonato G.M.Volontè e un tono generale da Democrazia Proletaria che fratturava i cabbasisi. Lina Wertmüller fece film di successo ( Pasqualino Settebellezze è feroce e crudele, doloroso come Travolti dal destino.) che non furono mai banali a dispetto del tono disimpegnato. E come disse lei in una lunga intervista non vollero mai essere dei successi. Ma lo furono. ( Luci d’inverno del noioso Bergmann, con un piano fisso di un prete che per venti minuti credo parla di dio e del peccato e della colpa era roba che andavo a vedere al cine teatro San Marco -Milano Solferino per darmi un tono a 17 anni, mi rompevo le palle e non l’ho confessato fino a che non ho cominciato a lavorare nello spettacolo pochi anni dopo.)
Baciamo le mani.
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La guerra è orrore e la repulsione alla visione dell’orrido dovrebbe generare conati di vomito come avviene quando un corpo umano assume una tossina. Questo avverrebbe secondo il parere del Dr. Brodsky e della sua équipe. L’esposizione allo scempio porterebbe alla fuga degli spettatori incapaci nell’accettare il fatto di poter concludere la propria esistenza in modo simile. Eppure questo non accade. Accade un meccanismo per il quale la persona ritiene accettabile un massacro reale visto sullo schermo ma non considera tollerabile una disgrazia vissuta in prima persona. Se prevalesse l’atto di rimettere alla visione di ciò che è interno al nostro corpo e che il tratto digerente come la pelle isolano dall’esterno, come dai nostri occhi, al fine di salvaguardare l’esistenza, nessuno potrebbe mai combattere in battaglia essendo inabile a sopportare ciò che non può vedere come ingerire. Nessuno produrrebbe film sui lati macabri delle guerre perchè vivrebbe di incubi e malesseri al pari del reduce di guerra. Tuttavia, in epoche recenti quanto antiche, la vista dell’osceno nell’immediato non repelle se tale brutalità trova giustificazione. Difatti, la normalizzazione del ripugnante, in determinati contesti, permette di far emergere alcuni dei fondamenti sadici, legati allo sviluppo primordiale, elementi inconsci presenti dalla nascita essendo lo stesso parto un atto di dolore provocato necessario per sopravvivere. Finanche il cannibalismo, praticato nei vari conflitti del mondo, per necessità o spregio, avrebbe riferimenti al periodo di simbiosi con la placenta nel sacco amniotico oltre che nel successivo allattamento. Prima di tutto questo, la non vita. Elementi inconsci contemplati eccezionalmente dalla società. Come diceva Freud, c’è questo equilibrio tra l’istinto di sopravvivere e la volontà di andarsene. Tra questi due estremi generalmente prevale il primo mentre il secondo punto viene lambito con la legittimazione della messinscena.
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Al proposito suggerisco di leggere il commento di Eileen Jones riportato su Internazionale del 19/02/2023 (www.internazionale.it>opinione>2023/02/19): gustosissimo anche se, forse, un po’ prolisso. Quanto al non stile di recitazione tipico delle serie televisive nostrane (dove si scambia un farfugliamento incomprensibile per espressione di chissà quale presunta interiore emotività), mio padre, che si dilettava di arte drammatica, mi raccontava che aveva frequentato corsi di dizione tenuti da una certa (per me) Mazzoni, l’obiettivo dei quali era quello di educare la voce non solo a livello di ortoepia, ma soprattutto a livello della chiarezza dell’articolazione e di un volume sonoro adeguato alla comprensione dell’ascoltatore. Ma, si sa, con l’avvento della diffusione della voce attraverso microfono e relativa amplificazione, si crede di supplire ad una mancanza di preparazione vocale con l’intelligenza artificiale. D’altronde i cantanti di musica pop o leggera o chiamiamola come vogliamo (per intenderci, quelli che partecipano al Festival di San Remo) usano il dispositivo auto-tune che non solo modifica il timbro , ma corregge l’intonazione. Ditemi voi….
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“Il mio babbo ci dicevano Carnazza. È morto a cento e quattro anni ed ancora fiù.. fiù… fiù… fiù… fiù… fiù…”
E se non mi replichi con un “allooora…!?” ci rimango male.
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È il gesto direttoriale vero del vecchio a smuovere i tromboni…
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