Per ascoltare questa esortazione occorre aspettare il minuto 4:27 del video https://www.youtube.com/watch?v=h0OFOrXWNfY. Enzo Dara, per la mia generazione, che ci ha lavorato e più di una fiata, Enzo era un mito di gentilezza professionale e umana, educazione, misura, umorismo e ovviamente, sapere e non solo musicale e infine quel che più conta, musicalità che è quel quantum che separa l’acrobata a muzzo dall’artista di ogni arte. Guarda Kubrick. Ricordo Arthur Rubinstein che facendo il verso del tacchino sfotteva i pianisti vistosisti, i funamboli, gli equilibristi, il circo dei coriandoli in frack. Ricordo anche la Carla Fracci, la Luce nel Ballo Excelsior del Crivelli alla Scala, che la piroettava oh come che la, miliardi di volte mentre la sala ne scandiva la conta come sul ring l’arbitro, fino al boato, all’acclamazione finale dell’invicta quando terminava il numero infinito dei volteggi fini a sé stessi. Ma il ballo Excelsior era quella roba lì. Anche in questo caso solo acrobatica, olimpiadi volendo vedere, musica(→) da circo MA con il correttivo della grulleria : solo in quel contesto l’Oscurtantismo cadeva fulminato dalla luce di Edison. Chi ama la musica (→), chi lo fa è sospetto in tal senso, si domanda dov’è la differenza tra la soprano che fa i picchettati sul sì bemolle e il ragno-di-lecco appeso a un chiodo. La differenza con la funambola bistrata del circo che volteggia a 30 metri di altezza appesa ai suoi denti è nulla. In entrambi i casi si tratta. a mio avviso, di un malinteso estetico. Che spaccia per estetica una per quanto grande capacità meccanica. Ci fu un amico di mio padre capace di mangiare 50 uova sode a un pranzo di nozze. E allora. Ma pare che molti non distinguano in arte, l’esercizio meccanico o peggio, a volte, il come si ottiene questo o quel risultato con quel quantum di cui ho detto.
Quando ero ragazzo e appassionato cinefilo ricordo un mio compagno che si sdilinquiva per le triplici panoramiche circolari di non so che film. Ancora oggi nella critica vige il pregiudizio sui significati ma con attenzione , ciò nonostante, al se il tale o tal altro regista fa un piano sequenza di 18 minuti a metà film. Allora in 1917 tutto l’inizio è un piano sequenza. E va bene perché mozza il respiro, rende il ritmo dell’azione concomitante inesorabile, rende l’idea, è espressivo non puro esercizio che, sia detto una volte per tutte, non è mai di stile. Lo stile non ha niente a che vedere con gli esercizi o, come affermava un mio collega in Conservatorio, allora chi fa da 10 e lode gli esercizi del Concóne (→), sarebbe Ravel. Resta l’ovvio, cioè che per ottenere un certo risultato di coinvolgimento emotivo, vero, non di stupore per il mostrum, di arte, che è il gioco condiviso tra pubblico e artista, per ottenere questo e, aggiungo, nell’ambito della musica eurocolta cui assimilo anche i Queen o Battiato, per quest’ambito è indispensabile un livello molto alto di abilità meccanica. O le dita non si muovono sulla tastiera. Ma l’abilità non coincide con l’arte. L’arte è quello che avviene quando si supera l’abilità. Guardare un quadro di Klimt per rendersene conto.
Ora, sono andato a sentire – sentire no perché prima dovetti tapparmi le orecchio poi tapparmele con la carta di un fazzoletto di carta, poi scappare – a tentare un concerto di questo osannato Paolo Fresu, il che non poco si osanna, perché appunto concentrato di questo che dico : abilità, diecimila note e stronfi e sospiri, non un istante di musica. Certo è bastato il primo battere di tam tam perchè i piedini e le testoline del pubblico si agitassero in controtempo. ; se osservi, l’audience arriva quasi sempre sul levare ma è contenta lo steso di sintirisi chissà gospel ; le abbronzature di stagione contribuiscono molto all’illusione di chiesa metodica del Missipipì, qual’è quella del pubblico jazzante, che non rischia mai il linciaggio. Per il resto domenica il Fresu e la sua compare 52enne Petra Magoni mi hanno costretto alla fuga dopo nemmeno un’ora di concerto ( ah, ho scoperto che i concerti adesso si chiamano spettacoli e che si vanno a vedere non ad ascoltare, amen). Lei stona ( non è Mina e nemmeno Milly, forse ha usato male la voce in passato e alla sua età non regge i filati cui si ostina per far bello e bara) ma riempie il microfono di borborigmi, squittii, vocette, zan zang tumb tumb che interessano poco la musica (→) ma molto i fedeli ; poi saltella qua e là, si agita, vuol farsi vedere. C’è poco. Però almeno si impegna a ricordarsi del pubblico che ha pagato. Lui no, lui entra in scena, non saluta, nemmeno uno sguardo alle persone, aggiusta le sue macchinette e poi fabbrica note con la tromba e lo sguardo quasi sempre puntati al legno del palco, qualche volta a lei, qualche volta agli altri della band. Alla lettera non guarda in faccia nessuno e se non fosse perché è l’unico a suonare la trombetta non sapremmo chi è. Una regola di palcoscenico e dell’educazione che ne consegue, vuole che l’interprete si veda, sia riconoscibile, che saluti il pubblico e che non si presenti con una maglietta da marinaio a righe. Con la maglietta a righe ci stai a casa tua o in sala di registrazione. Il pubblico vuole e merita le piume e i lustrini o l’abito che fa il monaco e anche il principe di Galles in parata. Il pubblico deve potere dire è lui. Quindi da un punto di vista di educazione e di musica non c’era motivo di restare al concerto. Per scappare sì : le note erano quella cosa lì autoriferita che è il jazz o quello che è, chiesa metodica nel parlare una lingua morta, il setting della diffusione sonora sregolato, saturato, sono sicuro che i vumetri picchiassero sul rosso anche sui piano, cioè a volumi tali che si sentiva male tutto, coperto dal chiasso vicendevole. Le mie orecchie, che lo so sono sensibilissime al rumore, mi hanno costretto alla fuga. Ma l’impressione di fuffa e di truffa resta. Oltre al non poco stordimento. Sai che ti dico, me ne fresu, Gaetano, tromba!



