A Montelupo fiorentino, città della ceramica, c’è un grande escoriale, una Villa Medicea che con gli annessi da fortezza, costituiscono, ok adesso i giornalisti hanno scoperto la parola compound, ovvero il complesso del manicomio criminale dello Stato. Non ricordo la metafora con cui si maschera la crudezza dell’uso. Un alto muro orrendo, torri di guardia e una facies da Filippo II che fa slittare subito la mente alla Colonia Penale, rendono penoso avvicinarmi a quel luogo che, non riesco a dimenticarlo, è solo di dolore e violenza. Ci passo di domenica, una domenica greve di pioggia, ma per arrivare dove voglio arrivare sono obbligato di lì a passare. Perché a Montelupo il comune e una cooperativa locale, così ho capito io ma potrei aver capito male, hanno costituito fuori di quel muro di paura, un’isola amena, un parco che tocca l’Arno da vicino, con al centro un piccolo, Montelupo è piccola Montelupo mi piace, museo archeologico di grande bellezza; un po’ per la sede che è un accrocco di tre chiese in rovina, una costruita sulle ceneri dell’altra ed edificate in epoche diverse e distanti tra loro, dal primo medioevo al pieno seicento; un po’ e non importa essere né archeologi provetti né esteti scapigliati per capirlo, per la cura affettuosa con cui il museo è stato allestito; un po’, ovvio ma non banale, per la bellezza dei reperti custoditi. Reperti che rendono omaggio, il modismo è un po’ abusato ma ne faccio abuso lo stesso, alla vita della Toscana centrale dalla preistoria a oggi senza, in senso lato, soluzione di continuità. La Toscana dovrebbe essere l’Italia e viceversa ma non se ne vedono i segni. Qui si vedono invece i segni, lo stile naturale delle forme, l’eleganza trovata, è chiaro che gran parte dei resti esposti ceramiche e terracotte, che sono sorti e transitati nel tempo per la Toscana, intatti fino al secolo 21, senza mai smettere di essere quello che sono, pensieri per oggetti d’uso. Mi salta in mente una bella parola tedesca, bekömmlich; alla lettera si potrebbe anche tradurre, che esaudisce.
Ma qui tanti e tanti anni fa è arrivato il potere, costituito in stato e incline a identificarsi con sé stesso e non con la collettività, di cui dovrebbe essere la sintesi razionale, come se esso non fosse Cittadino ma divino e tanto che sui luoghi, tramite le sue opere e suoi rappresentanti astratti o metaforici, esso ha steso qui in particolare e in altri luoghi in generale, i segni del suo disprezzo su una villa medicea trasformata in penitenziario, da penitenza atto che non pertiene al campo della civiltà; e tanto che su una comunità intera ha spalmato la sua prepotenza penitenziale obbligando essa alla vista quotidiana e di più al pensiero incombente di muri che gridano vendetta al cospetto degli dei, i quali, come si dovrebbe sapere, sono una razza di sordomuti. Sbarre dov’erano finestre, vetri oscurati, e un odore di carzaro anche dove non c’è odore e il silenzio disumanato dei regolamenti. Non credo che gli uomini siano buoni in astratto, nemmeno io che ne scrivo, non credo che la collettività non si debba difendere in qualche modo, non credo che la collettività si debba vendicare, non credo che la parola penitenza rimi in qualche modo con civiltà. Un società, fondata sulla penitenza mi pare una società immobile e marcia, quale la nostra, a ben guardare, sembra diventare sempre di più, dietro l’ossessione, favorita anzi istigata dallo stesso potere penitenziale per il moderno, cui si sono abborracciate in passato schiere di geometri in bigodini cui fu data licenza di devastare la sobrietà distintiva dell’abitazione toscana con le sue persiane verdi da spalancare, gli usci di massello lucido, gli sproni di acciaio, la pietra serena, la sobrietà icastica di un canapo o di un ferro infisso nel muro per tutto corrimano, i mattoni rossi e la pietra con cui sempre hanno costruito gli etruschi e dopo di loro i romani e dopo di loro e dopo di loro, con il calcestruzzo grigio, gli avvolgibili costruiti in brianza, non è un lapsus, tutto ciò che è piccolo trova in una minuscola il suo condensato grafico, i ferri saldati in ghirigori inutili a chiudere altrettanto inutili balconi. In definitiva, quando quello stato di cose bussa alla porta del quotidiano con la sciatteria solida, colpevole e impenitente, delle sue muraglie, dei suoi divieti espressi su cartelli che ciondolano pesanti e non per voto al triste vento, di vetri offuscati da un sudicio istituzionale. Provo a immaginare l’orrore degli interni e degli internati. Ma chi sono gli internati, mi chiedo non senza un certa retorica, se la giovane donna sorridente e cortese che un’ora fa mi ha staccato il biglietto del museo racconta che solo turisti e scolaresche lo visitano.
Con questi pensierini in itinere e un souvenir di cotto in tasca per mio figlio, a trenta all’ora come il mio coetaneo Montalbano, guido verso casa su e giù per stradette minoritarie fino a rimanere accalappiato dall’odore di legna e pane di un forno minuscolo e disadorno. È domenica, l’ho detto, le nuvole sono meravigliose e una ragazza fa volare da un cesto senza toccarle, brucianti schiacciate di uva e all’olio. La località si chiama Inno.