Stazione ferroviaria. Caffetterìa luminosa, di vetro, interno, giorno.
La prima parlante è collocata a sinistra. Dall’alto di uno scrannetto o seggiolone o seggiolino a stelo o monopiede, dunque monco e di materiali eterogenei rigidi e di nessun interesse estetico, atto ad accogliere e sostenere natiche normotipo e tale che la maggiore parte delle gambe umane e massime le femminili standard non arrivano a toccare terra, e c’è da credere non si voglia ci arrivino, in un’abborracciata simulazione dello status angelico cioè appollaiato per aria, lo status, ma solo tra la quota 240 del contro-soffitto e la 000 del pavimento, lo sguardo attento della prima parlante recita una disattenzione flessibile agli uomini intorno e sguscia in avanti con la lingua che parla senza fiamma e che, a un attenta osservazione, guizza tra le labbra della donna, affetta da giovinezza più che giovane, fino a lambire di un’eco vaga l’avventore passivo, alla destra di chi lontano osserva, seduto su identico scrannetto in fondo al comune tavolo oblungo di laminato giallo uovo. L’uomo, per essere guardato, anche con commiserazione, niente potrebbe fare, niente, soprattuto non potrebbe mutarsi d’atteggiamento, l’unico che gli consentono l’età terza, l’orzo in tazza grande, una neressa immensa che, tra un boccone e l’altro di un impanato brunastro dislocato in mezzo a un q.b. di pomodorini rossi, lo chiama, Gino, con la gi fricativa postalveolàre sonora di joujou e una punta esclamativa sul nome proprio, gino, che esclude qualsiasi interrogativo, e lo scruta l’immensa nera, lui, l’uomo non l’impanato, ora sì ora no, dall’ubiquità delle sue sclere candide e asciutte; per ultima, di essere guardato da altri occhi passivi e non possessivi, non glielo consentirebbe anche la vaschetta di plastica aperta su una macedonia di qualche ben candeggiata frutta, con l’esclusione di due mezze lune di un’unica fragola, che egli l’uomo, consuma servendosi di un cucchiaio diminutivo ma con la lentezza ponderosa e ponderata che altri e con altro cucchiaio, metterebbero nell’andare a fondo ma di una scodellata pantagruelica e fauve di minestrone. L’attenzione corre ai capelli di questa prima parlante, piumaggio ora smosso ora scosso, ora còlto e poi disciolto con rapido gesto dell’una o dell’altra mano: serico si suppone lo suesh delle dituccia candide di media grassezza tra le mèches in rima, scuri gli occhietti, d’angioletti pettoruti e tali da sembrare animati da una potenza straniera infiltrata nell’involucro che li delimita e sospesa nel gelatinoso umore vitreo che li riempie. Molti i punti luce che scagliano lampi a zig zag da varie zone di quel corpo seduto tra mèches et nonchalances: dai lobi degli orecchi, brillanti, poiché brillano ma sono forse umili zirconi di media grandezza incastonati al centro di una raggiera d’argento che simula quella di un sole freddo; dalle dita, mosse però con virtuosismo tale che forse un pianista potrebbe catturarne l’articolazione e soltanto a un esperto gioielliere i brillii assortiti si potrebbero rivelare per quel che sono davvero, se bigiotterie o no; e infine, dai polsi e dalle caviglie, smaniglie tinnienti d’oro e d’argento. Che tinniscano è un’illusione poetica di cui, chiedendone scusa, vorremmo ciononostante si giovasse l’immaginazione di chi legge. La parlante parla e le sue parole saltabeccano rapide oltre una tazza da caffè svuotata, oltre il vassoio marrone di plastica, abbandonati sul quale i resti del suo pasto giacciono in disordine come fanti caduti in rotta o spoglie vegetali sulla divorante rotta di cavallette, If you get your passport and give it to them you know it’ it’s it’s so in ***… l’inglese di non materna origine della donna scempia un nome, forse latino, Uh yes yes lot of people lot of luggage carried by an awfully unusual crowd don’t you know it’s interesting because… e speriamo e speriamo anche noi che si faccia interessante il discorso, un discorso che non ha metodo né natura, che non matura, che scorre e non discorre, che rìvola e dilaga sul piano balistico e giallo uovo del tavolo, alla stregua di una truppa per dentro uno di quei passaggi, segreti ma non tanto, che traditori di antiche fortezze mollavano allo stupro degli assedianti del momento, per denaro o per la mai arresa attitudine umana all’inganno, I say you know they don’t understand if you have some money you go oh yes yes yeah. Chiunque avrà capito che lo speech, il parlare della parlante 1, ha l’andamento di una prosa ubriaca se non addirittura di alcolista giunto al punto in cui anche una sillaba può impigliarlo e costringerlo allo stesso ostacolo del suo lago buio alla stregua d’uno scampolo plastico o di un mezzo oggetto di eguale materia, bambolina spezzata o annaffiatoio per bimbi purché galleggiante, intercettato lungo una riva d’acqua da un ramo in aggetto, e che in questo si incagli e continui a ondeggiare e sciaguattare senza potersene liberare, dest-sinist, ora in su ora in giù, and yes and no, oh no yes no yes no yes nope yep not. Molti ricorderanno che scampoli, frusti e oggetti di plastica sono parte ormai integrante di qualsiasi corso o ristagno d’acqua, quasi, senza eccezioni, attrezzerie di repertorio nel tetro paesaggio del tempo presente; l’unica realtà che corre e senza ostacoli. They say yes yes now and then and every time uh uh I know they’re amusing uh sort of very kind people to treat with supposed to be happy because they’re smiling now and then they’re always smiling uh and the sea is warm as they are you know deep blue sea and very very very good the seafood you know…l’ordine delle parole non si costituisce mai in somma nemmeno mutandone l’ordine stesso mentre a destra, a sinistra cioè della prima, la seconda parlante, occhi tagliati a lume di mandorla, lunare la linea del viso, mangia un gelato, una coppa di crema candida accanto a un bicchiere di tè verde e caldo nel vassoio di uniforme plastica marrone. Dei piedi della donna, legati a sandali con fasce e lacci e tomaia foderati di una pelle cruda scandita da linee optical forse goffrate e in ogni modo nere, le unghie sono dipinte di uno smalto color basso fondale, tra alga e fango. E la voce, oh la voce dal sen fuggita con compiacenti, I see -trad. ingl. di capisco- è ciò che più appare; tutta un’asseverare appagato del proprio ego adsevero et persevero ut sim, I see yeah really, la voce suona uscita dalla pancia di una bambola gonfiabile asservita da qualcuno a estenuanti lezioni di cantilena più che di canto mentre a sinistra, un po’ discosta ma in faccia alla prima, la terza parlante, seduta di profilo, mostra il proprio prevalente interesse péi polisaccaridi, noti questi per la loro attitudine a ripetersi. Dei polisaccardi ha l’inclinazione obliqua, lo sguardo che denuncia la fattura nazionale, sin periferica, dell’ovulo molle e del guizzante spèrmio che, attaccato quest’ultimo il cappello in casa del primo, come s’usava dire e fare in altri tempi, l’hanno prodotta e messa al mondo. Oh sì ye’ ye’, risponde a una domanda inevasa, e con la bocca piena, e sguardo obliquo si diceva, noto a chi pratica o ha praticato sovente l’altare e adesso ancora, tale una chierichetta golosa dal polpaccio cattolico cioè tubolare come un bossolo d’artiglieria, non può resistere a lasciare a riposo tra l’una e l’altra forchettata, la frazione ordinata di torta, the cake, al formaggio, the cheese, con fragole, the strawberries, che le si scioglie nella mollezza degli occhi prima ancora che tra lingua e palato e si vede che ne vorrebbe divorare, di quella e d’altre particole sostanziali e ancora e ancora, polisaccaridi e monosaccaridi seducenti, ma rivela una vasta gamma di obliquità, quella dell’indifferenza al mondo non esclusa -poco lontano da lì vedremo che esso persiste a esistere- e una sorta di interesse obliterato nella voluttà effimera della conversazione e dei propri di ovuli al cui sguazzare inquieto nel loro ovario timido, dà l’impressione di essere attenta, data la confezione di assorbenti vaginali di marca non decifrabile che estrae da dentro il sacco della borsetta penzolante dal sedile, nello stesso istante in cui scivola giù dal sedile e si avvia, Uh sorry torno you know subito, annuncia, dove tutti prima o poi vanno e tornano mentre una quarta parlante, che vediamo di spalle, raccoglie un postremo know know o anche no no, la lezione è incerta, la testa che tace, tanto da farla sembrare meno di una comparsa, meno di una figurina in fuga in questo quadretto, e acconsente dismessa e dimessa dalla prima imperterrita parlante, It seems so yes seems so to me… ma parla da sé, sulle belle gambe nude e levigate dalla ceretta e in altalena dall’alto del proprio scrannetto, parla da sé il disegno rosazzurro di una teleangectasìa fiorente tra polpaccio e pòplite con le sue propaggini e i suoi rami ora accennati, ora tronchi dagli improvvisi scarti, accennata per ora e pure varice: ch’anco tardi a venir.
Ricordiamo che fuori da qui, fuori dal condizionamento dell’aria, dai vetri blindati, sparsi in ordine libero a decuocere su altàne granitiche e torride, cento o duecento o trecento tra uomini e donne aspettano; non sappiamo che cosa, li abbiamo notati. Una, tra loro, età non calcolabile, nemmeno a credere al suo documento se lo possiede, asservita a un soprabito di colore brutto e forma peggiore, peso alla vista, ferma su una panca di pietra mantiene gli occhi fissi davanti a sé, fin dove lo sguardo arriva e per forza si deve fermare, contro una parete di marmo rosa; non ci viene in aiuto l’espressione occhi impietriti o induriti o di qualsiasi altro participio passato della terza coniugazione; no, gli occhi non ci paiono iti da nessuna parte, se non lì davanti a sé stessi e con il tono sodo, solito alle uova e agli occhi. Sudate se mai, prima coniugazione, le tempie. Valige aperte sul pubblico passo mostrano parziali indizi di esistenze in corso: mutande.
Intorno uno smuoversi rarefatto, un sottofondo di ruote e metalli e cofani che rimanda al traffico, che ai vivi è interdetto, di un crematorio. Di là delle vetrate opposte a una piazza densa d’ozono, s’addorme un sole nano, malato di precoce ferragosto. E, stop.
Oh amico mio, rimango senza parole. Ed è raro.
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Dai. Un abbraccio
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“In un’abborracciata simulazione dello status angelico”, il sole splendente e mai nano della tua prosamusica descrive i corpi per quello che sono: nostalgia di una lussuria sacra che una volta ci è stata donata e che adesso è solo ombra, crematorio e stop.
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E il tuo commento ti racconta per quel greco che sei: lussuria sacra può scriverlo uno che ha visto i persiani, l’Indo, e poi è tornato indietro ai suoi ulivi, al tempo dei suoi torrenti ma, con una pianta di pistacchio in borsa. Volendo tentare una definizione di cultura, datosi che de-finirla è contraddizione, si può ricorrere al tuo nome.
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