La vecchia signora, l’intrepida blu e il nome del padre

Alla nostra curiosità, o a quel modo di indagare spontaneo che tende ora alla clinica ora alla diagnosi ma che molto spesso si deve contentare di cogliere una vaga stecca nel coro delle certezze collettive, il tran tran quotidiano mostra esistenze che a occhi ingenui o primitivi, paiono talvolta non comuni, o avventurose, o del tutto disgraziate. Una più ponderata osservazione rivelerebbe invece di ogni vitarella quel poco o tanto di viaggio organizzato, con soste ristoro, visite condizionate, luoghi pittoreschi e finzioni comuni, che la caratterizza; vita non meno plurale, nella sua singolarità, di altre la cui particolarità autentica, è probabile consista nel non essere affatto particolari.

Molte, per essere selettivi e, benché il dubbio non abbia dato luogo a una verifica dei numeri, molti, sono convinti che la signora è sempre stata e sia uno di quei caratteri di cui lodare la perenne attività, non solo, ma che sia da iscrivere al novero di coloro la cui vaghezza di gibigiàna, sarebbe tuttavia efficace nel confondere la mira di quel cecchino occulto che tutti ci osserva, che gli spari e però non li colga; nel giudizio di altri pochi e polemici invece,  la signora sarebbe uno di quegli esseri la cui propria esistenza pare tanto vedova da doverne farcire di frùstoli ogni istante da essi percepito fesso e vuoto; simili con ciò a quei teatranti di ginocchio nervoso che, ignorando il silenzio e il tempo e non poco lo spazio, devono riempirlo di lazzi e càccole, convinti che un paio di comparse laggiù in fondo a simulare un qualche còito, una qualche masturbazione siano frutto di una loro intensa trovata di regìa, quando si tratta invece di una bieca astuzia da cuochi incompetenti che, per infornarla, farciscono di avanzi parassiti e d’ogni sorta di spezie e grassi una faraona; con ciò sia detto, per l’appunto, che in forno o fornetto ogni esistenza ha suo ricetto. Due volte abbandonata dal marito la signora, la seconda alla morte di lui per annegamento; marito non ingegnoso benché ingegnère, vulgo ingeniére, quanto l’illustre scrittore ma, al contrario di quest’ultimo, incapace anche di un elementare dando seguito alla stimata vostra, e coltivatore non innovativo di varie defatiganti e pericolose attività sportive, da cui l’affondamento in acque profonde e definitive, nonché di vitalìstica infedeltà; a chi, a che cosa o con chi non staremo qui a divagare né ci importa. Un maschio insomma l’ingegnere, al pari di molti maschi, tipo di candidato certo alla trincea in tempi lontani o all’armi siam fascisti; in tempi recenti, da motoscafo rombante, da sangue della bistecca, da vino, da fumo, da cancro, ah titolare di porto di fucile il soggetto che, svuotato il comune conto in banca, la lasciò, la signora, per una concorrente più giovane, il canovaccio della farsa risale per lo meno alla commedia dell’arte, a guadagnarsi il pane e anche un po’ di formaggio la signora, prima da commessa in una profumeria, poi da io-ce-l’ho-fatta-potete-anche-voi per una compagnia di speranze e fitofarmaci dimagranti, su su su fino a direttrice in una galleria d’arte dove di lei, è vero, non c’è tanto bisogno dato che di incisioni, lito e xilografie, acqueforti, acquetinte, cere molli e acquerelli c’è la richiesta che si può immaginare in un mondo in cui il quadro più ammirato è un rettangolo; è pure vero che il proprietario della galleria è ancora ricco oggi quanto bizzarra è stata la sua fortuna ieri e la sua erudizione conquistata da sé, via dalla portineria in cui la madre gli cambiava i pannolini, su per ogni gradino nel grattacielo della società, e niente ascensore. Dunque, nonostante il divario delle origini che in altri casi e altri tempi gli ha stimolato un desiderio di ghigliottina, il datore di lavoro non se la sente tanto anzi lo ha escluso di licenziare una donna di ormai di 66 anni, che costerebbe al suo cuore, e di liquidarla, che costerebbe al suo portafoglio, stazionato peraltro quasi sempre all’altezza del muscolo vitale; una donna al cui orizzonte non paiono pronti a sorgere molti arcobaleni, salvo che la figlia e il genero di lei, orientati al marketing, non si orientino infine a mantenerla, un domani sbavante ad oltranza e su una seggiolina a ruote, bèbè, bèbè, bèbè. Tutte queste notizie sono passate abbastanza da non volersi costituire oltremodo in racconto. Ciò che importa sapere al lettore accorto è che la signora a tutt’oggi non sta ferma un istante tranne i pochi che passa seduta in negozio dove, per lo più, è lasciata da sola a far fronte all’ordine, agli ordini, ai benefondi, alla polvere, alla pulizia del marciapiede fuor della vetrina che fa brillare e ribrillare, alla rada clientela, specie d’estate quando il turismo se c’è, se transita quaggiù dalle valli alpine dove nasce per scorrere a spiaggiarsi su sabbie fumanti, non è costituito da cercatori di tirature limitate e prove d’autore, per quanto certificate. Insomma, quando durante la sedicente buona stagione si riesca a vendere qualche paesaggio con e senza cavalli, con o senza magioni, con e senza ninfe, con o senza duchesse amazzoni, con o senza rovine gotiche o romane, con o senza contadine al ruscello, o un paio di rarità e degli schizzi mirabolanti di qualche artista reso promessa non mantenuta dalla tubercolosi, dall’alcool o da un buco di mitraglia, la stagione è bell’e fatta. Non latitano nella zona però le tane dei non pochi pescecani, le cui spose e domine, desiderose di bello confezionato per le loro residenze, esauriti i loro compiti di mamme e clienti di boutiques che solo dei loro acquisti sopravvivono, leggono con zelo le vite di picasso e/o d’altri autori a scelta e frequentano la galleria con riverente puntiglio  durante tutto l’anno, e ciò benché vadano su al mare e giù a sciare obbedendo, nel dire, a un estro spontaneo per l’anacoluto, anche geografico, che è tipico di chi non ha mai seguito manzoni, quello con l’articolo davanti, nella sua ricerca di ben spese promesse di redenzione della lingua matrigna dall’apparato di tradizioni semantiche dialettali. Ebbene la signora che d’ora in avanti si chiamerà la vecchia signora, si sposta da un canto all’altro del lago, del fiume, dei fiumi, dei monti sulla sua piccolissima auto di robusta concezione color blu, ceruleo lo definisce il pieghevole o dépliant illustrativo; un blu che risalta, luccicante sullo sfondo per lo più verde o verdastro della regione, dove si escludano i quadranti occupati dalle pareti delle case e, tutt’intorno sovrastanti queste ultime, dalle pareti di roccia imponenti e slanciate tutte verso le punte ben appuntite lassù delle vette; innevate già a novembre fino ad aprile. La vecchia signora usa l’auto per andare alle inaugurazioni, alle mostre, al canottaggio, non di rado ma nemmeno spesso in pizzeria, alle sagre, alle feste con degustazione, alle visite guidate, a piedi o con tutti gli altri mezzi con cui si guidano i visitanti ora nel castello restaurato, ora nella villa restituita al suo antico splendore, ora nell’orto segreto dalla bella arancìera sottratta allo spietato olvìdo e al tempo meteorologico. Per difetto di quelli romani, non mancano peraltro alla regione templi romanici né vestigia preistoriche, cave e miniere di antichi e desueti materiali, percorsi didattici di ogni genere di didattica, e abbondano le mostre botaniche, chiamate per lo più, con fasto verginale e immemore dei libertinaggi latini, floralia. Fiore persistente e senza deroghe vestitissimo, al punto di non calzare mai nemmeno i sandali per non mostrare i piedi che da sé tiene lontani chiamandoli estremità, la vecchia signora è sempre in buona salute, a conforto pertanto della figlia che ne teme, prima o poi, del femore la frattura, ed è assidua di gite e visite e desiderosa di apprendere ciò che il passato e uno sfilacciato presente prossimo hanno lasciato di bello e di buono da godere; mai in ultima fila nei gruppi a ciabare di nipoti e maternità e infanzie secondo l’abitudine di alcune/i di cui la signora non coglie le urgenze culturali dal momento che raro si palesa in loro l’interesse per qualcosa che non riguardi la sosta nella nota osteria o nel dehors dell’illustrata pasticceria là dove altre urgenze trovano il loro dovuto ristoro; dovuto si deve intendere, lì tra i visitanti, a una notevole percentuale presenza di alluci invalghiti da passati giri di tacco o di danza, ginocchia dai menischi ribelli, di anche, nel senso di ìlii, ricostruite, di lussazioni congenite o accidentali, di perturbazioni pressòrie o, voilà, vescicàli. Dopo averlo del tutto inutilizzato in anni migliori, alla vecchia signora invece parrebbe oggi riverzicàto lo spirito, si dice così di ciò che spira e aspira, l’animus cioè, del primo banco, la temperie di quelli/e sempre attaccati alla maestra, ai professori; di quelli tutta la vita ad assentire con il capo ciòn-dolòn càn-paròn, ispirati, restando all’oggetto spirito, nel convalidare al docente la loro buona disposizione, l’assoluta dedizione, l’acquiescenza del discepolo al verbo fatto carne del soggetto-supposto-sapiente, e lassù crocifisso alla sua cathedra di tubolare con piano in laminato grigio perla. Il tempo si sa non si recupera affatto, è un bene del tutto a perdere, un fondo di investimento che ha un fondo e quando si arriva a percepirlo con maggiore o minore esattezza, spritz, ecco che siamo morti o poco men che vivi, sicché da supini, benché seduti ascoltatori di sublimi messe di requiem, di queste ultime diventiamo o ci prepariamo a diventare soggetti anzi protagonisti, ancorché muti come pertichini di opera buffa e per sempre supini. Ciò ben inteso per chi non rinuncia o non ha rinunciato prima a quei conforti religiosi che sono il  gioco dell’oca dei vivi standard per cui, a funerale compiuto, casella 58 lo scheletro, si paga pegno e si torna alla partenza, casella 1, così che il gioco si ripresenta con poche varianti di metodo e alcune vulnerabili imprevedibilità.

A sera, abbassata la serranda della galleria d’arte, la vecchia signora torna a brevi passi nella casa dove per qualche ora di notte si ristora dalle fatiche del giorno e si ripara dalle piogge così frequenti, a questa latitudine, sia d’inverno sia d’estate e in entrambe le due stagioni intermedie; piogge che lei peraltro ama e che, sappiamo per certo, considera presagi di tempi migliori e più freschi e puliti e stimolanti dal punto di vista paesaggistico. Il suo appartamento è al quarto, ovvero ultimo piano, di uno stabile che i futuri storici dell’arte attribuiranno all’architettura degli anni ottanta del xx secolo, funzionale sì ma ai guadagni di impresari scatenati a edificare mausolei alla malinconia piccolo borghese, e distratta invece, l’architettura, dalle tre principali funzioni e pregi di una casa, accogliere, accudire e proteggere; sicché mattoni rossi a vista e cemento, tanto cemento, grandi finestre sì a non fare da schermo ai rumori e pareti sottili costate quanto un vallo atlantico e scarrucolanti avvolgibili a turbare i mattini e le sere, e infissi di legno che l’incuria amministrativa e la scarsa attenzione ai materiali ha quasi del tutto corroso, benché qui non ci sia salsedine né siano così acide le piogge da fungere da candeggianti. La vecchia signora là nel suo appartamento vi torna sempre, chiavi alla mano, con cauteloso silenzio e strusciando i piedi un po’ perché del suo camminare è un vezzo, un po’ come se di là nei suoi ricordi, dormisse ancora la sua figlia bambina, le poche volte che, prima della separazione, la coppia genitoriale si abbandonava a una qualsiasi distrazione dai compiti domestici. La figlia dorme altrove oggi e la stanza che ne tutelò l’infanzia e poi la verginità fino all’istante, quivi consumato e più o meno doloroso, della lacerazione di quella membrana collante che le madri hanno piacere di tendere e mantenere intatta fuori di sé, specie tra sé e le figlie, dopo che l’altra membrana, l’ostia di tessuto epiteliale nascosta tra le loro pliche vulvari è stata loro bene o male sconsacrata dal diporto o dalla passione, e la stanza dicevamo, accoglie un letto considerato adesso per ospiti, cioè per nessuno ché di ospiti non ne passano; nessuno che pure alla lontana si possa considerare tale, mantenuta per possibile la casualità dell’estraneo e la causalità dell’esule. Prima di apparecchiarsi per la cena, nel chiuso della sua cucina onde evitare che dal padellame bollente si spandano dappertutto gli odori, la vecchia signora accende tutti i lumi e si ferma a osservare, meglio ogni volta, la cubatura dell’appartamento, la quadratura dei mobili, mantenuti a cera e olio di gomito, la rigidità delle poltrone che accomoda ma non usa; nemmeno quella con un davantino poggiapiedi, posizionata fronte a un televisore funzionante ma obsoleto, cui lei non ricorre quasi mai tranne per spolverarne lo schermo. Quest’atto di inventariare ogni giorno le condizioni del proprio stare al mondo è un rituale quotidiano di devozione che precede, sul tardi, quello di dettare a sé stessa, benché non ancora mutati in preghiera, i buoni propositi per il giorno dopo ma con l’impegno immediato che le ginocchia e uno scendiletto di lana spessa le permettono. A questo raccogliersi è arrivata dopo la pubertà, propria e della figlia, dopo la duplice perdita dello sposo, dopo la lotta per sopravvivere, ma è stata, per così dire, una prova generale dell’istante recente in cui, forse confusa dalla placenta ombrosa di un bel duomo romanico e nel pieno di un’estate rovente, si trovò lì sola e prona sul pavimento di pietra gelida e profumosa di cera a confabulare senza quasi rendersene conto con la grande figura crocifissa sopra l’altare. Nemmeno lei saprebbe dire ciò che prese a raccontare, né quali spinte le si mescolassero nelle viscere; se richiesta però, ricorderebbe che alle labbra le sorse infine un antichissimo nel nome del padre… nostro che sei… sia il tuo nome… e poiché fu l’unica porzione di testo, più che inesatta, a risorgere, si applicò allora con inimmaginabile cura a ricostruirne i frammenti smozzicati e sovrapposti da una memoria diffidente e mai fedele, fino a rimetterne insieme una lezione implausibile ma accorata. Tempo dopo, con sospetto dal beghinaggio di quartiere e con grande soddisfazione di un parroco di irritante giovinezza fu colta a frequentare le messe, le più comuni si intende; sempre in disparte però, senza ostentare un fervore divampante anzi illustrata da una grazia nel tratto che dicono testimoniare della grazia in assoluto; relativamente, la stessa che in lei si manifestava per dovere, nel negoziare con i clienti e nel trattare la preziosa carta delle stampe e degli acquerelli. Attratta per misterioso contrappasso dalla statuina di nessun pregio artistico ben chiodata su un legno nero e lucido nella chiesa parrocchiale, era devota alla quella apparenza antropomorfa e indifferente alla mitologia che implicava, contraddicendola, la cognizione di un dio tanto umano e sanguinario da farsi fuori da sé, assumendo alla fine, dopo i numerosi e passati e infausti per quanto poetici tentativi di avatar, cigno, toro, tordo, onda, nube, nembo dorato e angelo beninteso, la forma più efficace a rappresentarlo, per quanto terra terra, di uomo, l’indifferenziato che proietta fuori di sé, allargandone l’ombra, solo ciò di cui ha una diretta per quanto offuscata esperienza: esso chiama buchi infatti ciò che nella tela di penelope dell’universo non gli parla. Ondine nel mare e buchi neri tra le stelle.

Indispettito dalla scarsa accessibilità della vecchia signora dall’interno e dal nostro divagare intorno alla sua figurina volatile, è possibile che più di un lettore insorga invocando e densità e coerenza per il personaggio. Si usa reclamarla, è un articolo che molti professori di melodrammi comuni propongono e che moltissimi studenti, amandoli, comprano; la coerenza del personaggio, di atti e pensieri si intende, la psicologia assoluta è una garanzia di sonni tranquilli e non per pochi. Questi non pochi però dimenticano che l’omogeneità della glassa nella torta dei personaggi non appartiene affatto ai loro doppi reali; o, all’occhio di chi però sa osservare, non salterebbero le patenti e latenti sovrapposizioni, gli strati, gli intrecci, gli strappi, le imperfezioni nel tutt’uno che segnano e segnalano il molteplice, così che non è raro, anzi il contrario, sapére di scienziati superstiziosi, di rivoluzionari filistèi, di generosi avidi, di folli ponderati o, come dice il poeta, non privi di metodo, infino là dove il savio, per tale additato alla pubblica opinione dalla stampa per esempio e dai migliori tra i peggiori romanzieri, propone di sé le sciocchezze tra le meno coerenti con l’idea del sàpere, ossia dell’aver gusto e sapore, che molti si sono costruiti così come si sono edificati l’architettura della propria fede in tutto ciò, non che appare ma che deve apparire ai loro occhi per mantenere quella virtù sedativa  della realtà che al fittizio è richiesta. Pertanto non ci si deve stupire che alcuni narratori prendano per come càpitano i personaggi, cioè per ipotesi tendenti a mostrarne la consistenza com’è, non come la si vorrebbe, attitudine questa che corrisponde al non raro desiderio di far quadrare ciò che è perlomeno tondo; utile alla sensibilità di certuni per alleggerirsi dalla fatica del comprendere, optando per il suo contrario, l’interpretare; ma che non restituisce delle esistenze, di ogni genere, la variabilità, le incertezze, il si-è-come-si-può, il beneficio del tentativo invece che, come tagliato da un macellaio olimpico, il pezzo tutto d’un pezzo che dal suo grasso pretende sugo.

Dunque la vecchia signora si era rimessa a frequentare la comunità messianica ma ben presto le venne in uggia la ritualità indecorosa e vernacola degli officianti, notava che anche mutando parrocchia il prodotto non mutava d’abito, la sbrigativa e fatua ripetizione di gesti sottratti all’allegoria mitica di cui nulla ella conosceva ma che al suo gusto o alla necessità estetica del suo momento pareva indispensabile sostanza. Così prese a ritornare nel tempio che non le faceva mancare, per sé solo, il vigore della propria sonora e rigorosa antichità, romanico s’è detto, fondato e costruito e tirato su sulla pietra, così come da istruzioni del suo primo patriarca. Cammina strascicando i piedi s’è detto la signora, e non c’era mai stato verso di farle cambiare abitudine nemmeno a contarle le volte che inciampava in un foglio di carta, e strascicarli sulle lastre lustre dell’unica navata, hmm le dava un’ebrezza che il silenzio del luogo, accompagnato a volte ma non turbato dal mùrmure riverente dei turisti, accresceva e la induceva sempre a rinnovare in cuor suo la sensazione che qualcuno stesse dormendo là dentro, come in casa sua la figlia, quando vi abitava; già s’è detto anche questo. Non vista, cioè quando nessuno era in vista, si serviva da sé il suo appagamento, prostrandosi pancia a terra con voluttà, proprio come aveva visto fare in qualche film all’iniziazione di monache e frati; e così, le braccia distese davanti, le mani giunte nel rigore di una pietà non richiesta da alcuno, giù a dirsi e ridirsi quel padre nostro che, s’è capito, confondeva con parte della formula nel nome del padre; che conosceva male e che aveva tentato di imparare di nuovo con risultati insufficienti. Padre nostro che sei nei cieli come anche in terra sia santo il tuo nome e nel tuo regno sia fatta la tua volontà e come in cielo dacci il nostro pane quotidiano…No, non erano queste le parole, non questa la sintassi, ma lei ripeteva e ripeteva da cima a fondo e incespicava ogni volta in un diverso ostacolo, nel modo di chi, pure stonato, senta la propria nota fessa e se ne dispiaccia ma non sia capace di correggersi; in quel procedere ostinato però, nella mera ripetizione, trovava forse una sorta di comunione con la pietra intorno, con il silenzio che dentro di lei si accomodava, con ciò che lei era stata magari, con ciò che lei non sapeva affatto che cosa fosse, con ciò che sarebbe chissà diventata. A lei piaceva così la religione e decise di non andare più alle messe ma di conservare la sua passione per la pioggia, evento atmosferico la cui bellezza accomunava a quella di starsene a recitare il suo, dirlo mantra o grammelot non è inopportuno, ogni volta adattato da uno sforzo della sua volontà all’opposizione della sua memoria. Chi volesse rimproverarle di non averne cercata, del padre, la versione ufficiale o nei pieghevolini di chiesa o in internet, è libero di pensarlo tuttavia, per quanto s’è detto, dovrebbe considerare gli sfagli della vecchia signora come dati di fatto.

In un particolare pomeriggio di sabato e di tempesta la vecchia signora volle a tutti i costi lanciarsi, al solito con la sua intrepida blu, lungo una stretta e inusuale strada litoranea per raggiungere il suo duomo personale; le urgeva alle labbra la preghiera e lo spettacolo gratuito fuori era magnifico; l’elettricità nell’aria tale che in alto il nero delle nubi, tanto dense da rendere bene l’idea dell’invalicabilità dei limiti, era di continuo rischiarato da scosse lampanti, simili a quelle dei tubi al neon che muoiono, cui la residua carica impone tuttavia una tremolante agonia. A un tratto, dal ventre dei nembi, scariche di fulmini violenti scaturivano in mille rami fino a terra o, da un’unica raffica tesa in orizzontale tra un punto e l’altro di un rumoroso infinito, schizzavano giù in tante saette sottili e arzigogolate, giù in verticale, giù nell’acqua del lago, giù sulle cime, giù su qualsiasi punta, parafulmini, ombrello, bronco d’albero, puntale di canna da pesca se mai, e persino su un dito c’era da temere, avesse osato il dito esporsi alla loro energia. La vecchia signora in quel fracasso si sentiva a suo agio, potremmo dire allegra quanto una strega di macbeth, grata alla propria e alla sana costituzione della sua automobilina, blu ceruleo, dalle robuste guarnizioni, dal gradevole impianto di riscaldamento, dagli impeccabili  tergicristalli, dai fari penetranti la cecità cui la pioggia obbligava l’umano ma non il meccano. In quella, in quella scriverebbe un autore di un deprecato passato dando ad intendere il peso che un istante può avere nel corso di un evento così lieve come una vita, in quella dunque una scossa più agguerrita di altre prima e dopo, si schiantò su un traliccio, non importa il tipo, abbandonato rugginoso e inerte appena sopra un ghiaione come ce ne sono tanti sparsi sulle ampie schiene dei monti sorgenti dall’acque e fino a quell’attimo incerto, esso, se rovinare da sé a valle , cioè in quel caso sulla strada o no. Rovinò. Rovinò proprio mentre l’automobilina blu ceruleo della vecchia signora guadava la tempesta lì sotto sulla stradina stretta tra l’acqua del lago e la roccia. I fari di colpo sparirono alla vista.

Per sbrattare lo sfasciume di sassi e tronchi e insomma tutto ciò che costituisce una frana, benché non di immani proporzioni, fu necessaria dopo, ma non fu agile in mezzo allo stretto sconquasso, l’impresa dei pompieri. Dopo qualche ora di lavoro e con stupore di chi la manovrava, la grande mano meccanica di un grosso caterpillar si infilò, agguantandolo, sotto qualcosa di diverso da un semplice mucchio di roccia sfranta in pezzi minori; sollevata, in bilico sui denti della benna, apparve, molto conciata ma sempre blu ceruleo la macchinina della vecchia signora. Si capì sul fatto che un enorme tronco, messosi per traverso, quasi a far diga, aveva costretto le pietre, non si sa come, a saltarle o scivolarle sopra, in sintesi a non schiacciarla del tutto. Dalla scatola della carrozzeria, con una manovra prudente, i pompieri estrassero la vecchia signora. Un po’ spettinata, respirava ancora. Aprì gli occhi. Sono viva, domandò sul filo della sua voce al pompiere che la interrogava con lo sguardo e che rispose, Sì signora. Non sei dunque un angelo tu, domandò ancora la vecchia signora. No, non sono un angelo, escluse il pompiere con un sorriso. Alla vecchia signora parve angelico. Et lux perpetua.

About dascola

P.E.G. D’Ascola ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: "Le rovine di Violetta", "Idillio d’amore tra pastori", riscrittura di "Beggar’s opera"di John Gay, "Auto sacramental" e "Il Circo delle fanciulle". Sue due raccolte di racconti, "Bambino Arturo e il suo vofabulario immaginario"" e "I 25 racconti della signorina Conti", i romanzi "Cecchelin e Cyrano" e "Assedio ed Esilio", tradotto questo anche in spagnolo da "Orizzonte atlantico". Nella rivista "Gli amanti dei libri" occupa da molti anni lo spazio quindicinale di racconti essenziali, "L’ElzeMìro".
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4 Responses to La vecchia signora, l’intrepida blu e il nome del padre

  1. Biuso says:

    Le modifiche che hai apportato al racconto confermano quale sia la tua capacità di “sentire” il linguaggio, la sua musica, nota per nota.

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  2. Biuso says:

    Geometrico e insieme magmatico. Potente sempre.
    “Edificare mausolei alla malinconia piccolo borghese” è frase che condensa da sola una storia dell’urbanistica contemporanea. Strepitosa la chiusa, come quasi sempre nel tuo narrare.

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    • dascola says:

      Grazie tempestivissimo alberto; se lo hai riletto avrai notato il lavoro dopo i tuoi preziosi rilievi. Grazie.

      Inviato da iPhone di pasquale D’Ascola

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