Non pochi o forse solo alcuni tra quanti chi più chi meno hanno la mia età e dunque un breve e più che mai incerto tempo residuo da consumare, abbiamo vissuto in una sorta di infanzia della ragione inconsapevoli o tardivi testimoni della leucemia che il mondo, inteso da noi per errore come il guscio protettivo che genitori e adulti lottatori per il bel sol dell’avvenir ci avevano lasciato, stava invece subendo fino a manifestarsi nei modi che oggi ci sono noti. Creduli abbiamo creduto, e per un certo tempo così ci è sembrato di poter credere che la nostra vita, il nostro esserci, si sarebbe svolto lungo un asse verticale di modesto magari ma confortante progresso, di rinvenimento del nostro piccolo locus, prima del loculo. Che sarebbe arrivato di sicuro per noi il momento in cui avremmo potuto vivere della nostra intelligenza una vita da Proust non afflitta da contingenze, liberi di fare del nostro pensare per parole la propria elettiva ed eletta attività. A contemplare il nostro giardinetto svizzero. È evidente per chiunque non sia arrivato al così detto successo, ovvvero a qualcosa di più della mera sopravvivenza e a qualcosa di meno della crocifissione, che così non è stato e che il successo in sé si riassume nella ovvietà di quel che è successo; che chi lo ha raggiunto è in virtù di un opportunismo immorale o amorale, secondo le inclinazioni di ciascuno, secondo le famiglie, il clan, la ‘ndrina o semplicemente secondo l’occasione colta senza remore e in cui si era ritrovato senza talento altro che quello di sgomitare e correre in un campo coatto di calcio in costume, alla fiorentina; o di essere tanto furbo da uscire dalla trincea per ultimo quando il grosso dei morti fosse già così ben fatto da lasciare le mitragliatrici aliene e stanche a raffreddarsi. Sicché il mondo pare più che mai uno Stalag, la grande fuga dal quale, se praticabile, risulterebbe un grande suicidarsi. Una volontaria operazione malthusiana. Nel tentativo di lasciare un po’ di tempo ai figli e ai figli dei figli. La sterilità non si addice all’umano. Se è il peggiore.
Nella piccola loggia fiorita dalla quale contemplo per mia fortuna le montagne e il lago ogni mattina, osservo il lavoro delle api che si dedicano a quei fiori che ieri erano in boccia e che oggi hanno la forma di angeli maturi. Sembra che abbiano memoria o che addirittura tengano il conto di quelli che hanno già visitato le api, e si dedicano solo ai nuovi con metodo. Poi vanno via. Non saprei dire se mi sono spiegato.
Certes il est légitime que l’homme qui rédige des rapports, aligne des chiffres, répond à des lettres d’affaires, suit les cours de la Bourse, éprouve, quand il vous dit en ricanant:” C’est bon pour vous qui n’avez rien à faire”, un agréable sentiment de sa supériorité. Mais celle-ci se affirmerait tout aussi dédaigneuse, davantage même (car dîner en ville, l’homme occupé le fait aussi) se votre divertissement était d’écrire Hamlet, ou seulement de le lire.*
E forse forse, caro e radicale amico, ha ragione Céline. Anche se “è il nascere che non ci voleva”
(Morte a credito, Corbaccio, p. 40), “la vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte” (Viaggio al termine della notte, Corbaccio, p. 376). E che dunque il compito consista nel fare del Chrónos il nostro possibile Aión, mediante la donazione di senso all’unica realtà che siamo: l’adesso. Essere dunque Kairós
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E che dunque il compito consista nel fare del Chrónos il nostro possibile Aión, mediante la donazione di senso all’unica realtà che siamo: l’adesso. Essere dunque Kairós.
Come hai capito AGB sei tu carissimo, e hai commentato nel modo che ti è proprio in quanto dispositivo semantico.
Essere radicali non paga ma ripaga quando il proprio pensare, ancor che condizionale, incontra la radicale logica del tuo. Grazie Alberto.
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