A seguito delle opinioni del mondo universitario, non ho idea se solo o in parte solo milanese che la direbbe lunga, circa corsi da tenere esclusivamente in inglese, di recente, un gruppo di seicento docenti universitari ha firmato una petizione all’autorità competente – attributo che vedo male accompagnarsi al sostantivo autorità – schierandosi in difesa invece della lingua italiana. Da pochi giorni circola una circolare competente che sembrerebbe recepire i termini dell’appello, negando, pare, la possibilità di anglicificazione dei corsi.* Un bel dì vedremo. Chi scrive ha firmato anche la petizione in difesa di un istituzione italiana, il liceo classico. Circa il primo degli argomenti, segnalo in calce anche il link all’opinione di Apollonio Discolo, nome accademico all’uso arcadico di un noto linguista, cui garantisco evidentemente il piacere dell’accademico mistero.** Segue il pensiero di chi scrive.
Dalla lettura del brano di A.D. mi pare di avere evinto la tesi che siamo un popolo infantile con una lingua che si sta rimbambinendo da una parte, e aterosclerotizzandosi dall’altra. Bref, una lingua ridotta allo stadio infantile del lessico, chissà della lallazione da un canto, e cristalizzata in formule sorde dall’altro. Da lì l’ipotesi, mi pare non dichiarata, che quello dell’italiano è un caso clinico di regressione la cui cura conservativa, seguendo i termini dell’appello, sarebbe peggio del danno già fatto. Ma se ho letto con prudente attenzione, ciò avviene perché l’italiano non sa svoltare oltre l’angolo del liceo classico. Cioè maturare, crescere. Da qui l’inglese.
Da inesperto linguista ma appassionato e mancato clinico, sono convinto, e oggi del sintomo ho le evidenze, che il popolo si abbandona sì all’inglese, è incredibile il numero di vecchine che dicono occhèi al cellulare, ma a me pare si tratti piuttosto di proto inglese o Unterweltsenglisch, un inglese dialettevole, per sentito dire, omologato, frullato misto, delle caverne o alla 1984. L’errore di prospettiva di Apollonio però, se ho ben capito, sta nel considerare il dialetto angliano in uso, tale e quale una cura sperimentale quando invece è diffondersi metastatico del male che affligge il dire, ovvero l’ignavia sintattica, la pigrizia, l’adagiarsi in usi semplici per non fare fatica; male, quello del non fare fatica, che coincide con una sorta di nolountas, di fase down di un popolo non infantile ma bipolare. Il cioè nel senso voglio dire in luogo di parole che indichino un senso che vogliano dire; dunque a me par grave che se tu fin da piccolo sei abituato ad ottenere tutto, o strillando ché tanto mamma dice di sì, rispetta la tua cultura, o schiacciando un bottone sul telefono, e mi pare che si tratti dello stesso condizionamento di certi esperimenti sulle scimmie o sui topi con la pappa, con difficoltà riuscirai a capire, parlo di un caso accertato dalla mia pratica ospedaliera – così io chiamo il mio istituto, o pio istituto – riuscirai a capire che esiste il limite, il no, la cenciata in viso, e che non devi aspettarti l’avatàr del testo, per vederlo sul telefono o sull’iiipad, hi ha hi ha, ma leggerlo sulla carta, con note in calce e numeri di pagina uguali per tutti e con una matita accanto per prendere nota. Questa estensione del discorso credo ci trovi concordi in molti, convinti come siamo che almeno resistere alla rovina delle parole e della scrittura con le parole, sia un dovere ma di giardinieri; scilicet, la lingua vive se la si usa, se la si coltiva, se la si nutre. Più scrivo, da scrittore – è il mio lavoro autentico- più parlo, più studio, più mi do conto del formidabile strumento parlante che l’italiano avrebbe se solo volesse possederlo. Sapere altre lingue è un evidente vantaggio, un estendersi del pensare, e tutti noi amiamo senza rinnegare la nostra prima madre, inglese, spagnolo, oh rude bellezza del castigliano, portoghese, magnifico idioma che Pessoa alternava all’inglese, e tedesco e francese, seconda madre per chi scrive e prima di Céline che maneggiava l’inglese come Beckett il francese, ma colti. Non sono le lingue quelle di scellerate riforme con cui la Francia per esempio – si legga per credere L’identità triste di Finkielcraut – per blandire l’arrogante svogliato è disposta a transigere sull’ortografia e tutto il resto purché egli si senta accolto ed integrato, o come si dice adesso riconosciuto, daje, nella sua cultura, in un sistema che di arroganti e svogliati casseurs fa le vittime cui incerottare la bua bua. Ma la bua bua se la sono procurata da soli.
Pare che a un recente concorso italico per maestri, diciamo anche maestre o non si passa la forca caudina del pregiudizio di genere, le bocciature siano state in percentuale apocalittica. Domande troppo difficili, hanno protestato i respinti; Gravi carenze di italiano di base, hanno replicato le commissioni. Ci torneremo.
L’invenzione linguistica di Camilleri dimostra il contrario di ciò che Apollonio vuole arrivare a dire, credo per depressione da Gattopardo. Ma da qui la fondamentale aporia nel suo discorso. Sotto sotto, ma nemmeno tanto, credo infatti che Apollonio rabbrividisca e, freudianamente dinieghi che è proprio il dire ad essere rifiutato in funzione del balbettare e del menare le mani, del baloccarsi tra ipertesti e iperscemenze, test Invalsi e schede con risposte prepagate; il linguaggio sostituito da un l’Ego per deficienti. Questo è l’aperçu devastante, a prescindere dalla lingua, di cui si dovrebbe prendere atto; e il discorso coinvolge appunto non l’Italia in particolar modo. È mal così grave che ci vorrebbero Medici senza Frontiere per affrontarne l’avanzamento epidemico/pandemico.
L’inglese, ah ah, l’inglese di chi è la domanda agli accademici politennici e suggerisco a tutti di ascoltare Virginia Woolf, On craftmanship, BBC 1937 ***; come tutti sappiamo l’inglese di Shakespeare contava proprio in termini numerici e se non ricordo male, su un lessico di ricchezza dantesca o quasi. Ma ma ma di quel lessico nulla o poco è rimasto, se non presso gli attori che devono studiarlo. Per il resto è chiaro che per l’ignorante sistemico è manna benedetta andare in scuole di lingua dove ti insegnano che con 5000 vocaboli sei un advanced e girerai il mondo. Certo, se è questo che vuoi, giralo, giralo. Va a girà l’Ulanda, si diceva in Lombardia un tempo, per indirizzare qualcuno là dove si riteneva necessario che andasse. La pratica dell’italiano, con 5000 vocaboli fa di te un analfabeta senza ritorno. Del resto basta dare un’occhiata ai libri, nel senso di volumi, che si pubblicano, e massime a quelli per bambini e per le scuole. Brividi blu. Questo è il male di cui cotidie vediamo il manifestarsi, quando non è addirittura manifesto, ovvero il manifesto. È il caso di queste Università che propalano the governance of the ignorance, convinti di parlare in inglese perché storpiano termini della tradizione greco latina per affermare concetti elementari delle loro tecniche dure. Un argot senza la fantasia degli argot. In sintesi, mi pare che non da oggi siano gli stessi clercs untori del male, il cinema borgataro non solo italiano, i consigli accademici che si adeguano e accettano stranieri che non parlano nemmeno per ipotesi italiano, i consigli di classe che spacciano, in senso proprio, e si spacciano tutti i cialtroni e pigri per dislessici; e vai con le mappe invece di piegare loro la testa sui passati remoti. L’intellettuale Pasolini non si rendeva conto del male che diffondeva affermando che amava le persone con non più della quarta elementare a carico. Si stendano coperte pietose, sudari, sulle lettere alle professoresse. Bon ci siamo arrivati. Ho ricevuto un sms, da un laureato che m’ha scritto mè scappato, mà visto, arrivera’ , con l’apostrofo, che tutti chiamano accènto, arrivèra..’ dunque. Fatti notari i falli, risposta, Mi scusi ho cambiato telefonino e non ho ancora pratica con la tastiera, o voleva dire pastiera, napoletana.
Ho finito ma non sono sfinito. Se sembra ch’io rida, assicuro che piango. Vivere sulla zattera di Medusa affatica anche qui sul lago tra i monti sorgenti che non è in buona salute; scende scende sotto il livello di guardia che non passa.
** http://apolloniodiscolo.blogspot.it/2017/02/bimbi-oltranza-e-bimbi-di-ritorno.html.
***https://soundcloud.com/brainpicker/words-the-only-surviving
sì sono molto d’accordo con un’ipotesi, cioè che esser padroni d’un linguaggio ricco induce anche un pensiero ricco, perchè pensare e usare il linguaggio sono attività che si svolgono spesso all’unisono, così come un buon jazzista inventa bene perchè bene conosce le scale, le duttilità intrinseche alla tastiera della chitarra o del pianoforte
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Grazie Diego per la visita.
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ti visito spesso, solo che a volte vado di corsa
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Come sai, caro amico, condivido pienamente le tue riflessioni e il tuo agire per la lingua, vale a dire per gran parte della persona che siamo.
La complessità e la ricchezza dei rapporti che sia il linguaggio innato sia la lingua appresa intrattengono con il corpo, la biologia, l’animalità, il pensiero, il tempo, mostrano la loro centralità per ciò che definiamo ‘civiltà’, centralità che Cabanis ha esposto con la tipica chiarezza senza compromessi dell’illuminismo.
Per questo medico e filosofo, infatti, il livello di un popolo si misura «dal livello di perfezione della sua lingua. Una lingua ‘ben fatta’ porta necessariamente un popolo a ‘sbarazzarsi di tutti i suoi pregiudizi’ e a sviluppare le scienze, le arti e il proprio benessere, mentre una lingua ‘mal fatta’ pone dei limiti invalicabili al perfezionamento artistico, scientifico e sociale» (Matteo Favaretti Camposampiero, in Aa. Vv. Filosofie del linguaggio. Storie, autori, concetti, Carocci 2016, p. 159).
La sottomissione coloniale e provinciale a una lingua straniera è uno dei segni più certi del tramonto di una comunità. Se poi questa comunità coincide in gran parte con quella che si esprime in una delle lingue più ricche del mondo -l’italiano-, allora vuol dire che nessuna intrapresa economica o dinamica politica potranno salvarci. Ma noi siamo qui, a parlare e a scrivere cercando di rispettare nostra madre lingua. Io ho fiducia. Le lingue sono tenaci.
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La sottomissione coloniale e provinciale a una lingua straniera è uno dei segni più certi del tramonto di una comunità. Se poi questa comunità coincide in gran parte con quella che si esprime in una delle lingue più ricche del mondo -l’italiano-, allora vuol dire che nessuna intrapresa economica o dinamica politica potranno salvarci. Ma noi siamo qui, a parlare e a scrivere cercando di rispettare nostra madre lingua. Io ho fiducia. Le lingue sono tenaci.
Io non ho fiducia, ovvero non vedo a breve un orizzonte di pronunciamiento del pensare che non si svolga nei teatri del chiedere alle autorità incompetenti che modifichino i loro status e che si rendano conto che continuano a ricevere deleghe democratiche a condurre sommergibili in affondamento, ovvero che bellamente hanno preso ad affondare e stanno da tempo affondando contando solo sulla capacità di resistenza delle strutture al collasso. Anche perché, sempre da medico mancato, vedo intorno a noi il delirio e l’allucinazione dominare la scena. Ciò detto, poiché arrendersi mai, nutro una certa fiducia nella nostra capacità di resistenza e, da anarchici, nella forza esemplare del nostro singolare non demordere, non concedere spazio alla barbarie, pronunciarci dalle aule di studio ai treni nel nostro pronunciamiento-a rischio della vita faccio levare i piedi dai sedili e combatto le telefonate con telefonate finte ancora più fastidiose. Ebbene tutto questo in effetti smuove una certa alea di fiducia. No pasaràn. Dirselo per darsi coraggio non costa niente anche se chi lo diceva fu sgozzato e passarono, passarono eccome. Però…
Ya sé que estáis esperando mis palabras, porque me conocéis bien y sabéis que no soy capaz de permanecer en silencio ante lo que se está diciendo. Callar, a veces, significa asentir, porque el silencio puede ser interpretado como aquiescencia. Había dicho que no quería hablar, porque me conozco. Pero se me ha tirado de la lengua y debo hacerlo. Se ha hablado aquí de una guerra internacional en defensa de la civilización (…) Vencer es convencer, y hay que convencer sobre todo. Pero no puede convencer el odio que no deja lugar a la compasión, ese odio a la inteligencia, que es crítica y diferenciadora, inquisitiva, mas no de inquisición…llevo toda mi vida enseñándoos la lengua española que no sabéis. Ese sí es mi Imperio, el de la lengua española…
Miguel de Unamuno,in Salamanca 12 ottobre 1936
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Nell’Italia centrale si usa dire, invece di “giacca” – come in generale al nord – “giacchetta”. Non capivo il perché dell’uso di un apparente diminutivo. Dagli studi di linguistica ho poi appreso che, quando una lingua è viva e la fanno vivere i suoi parlanti, tende ad agglutinare termini di altre lingue entrati in uso: ed ecco che “jacket” è diventato “giacchetta”. In virtù dello stesso mio errore di interpretazione del termine, “giacchetta” è diventato “giacca” ed ha sostituito il termine di “casacca”. D’altronde noi diciamo Parigi e non Paris, Londra e non London e, un tempo, Nuova Yorca e non New York e via dicendo. Come d’altronde i parlanti inglese dicono Italy e non Italia, quelli tedeschi Italien e altrettanto via dicendo. Dobbiamo quindi concludere che l’italiano sta diventando una lingua morta? Teniamo presente che l’insegnamento di una qualsivoglia disciplina in lingua inglese non è solo un fenomeno di qualche Ateneo -tipo Bocconi, per Intenderci- ma viene praticato in alcune Scuole Elementari e vantato come fiore all’occhiello della relativa Istituzione. I miei nipotini acquisiti, uno in seconda l’altro in quinta elementare, studiano la geografia in inglese, con quali conseguenze sul piano dei processi di apprendimento tutte le persone parlanti e pensanti italiano possono facilmente intuire: è onninamente noto -in ambito didattico-pedagogico- che l’apprendimento di una disciplina nuova le cui proposizioni utilizzino il linguaggio verbale -seppure a livello metalinguistico- è incrementato dalla possibilità di stabilire relazioni -strutturali o analogiche- con l’ambito della cosiddetta lingua discorsiva o con altri ambiti disciplinari. Beispiel, il termine “conoide di deiezione” rinvia a “cono” e a “scarica” per quanto sia necessario tradurre in linguaggio discorsivo la parola “deiezione” . Possiamo immaginare quale possa essere la possibilità di comprensione – nel senso etimologico di prendere con- di una disciplina in una lingua diversa da quella madre, e la cui conoscenza finisce col limitarsi al lessico specifico di essa disciplina, forzatamente imparato a memoria e isolato da qualsiasi contesto linguistico. Qui però entra in gioco la totale ignoranza e impreparazione e della dirigenza scolastica e del personale insegnante. Oppure il processo di omologazione che investe tutte le sfere dell’esistenza – sia a livello pratico che etico e intellettuale – e che produce un acritico conformismo generato a sua volta da una pervasiva fabbrica del consenso, porta all’inesorabile atrofizzazione della capacità di pensare? Non è un caso che, sempre nell’ambito degli studi linguistici, è da tempo assodato che pensiero e linguaggio retroagiscono. Infine, l’indifferenza nei confronti dello smottamento della lingua è perfettamente congruente con quella nei confronti del territorio, e poi le civiltà muoiono…
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Qui però entra in gioco la totale ignoranza e impreparazione e della dirigenza scolastica e del personale insegnante. Oppure il processo di omologazione che investe tutte le sfere dell’esistenza – sia a livello pratico che etico e intellettuale – e che produce un acritico conformismo generato a sua volta da una pervasiva fabbrica del consenso, porta all’inesorabile atrofizzazione della capacità di pensare? Non è un caso che, sempre nell’ambito degli studi linguistici, è da tempo assodato che pensiero e linguaggio retroagiscono. Infine, l’indifferenza nei confronti dello smottamento della lingua è perfettamente congruente con quella nei confronti del territorio, e poi le civiltà muoiono…
Ecco fatto il becco all’oca,mi diceva spesso mia nonna per concludere un gesto, un atto un detto; ma la vera conclusione stava per me nel seguito, E le corna al podestà. Ovvero che lo sberleffo di Arlecchino al podestà coincida con la sua cacciata.
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