La La L….and?

Dall’ Exiles, Esuli, di James Joyce, che la sua opera riassunse nel detto, three cat and mouse acts, ecco una battuta che per qualche ragione mi ha colpito. Dice Bertha, Lei, a Robert, l’Altro, I like you Robert, I think you are good. Are you satisfied? 

Bon, mi pare che in tanto icastico troncare, impedire il godimento di una verità sull’amore ci sia qualche traccia affine in La La Land.

Non fosse che ha già ottenuti tanti riconoscimenti per dritto e per rovescio, forse il film avrebbe meritato anche l’Oscar come migliore. E in effetti se valutiamo per atto mancato l’annuncio di vittoria agli Oscar, prima formulato e poi smentito, pare proprio che Lalaland abbia anche ottenuto il massimo giudizio come opera nella sua interezza. Ne parlo volentieri, sempre con la riserva che non intendo fare altro che parlare del bello dove, a mio giudizio, si manifesta.

Per chi ancora non lo sapesse i piano sequenza sono quei modi di girare in movimento per cui si parte e si arriva dopo un po’ dove finisce la scena, tutto senza mai fermare la camera. Il film inizia e termina con un imbottigliamento stradale e con una danza lunghissima in una lunghissimo piano sequenza che, come dice una signora amica qui di Lecco, ha il suo bel perché che così sia, che sia cioè un piano sequenza la soluzione più idonea all’aprirsi di una rapsodia, in blues, ovvero di triste sostanza. LLL incomincia con una fine già dall’inizio, Lui che la sorpassa in auto quando alla fine l’imbottigliamento si scioglie, Lui che La urta e supera nella scena seguente, Lui che ama una musica superata, il jazz, Lei che viene superata ai provini, Lui che alla fine fine fine viene superato da un bel tomo di uomo del mondo, tanto ineccepibile che appare, non si rappresenta, elegante e scontato, dice poche battute scontate, l’amore scontato non fa sconti. E più che l’amor poté la necessità di un marito, di un marketing nuziale, avere la tata prima ancora della bambina. Il cinema dona successo ma è il denaro che lo sostiene, non il sogno, e nemmeno la musica. Lei dimentica Lui dopo essersi domandata di un Noi che Lui sa impossibile sì che a domanda, Noi intendo… risponde,  Capisco sì vedremo. Un bel dì vedremo, Lui è dalla parte del superato. Lala blues. Non si può non amare, noi terzi, il due Stone-Gosling. Importante è che non lo sapranno mai.

Genere di siparieti canterini e danzerini e a volte di noia inenarrabile, non diverso dall’opera lirica che talvolta uccide chi non l’ami senza giudizio, il musical, là dove finisce ossia più o meno con Cabaret che, appunto, non ha siparietti ma solo scene di teatro vere e proprie che continuano la storia senza sipario, ecco che comincia La La Land, che musical non è se non nella misura in cui è musicale, tanto musicale che è strutturato come una partitura, con un piano melodico e uno armonico, operazione che con le immagini è difficile ma che denuncia l’abilità del direttore Chazelle nel tenere alla briglia il tempo, annullando i numeri chiusi caratteristici appunto del genere, il genere Minnelli per intendersi, di cui Chazelle cita, tra gli altri citati, Un americano a Parigi. Scartato dal film è proprio il numero; gli attori entrano ed escono da improvvisi accessi, scarti di danza o di canto senza mai soffermarsi senza mai concedere nulla al godimento del soggetto spettatore, come un analista lacaniano che interrompa la seduta nell’istante in cui l’analizzante sembra prenderci gusto. Nada, Chazelle taglia, interrompe, rompe, non concede, scarta. I passi coreografici sono bellissimi, per chi li ama, ottimamente agiti ma allusi e preclusi; che possano durare non ci si deve illudere. Di preciso come questo amore splendido dei due protagonisti, non meno vero quanto l’effimero e il banale, la regola di cui è intriso. Salvo non si creda che vi sia tra due amanti la possibilità di dirsi cose più alate di T’amerò per sempre. Ovvio come la morte, ma è così. Quando va bene l’amore è costruito, fabbricato, fondato su duri scontri con l’altro, con la totalità dei fatti -Wittgenstein- con la rinuncia dell’Io e il mettersi da parte della pulsione oppure, appunto, finisce perché è sogno, vocabolo ricorsivo del film; il sogno, anche l’incubo nasce e muore in tempi brevi quanto abbaglianti. L’amore è altrove. Il film finisce così come inizia, in un ingorgo dove l’amore è trappola e vittima della propria impossibilità nel reale – il sogno cinemagrafico è reale ma di un altro mondo, di una nowhere land, è un linguaggio dell’Altrove che prelude al risveglio ovvero sia al battere il culo sul pavimento. Il numero due esprime contiguità, non c’è carne che si consuma e strugge -grazie a Chazelle niente simulazioni di sesso- i Due sono perduti, solo un’occhiata finale li tiene in vita, lontani, eppure…

Opera di inseparabili solitudini il film ricorda che, We are such stuff as dreams are made on, and our little life is rounded with a sleep*. Il resto è la cartolina di una california perenne, l’annullamento del tempo, solo cartelli esplicativi, autunno, estate, ché il tempo a La La L and…, lallazione e/o acronimo di Los Angeles, non esprime stagioni, Ma è Natale, Lo so ho visto gli addobbi in giro. Tale da portarci a concludere che il resto è bikini.

* Siam fatti noi della stessa pasta di cui son fatti i sogni, e un sonno è l’anello della piccola nostra vita. Shakespeare. La Tempesta. a4/s1

About dascola

P.E.G. D’Ascola ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: "Le rovine di Violetta", "Idillio d’amore tra pastori", riscrittura di "Beggar’s opera"di John Gay, "Auto sacramental" e "Il Circo delle fanciulle". Sue due raccolte di racconti, "Bambino Arturo e il suo vofabulario immaginario"" e "I 25 racconti della signorina Conti", i romanzi "Cecchelin e Cyrano" e "Assedio ed Esilio", tradotto questo anche in spagnolo da "Orizzonte atlantico". Nella rivista "Gli amanti dei libri" occupa da molti anni lo spazio quindicinale di racconti essenziali, "L’ElzeMìro".
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16 Responses to La La L….and?

  1. diegod56 says:

    Aggiungo un’altra osservazione: una strana estraneazione temporale, in quanto siamo nel contemporaneo (auto giapponese, cellulari) ma immersi in un sapore retrò, specie nella fotografia, molto anni ’50 come atmosfera; non è il genere di film che amo, a me piacciono francesi e con pochi attori, produzioni di piccolo calibro, molto europee, però questo l’ho visto volentieri

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    • dascola says:

      Ti ringrazio ma mi permetto di contraddirti, la fotografia non può essere anni ’50 perché ancora il colore technicolor non permetteva lo sfumato; i costumi dovevano essere verdi, gialli, azzurri, blu, non rossi ché avrebbero saturato; il cinema si faceva in meravigliosi bn; La la land forse tende alla sovraesposizione generando quella specie di effetto patina che invecchia l’immagine, ma non sono certo un direttore della fotografia ed è difficile dire che diavoleria volessero ottenere. Guardati o riguardati Gli spostati prima e poi visto che ti piacciono i francesi Troppi amici-2009.

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  2. diegod56 says:

    Ho visto il film ieri sera, scegliendolo per due motivi: l’orario e la recensione di Pasquale. A me è piaciuto, proprio per la consapevolezza in cui ti immerge, la consapevolezza che stai guardando un film. Un po’ lungo, semplicemente un godimento e visivo e musicale tutte le volta che c’è dentro il jazz, potente il senso di surrealtà, qualche richiamo a parecchi film, io ho intravisto «gli ultimi fuochi» di kazan; l’amore giustamente rimane un amore irrisolto, lasciato naufragare negli anni gloriosi della giovinezza; ma i grandi amori non sono mai amori risolti

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  3. Qualcosa mi dice che leggere il tuo post è godimento migliore che vedere il film…
    La L.A. Lacan!

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    • dascola says:

      Non no, il film è molto bello e maturo. Pare piaccia molto a chi sa o frequenta la musica o è musicale. Dunque. P.

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      • diegod56 says:

        caro P., mi incuriosisce l’aggettivo «maturo» che non avevo mai inteso riguardo un film, salvo in relazione alla carriera creativa del regista

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      • dascola says:

        Non saprei spiegarmi perché ti incuriosisce Diego ma tant’è e grazie per la prodigiosa messe di commenti. LLL attira. Il cinema è un’arte collettiva figlia di una famiglia allargata come le cattedrali gotiche o la musica pop, concorso di abilità e talenti. Questo non lo dico solo io, era la convinzione di un autore come Bergmann che tale non si considerava. Bravo il regista che sa amministrare le parti di ognuno, e che si riserva il ruolo di guida per gli attori; ma questa evidenza non entra molto nell’immaginario collettivo. Il demiurgo resta il modello e mutuato da altre arti. In America peraltro l’idea del solista alla direzione è molto lontana dalla realtà; per questo è nato il cosìddetto cinema indipendente, ma un film non è mai troppo indipendente da tutti quelli che lo hanno fabbricato. Basta leggere quantitativamente i crediti finali. Sfatare un mito è opera al nero.

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      • diegod56 says:

        d’accordo, le cattedrali gotiche è un bell’esempio, ma nonostante la tua cortesia, in effetti non mi spiego il senso della parola «maturo» anche se forse intendi maturo come frutto d’una lunga e consolidata tradizione artigianale, cui interessa poco il nostro senso europeo d’amore per la firma

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      • dascola says:

        Sei tu il lettore. Io mi limito a scrivere. In ogni modo la spiegazione che ti sei dato va bene.Pare anche a me. Abbracci.

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  4. Gianmaria Sortino says:

    Finalmente un commento non cinico su un film non cinico; una critica ariosa, dinamica e col cuore aperto come i due piani sequenza del film: quello iniziale ballerino e corale, e quello finale immaginifico e intimo, sul desiderio di un’altra vita insieme. Vogliamo D’Ascola sulle pagine dei quotidiani!
    Salutiamo

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    • dascola says:

      Mi rallegra, mio caro Sortino, la tua osservazione e te ne sono grato. Sai, io scrivo queste osservazioni per gli studenti. E credo proprio che nessun giornale me le lascerebbe scrivere. Ma ti ringrazio di nuovo per la generosa presa di posizione. Un abbraccio P.

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  5. Gransole says:

    Molto bello il tuo post.

    Mi hai convinto a vederlo.

    I film ormai mi interessano solo se i contenuti sono espressi tramite la tecnica cinematografica, perché del contenuto in sé non me ne frega nulla, tanto è stato detto o scritto.

    Ma se il linguaggio ha la forza di trasfigurare, trasformare e potenziare, allora sì il contenuto diventa interessante. Perché ogni contenuto non è mai statico, ma ha tante nuance mutevoli, tante sfumature e tante contraddizioni, come la verità, plurale più che mai.

    Cose ovvie…

    Baciamo le mani

    Francesco

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  6. Biuso says:

    Questa tua travolgente analisi, caro Pasquale, mostra bene le ragioni che ti inducono ad apprezzare un film che a me, come sai, non piacque per nulla. E conferma, soprattutto, che la riflessione su un’opera parte sempre dal corpomente di chi guarda e non dall’opra stessa.
    Aver accostato La La Land a Lacan ne rappresenta un’evidente conferma.

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    • dascola says:

      Ciò che dici è vero Alberto; è lo spettatore che fa lo spettacolo. Questo è tra l’altro il nocciolo effimero dell’arte. Io lo insegno. Grazie Albertus.

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