Devo ammettere in pubblico che parlare di film è uno svago intrigante e un esercizio di scrittura. E poiché qui a Lecco, stante la dispersione di sale che più o meno proiettano a giorni alterni gli stessi film e solo dal venerdì al lunedì, andare al ci-ME-na è un avvenimento, l’evento meraviglioso di quando s’era piccini, al tempo della cremalaska. Allora dirne è ancora il di più del meglio ovvero un plus-meglio.
Nello scorsa osservazione su el el lænd mi è venuto in mente il Joyce di Exiles e da qui il discorso potrebbe andare avanti a proposito di Manchestere by the Sea, opera anche questa di dèi minori, un atto unico o, con malcelata malizia, un agìto unico. In proposito e come premessa mi tornano in mente le parole di un conoscente, professore di filosofia a Milano Bicocca e psicoanalista, in occasione di un convegno in cui ierimo entrambi nel ruolo di relatori. Trascrivendo dalla registrazione del 26 novembre 2016, cito dunque alla lettera il professor Matteo Bonazzi a proposito dell’umano, o meglio del parlante… sarebbe interessante tornare a chiedersi anche in maniera elementare perché parliamo … la questione è se parliamo o meno di niente… ma parliamo sempre di niente, motivo per cui in effetti continuiamo a farlo, perché se parlassimo di qualcosa risolveremmo la questione … questo niente è evocativo è il motivo per cui chiediamo a qualcun altro di dirci quello che stiamo dicendo… non esiste l’autoanalisi.
Ebbene il film in questione, analitico nelle misura in cui lo si voglia considerare fenomenolgia del male di vivere – quello che si incontra spesso – inizia e finisce, anche in questo caso, con due scene simili. In entrambe lui, Lee, è alle prese con tubi e scarichi, in entrambe c’è un altro che parla d’altro nell’impossibilità di un discorso di cui si immagini il decorso. Nel primo caso una donna fraintende, altro modo del dire d’altro ovvero niente, e parla d’altro; nel secondo caso un uomo usa il discorso di Lee per fare il suo e parla d’altro. Per parlare d’altro, niente. In fondo è come se ognuno, nel corso del film facesse come mi pare si possa dire nella realtà quotidiana (che perde vieppiù contorni realistici), dove si usa il discorso altrui per intervenire con quell’associazione al discorso stesso che salta in mente all’istante. Non sei capace di dire qualcosa tipo la carta di credito, la scuola, il tempo, domanda il giovane nipote a lui, allo zio Lee che replica, No non sono capace. Alternativa è dunque tacere, l’ascolto. Lee tace, subisce la morte del fratello, la vita che conduce, il caso che lo ha sottratto alle sbronze con gli amici, alla moglie che sappiamo avere perso in una tragedia, alle bambine morte appunto nell’incendio della loro casa, incendio di cui spererebbe essere colpevole e non lo è, non in prima persona. Lee ascolta o tira cazzotti, l’agito, come se sapesse che parlare è impossibile, e l’ascolto è grave, difficile, insopportabile. Che si va in analisi, diceva ancora il Bonazzi, in fondo per imparare a mentire un po’ meglio. La moglie divorziata, neo mamma di un bimbo che ha appena avuto da un nuovo compagno, gli dice, Ho detto di te cose orribili, scusa scusa scusa ( frigna che è piacere) ma io ti amo. Tutto questo è inascoltabile, Non fa niente non fa niente, ripete Lee di tutto.
Ora, concludendo, alla stregua di LLL mi pare che Manchestere by the Sea sia un film d’amore sull’amore, di un triangolo amoroso – pieno di appendici: di mogli, di piccole arpie del sesso, di amici, di una madre folle e bisognosa di un padre, eterno nel caso specifico e a capo tavola nella sua nuova casa, di comprensivi medici e poliziotti, una nave dei folli – il padre Joe, che scompare nel passato della sua vita breve e nel presente della propria morte, assente evocato, il figlio, Patrick, altra faccia dell’amore, della libido, come ci insegna il nostro babbo Freud, considerata sotto l’aspetto di abbuffata sessuale, lo zio, Lee appunto, lo spodestato, quello che vive di più in questa che pare la tragicommedia dell’impossibilità quotidiana, del rincorrere contiguità inintersecabili. Lee si nega alla casualità degli inviti di cortesia, teme il nipote, finché non si capisce superstite dovuto del triangolo. Su una barca destinata alla demolizione l’unico legame con il reale, o chissà con il simbolico, benché sia altrove, sia un mondo fluttuante lontano dalla terra degli uomini, un posto elementare lo l’ultima inquadratura vede zio e nipote di spalle e in controluce che parlano ma non sentiamo le parole. Son cosa loro. Pescano, mare e sfondo di gabbiani. Un film si sarebbe detto ai tempi di Fernaldo di Gianmmatteo, ben scritto, ben fatto e benvoluto. Pieno di cose da dire che appunto non si possono dire. Un film in silenzio.