Il viaggio della Gilda

Dopo il public reading di ieri sera al Book pride di Malanno, molti mi hanno chiesto amici e sconosciuti, a voce pochi e per posta molti, di poter leggere la favoletta del titolo. Per andar incontro a  tanto entusiasmo, contravvengo una tantum all’antica promessa di non pubblicare mai da questa sede  alcun mio lavoro. Il contrario sarebbe parso un po’ da  ombretta sdegnosa, personaggio che non mi si addice né che vorrei interpretare; se mai per i veneti che mi leggono e che possono capirmi potrei essere ombreta, ma mai sdegnosa, posta nel dubbio tra un calice di prosecco e uno di Tocai terrano. Ecco la favoletta.

100. Il viaggio della Gilda-una favoletta madre

Come la più parte delle mamme anche quella mamma, prima di ereditare il titolo di mamma, per il tempo dovuto ebbe una mamma e un babbo. E quest’ultimo fu la rovina o, secondo di come si voglia intendere questo fortunosa e inattuale e finale favoletta, la fortuna della famiglia. Ma andiamo per prudenti gradini ché, così procedendo, dicono, di rado si sbaglia. La mamma, prima di diventare mamma, si chiamava Gilda e viveva lontano in un paesino posato tra le basse colline di un ondulato fiume che giù da ghiacci  altissimi, giù per cascate e per buie caverne e salti e balzi finiva tra gli abbracci d’Atlante Oceano. Il paesino, d’Âge, era celebre per i suoi sconfinati frutteti intorno, di prugne soprattuto, moltissime prugne, le rinomate prugne o pruneaux [1] d’Âge, e aveva, la Gilda, non d’Âge, sei sorelle, Emma, Elda, Feda, Renée, Jeannette e Lisette, detta Élise o Élisabeth. E tutte le altre sorelle della Gilda dicevano, È una patata cotta e messa lì. Non si sa bene a motivo di che, forse perché la Gilda volentieri stava seduta a guardare le cose farsi intorno a lei e poi chiedeva, Come mai, Comment ça se fait [2], nella sua lingua franca. E tutti ridevano e la deridevano. Sasfè sasfè, cosiè cosiè ridevano, perché in cuor loro il fatto che, cosa fatta capo ha, non le turbava affatto. Anche quando la Gilda domandava Comment ça se fait che un pullman si fosse incendiato proprio in centro del paese accanto alla fontana e i passeggeri, quelli che riuscirono, dai finestrini giù nell’acqua saltarono dentro, e altri no, non fecero a tempo; e come mai le formiche mangiano di tutto, anche i morti ma senza averli uccisi, mentre gli uomini non mangiano le formiche,  nemmeno vive e uccidono un po’ di tutto per mangiare, per non essere mangiati e, soprattutto,  perché così loro piace; Comment ça se fait, come mai, come mai.

Nel 1933, quando la piccola vicenda narrata da questa favoletta ha inizio la Gilda entra in prima elementare. Un uomo solo, con un passato di pittore e soldato, ha sottomesso a sé tutta la Germania. Si chiama Adolf Hitler. Intanto gli scienziati Sigmund Freud e Albert Einstein si scrivono delle succose letterine chiedendosi l’un l’altro, Perché la guerra. Le risposte che si danno non sono incoraggianti così che Albert Einstein, di ritorno dall’America, scende dal treno che da Bruxelles lo lo sta riportando a Berlino dove vive e insegna, sale su un altro in direzione opposta, e ritorna in America, per nave naturalmente non in treno.

Poi c’era, ci fu e sparì un fratello, Eugenio, che dire vorrebbe dire nato bene ovvero bennato, ma per il bene, come vedremo tra poco, proprio non era portato tant’è che tutti lo chiamavano Gino e tanti saluti alle sorelline per evitare di avere di più a che fare con le sue fanfaronate o, quando gli girava storta, con le zuffe in cui si cacciava, il maltratto che a tutti riservava, la cattiveria con cui uccideva a sassate povere bestiole, di nessun conto nella sua testa, e non per mangiarle ma confermando quanto già detto, per farle fuori e basta. Gino, era fatto a quel modo, malfatto e, bisbigliavano in paese, piuttosto malfattore. Era più grande di tutte le sorelle, e aveva in uggia tanto il babbo che chiamava parapappà-molla, tanto la mamma che considerava la sua personale cenerentola-vien-qua-cenerentola-va-là; sicché poco più che ragazzino Gino scappò di casa e varcò, su per i monti, la frontiera. Allora era normale, c’erano di qua e di là dovunque, e noi di qua e voi di là a non finire, e passaporti da mostrare e guardie armate, con lucerne e mustacchi, pennacchi non di rado, cui c’era da obbedire quando chiedevano, Aprite svelto la valigia e nella borsa orsù fatemi vedere, anche il portafoglio sì e dove andate e perché mai ci andate, avanti dite, purché ti lasciassero andar oltre nelle terre che altri chiamavan, loro. Gino passò invece per un sentiero stretto e nessuno gli chiese dove andava né lui dove si doveva andare per andare alla guerra che lo eccitava, una guerra privata contro gli infedeli, i diavoli, gli anticristi rossi, colore cui da sempre si attribuiscono valori che da sé solo esso non possiede, ma rosso è il sangue vivo, rosse le macchine dei pompieri e il bottone d’allarme negli ascensori. Rosso al semaforo vuol dire, Frena e ferma, la rosa rossa, Ti amo, o qualcosa del genere; un vestito rosso, Eccomi qua guardatemi, una macchina rossa, Via col vento. Un fazzoletto rosso, Rivoluzione o, anche lì, qualcosa di simile.

Intanto appunto era scoppiata in Spagna la guerra di un tale general Francisco, di nome e Franco, ma solo di cognome, contro la pubblica Repubblica spagnola che egli sbraitava fosse da ripulire da bolscevichi [3], e mangiapreti, atei, anarchici e affini lui che cattolico apostolico romano prima di uccidere andava a farsi benedire. Intanto il matematico inglese Turing progetta una macchina, la macchina di Turing, una matemacchina di carta, macchina immaginaria ma tanto bene immaginata da diventare madre e padre  del calcolatore. Il fisico Enrico Fermi vince il premio Nobel e a Gardone Riviera nella sua brutta villa piena di oggettini ed aggettivi muore il poeta Gabriele D’Annunzio. Fermi scappa anche lui in America, mentre Einstein segnala per iscritto al presidente degli Stati Uniti che Hitler potrebbe far fabbricare ai suoi ingegneri una bomba di nuova concezione, detta nucleare. 

Vero è che molti valenti e coraggiosi d’ogni parte del mondo andarono a combattere per difendere quella Repubblica d’Iberia e molti altri come il Gino, vollero abbatterla, ed erano armati questi qui di tutto punto, o fino ai denti secondo come piaccia dire, con aerei cacciatori e carri corazzati e cannoni tanti che alla fine di tre anni di battaglie l’ultima fu perduta, e furono infiniti i lutti che alla vittoria dal general Francisco seguirono, e dopo ancora per tutti gli anni e tanti e lunghi della sua ben inventata dispotica regnanza. E Gino tornò a casa, per farsi bello di sue guerresche imprese, con il babbo. Ma il babbo, più che agli uomini era contento di parlare alla sua gatta e alla cavalla perché una volta, in una notte nera di lampi e di battaglia, una cavalla la vita gli aveva salvato; degli animali dello zoo dietro le sbarre, che compativa, gli animali non le sbarre, e della maiala che lasciava libera in giardino, lavata e pettinata da tutte le bambine, il babbo amava la conversazione fatta di occhiate e gesti impercettibili alla più parte dei distratti bipedi; sicché al sentire del Gino lo sragionare di assalti e assedi, di fuoco e fiamme e impiccagioni, al vedergli brillare tra le mani la baionetta con cui, beh con cui e così basti, per il dolore assurdo, com’ebbe a dire poi, di avere ràllevato sette figliole più un Caìno, detto fatto di casa lo cacciò. Il ragazzo sparì beato e di lui nulla o poco men che nulla per anni trasparì, se non che di buttarsi nelle battaglie più atroci e di servire i padroni più feroci era per lui una vocazione, e che ormai molto vecchio prima di morire, chissà per qual motivo oscuro, per la città del Papa era partito, era arrivato e, più che a piedi, sulle ginocchia a strasciconi. È raro, anzi sono pochi i peggiori che annusando l’odore che sale dai propri orrori almeno dopo un po’ si lavano, ma Gino, Santità ho da espiare, disse al Papa lì per lì. Vedendoselo espiare ai propri piedi sul pavimento di marmo laggiù, e giù giù a baciargli le pappuccette rosse, di raso e d’oro, non sappiamo se lo Papa facesse una faccia stranita o se piuttosto irritata, Pace, amen e gloria.

Intanto in Inghilterra, sempre il matematico Turing scopre come funziona l’Enigma una macchina tedesca per cifrare, cioè  nascondere sotto l’apparenza di un’altra disposizione di parole, gli ordini dati ai sottomarini che in mare fanno danni spaventosi ai convogli che dal Canada portano la roba da mangiare e la benzina per gli Inglesi, soli e isolati a combattere la guerra, la seconda, che di lì a poco sarà la più mondiale fino ad allora conosciuta. Intanto un inventore ungaro, tal  Biro, immagina una nuova penna da scrittura ma non ha soldi per produrla sicché cede il brevetto al francese Bic-h, che di mestiere fa il barone e soldi invece ne ha tanti che così  la penna Biro si chiamerà Bic.

Dopo quel fattaccio il babbo non era stato più lui. Viveva di paura che è un gran bel nutrimento in certe situazioni ma in altre si dice paralizzi. Era scoppiata un’altra guerra, guerra d’invasione dei Germani che, intenzionati insomma a papparsi una gran fetta della torta, del mondo la più grossa, prima s’erano presi l’Ostria, la Suddezia e la Polacchia, quindi la marca dei Danesi e i fiordi dei Norvegia; quindi dal Nord giù per le Fiandre erano entrati nella terra Franca, terra com’è noto di paladini e moschettieri. Il babbo che alla prima, alla grande prima guerra grazie a una cavalla era scampato, ebbe allora la sciagurata ma comprensibile idea di prendere tutti i suoi risparmi di una vita fattiva da fattore [4]di un frutteto vasto quanto una lombardia, di fare le valigie e di tornare nel bel paese dove, canta il poeta, fioriscono i limoni e brillano le arance, nel Friûl, dove limoni non ce ne sono e arance meno ancora, ma insomma si sa che la poesia fa proprie le più vezzose immagini, nel Friûl da dove il babbo era scappato in cerca di fortuna dopo la tanto grande tempesta di fuoco della Grande, appunto, Guerra e che nel Friûl aveva lasciato tracce e trecce di filo spinato e trincee e grandi buchi di esplosioni e neanche un chilo di terra da seminarci il grano, limoni e arance nemmeno parlarne. L’aveva trovata in terra Franca la fortuna, il babbo allora giovane con la sua ancor più giovane moglietta rosa, di nome e di colore; solidi e accorti contadini ma non tanto da rendersi conto, quanta fortuna valesse quella fortuna. Benché non sia così raro che a tornare sui propri passi talvolta non si sbagli, o si sbagli poco, e il più delle volte invece si caschi a gambe all’aria, pensava il babbo di ritrovarla la fortuna tornando indietro, nel suo paesello di Ùdin con la sua collina in mezzo e il bel castello sopra. Non poteva prevedere il babbo che dall’agiata e laboriosa D’Âge là dove tutti leggevano e scrivevano, dove le ragazze avevano scarpe e vestiti gentili di cotone a fiori e sotto le sottane bretelline elastiche e graziose per tenere su le lunghe calze scure o chiare e che al mare oceano in gita andavano o su per i monti, su per i boschi con scarpette lievi e calze corte sui malleoli; dove i ragazzi avevano scarpe e calzoni come li volessero, più lunghi o meno lunghi, e calzettoni e cappottoni per l’inverno; dove tutti mangiavano almeno due volte al giorno, diciamo pure tre senza paura di sbagliare, insomma che da quel paese di pane e marmellata e nuvole sarebbe precipitato in un paese di polenta e zolle secche e latte [5], sì ma non proprio tutti i giorni. Inoltre il paese tutto, detto il Belpaese [6], quello dei limoni che fioriscono quando gli pare adatta la stagione, era però da più di qualche tempo dominato da un Nessuno, molto più spesso nominato che innominato e di nero tutto vestito; un paese dove la legge era quella di certi suoi scalmanati, di lui del signor Nessuno, a tutti noti per camicie nere, bravacci carchi di teschi e cinturoni, pistole, baionette e stivaloni; tipi che per un nonnulla si mettevano a strillare, A noi a noi, per far sentire chi, che era più forte e più bravo dei bravi del Manzoni, quel dei Promessi Sposi; tipi che per un nonnulla, un altro ancora, giù pugni e calci e bastonate a chi il cappello in fronte a loro non levasse; tipi che per un nonnulla anche alle stelle gridavano di notte, A noi a noi. Loro, oh loro in quell’a noi  si sbrodolavano più che nel brodo la pastina. Pareva invece che le stelle guardassero perplesse, ma indifferenti per lo più.

A Ùdin i ragazzi, tranne certuni fortunati, figli di medici e avvocati, non avevano né scarpe né berretti, ma zoccoli di legno e brache, sempre le stesse da un inverno all’altro; nessun cappotto, nessun mantello per il freddo, solo talvolta una giacchetta che il padre al figlio, ed al nipote il nonno aveva posato sulle spalle un giorno e che, per così dire, per sempre si sperava la durasse, simile se non uguale a una fantastica eredità. E anche le ragazze non avevano scarpe ma zoccoli d’inverno e piedi dalla pelle inselvatichita per l’estate e calze nere tenute su con un elastico che stringere stringeva da levare il sangue ma reggere non reggeva niente e così sotto le nere sottanone le ragazze erano sempre sbrindellone e, non di rado, smutandate; nessuno soprattutto, nessuno che avesse il bagno in casa, ma un casotto nei campi per i suoi bisogni più profondi e una tinozza di legno o zinco per lavarsi, ma non sempre, anzi poco, ché scaldare l’acqua costava, mica poco. La Gilda  e le sorelle con il babbo e la sua moglie rosa arrivarono che il capo, quel che le camicie nere chiamavan, Duce-tu-sei-la-luce-che-ci-conduce, e buce invece qualcuno che da sé solo alla sua strada sapeva fare luce, il ducebuce dunque sull’esempio dei Germani, voleva papparsi una fettina di mare e suolo provenzale, sicché, Fuori dal Belpaese questi Franchi fuori, dagli a strillare per le strade gli scamiciati in camicia nera; così forte e tanto che il babbo e la famiglia di bambine con la mamma rosa, franchi ma furlani di cognome, a lungo non osarono mettere il naso fuor dalla pensione dove s’erano installati. Così fu che poco alla volta i risparmi di una vita presero ad essere pochi per un’altra. E le sorelle, anche a uscire non parlavano con nessuno perché non sapevano una riga della lingua propria al Belpaese, nemmeno una parola di furlano, ossia furlane lenghe, che il babbo almeno e la sua moglie rosa ricordavano e delle bimbe invece non era diventata madre lingua, o marilenghe. La Gilda leggeva e rileggeva l’unico libro che le era stato concesso di portarsi appresso, per non far peso in treno, un vangelo dalla copertina azzurra, in franco, e benché amasse i libri non poteva comprarne ché non solo in franco di libri non ce n’era ma in generale il libro, da quelle parti, era un oggetto raro. E poi e poi, Fuori dal Belpaese questi Franchi fuori, detto, ridetto, sbavato e ribadito. Oh cielo, erano piombate quelle sette sorelle, cinque perché due, l’Emma e la Elda le più grandi a D’Âge stavano accasate, erano piombate in cinque nel bel mezzo del paese d’ignoranza. E della povertà ché il babbo, povero geppetto, il lavoro che sperava di ritrovare, la fortuna che in patria si diceva, Arride agli audaci, la patria non la donava affatto, tranne agli audùci. Finché i soldi così ben guadagnati e risparmiati finirono del tutto. Per fortuna, la fortuna scaturita e improvvisata dal peggio, c’era qualche parente che, come era d’uso dire, si levava di bocca il pane che avere non aveva, così per far mangiare quei parenti che dai campi di cuccagna ora stavano affogando nel mar della miseria. Peraltro la guerra portava via il da mangiare a chiunque non avesse abbastanza sostanze per comprarlo a prezzi pazzi ovvero, alla borsa nera, che borsa non è di preciso e a dire la verità non è decisivo che sia nera, ma insomma anche in quel caso lì si usava dire così è [7]. E sempre per  fortuna c’erano gli alpini. Gli alpini erano soldati, lo dice il nome, di montagne, per diceria comune forti e generosi e vivevano in grandi caserme di città, sempre in attesa di essere spediti a perdere la guerra del duce-luce-buce, che nel Belpaese ormai persino era arrivata.

Intanto infatti succede al bel paese, all’Italia, di essere invaso finalmente da un esercito senza fine di Inglesi e Americani, d’Indiani, di Francesi ed Africani, di Polacchi, Marocchini ed Australiani, insomma c’era un po’ più di mezzo mondo a cercare di sloggiare dall’Italia il signor Mussolini , il duce o buce che dal 1923 con le camicie nere aveva conquistato il bel paese e spinto alla guerra dei Tedeschi che lo difendevano adesso, come si difendono i burattini da sé restando immobili nelle loro abitudini di legno, e difendendolo difendevano se stessi ché s’era ormai capito chi quella guerra, la seconda maiuscola e mondiale, avrebbe vinto. Intanto

Gli alpini da mangiare lo facevano bastare per sé e per la popolazione che, fuor dalle caserme, si allungava in tiepide colonne a mezzogiorno e a sera per il pane e la minestra o la polenta, con un burro strano chiamato margarina [8] un surrogato fatto con chissà che cosa, e un po’ persino di formaggio vero, degli alpini. Non era molto ma qualcosa, non tanta cosa. Un giorno in coda la Gilda cadde a terra, svenne e tutti intorno, benché si usasse dire che ognuno avesse le sue gatte da pelare, tutti, Oh poverina, oh povera bambina, cos’è successo, Ha fame, ecco quel che è successo, disse un vecchio lì nei paraggi, ma sottovoce per non farsi intendere da quei che intorno  con o senza la camicia nera ronzavano a cercare disfattisti [9] da sbattere in galera. Dei giovanotti caricarono la Gilda su un carretto e così mentre il babbo faceva la coda per la minestra, la mamma rosa della Gilda l’accompagnò all’ospedale dove un dottore anziano la visitò e con occhi chiari e seri sentenziò, Ist anämisch dieses Kind, che in lingua italica si dice, È anemica questa ragazzina, e più alle svelte, Ha fame, viene appunto a dire; ma siccome nemmeno all’ospedale c’era tanto da mangiare, il medico decise di fare alla Gilda una puntura, Di ricostituente, un punturone tanto che rapida si ricostituì la Gilda e potette così ricominciare a fare la coda per mangiare. In quella, come s’è capito, di Ùdin i Germani eran padroni e, come s’è capito, del proprio e dell’altrui avevano un ideale assai particolare così che delle campagne e dei paesi, delle montagne, delle piane, dei fiumi e dei paesi e del Friûl intero fino al mare s’erano appropriati e lo chiamavano, Terra-d’adriatica-costiera, annessa dunque al loro stato, al loro enorme Regno, o Reich ma senza re [10]. Tra una puntura e l’altra del vecchio medico germano la Gilda continuava a domandarsi, Comment ça se fait. E come si poteva sopravvivevano la Gilda e le sorelle con il babbo e la mamma loro.

Intanto il biologo e genetista inglese Julian Huxley pubblica il libro Evoluzione: la sintesi moderna; libro che rielabora la teoria di Charles Darwin e la completa con le nuove conoscenze acquisite dalla genetica.

Per certi aspetti erano più gentili i Germani delle camicie nere e per i Franchi, quegli unici Franchi del Friûl avevano occhi chiari, azzurri e grigi di riguardo. Così di tre, tre delle sorelle più grandi della Gilda trovarono lavoro da infermiere all’ospedale occupato dai Germani, medici biondi e di gentile aspetto, e fu la loro vita, delle tre sorelle non dei medici, da quel momento un’avventura, piena di insidie e di trabocchetti, di notti fatte giorno dal balenar diffuso degli scoppi, dal tremito del cielo rombante di motori, di treni zeppi di feriti da portare di qua e di là lontani dai fronti della guerra finché alla fine di un bel giorno, a maggio, Renée e Jeannette videro spuntare dalla porta di uno ‘spedale tra i boschi della Svevia, la figurina allegra di un soldato miricano. La terza no, Lisette sappiamo che sostava con un treno a una stazione piccola tra i monti, andava a cercar acqua pei feriti, passarono degli aerei e poco dopo tutto fu cenere e binari. E fu la fine della loro guerra. Jeannette sposò col Miricano, Renée con un medico germano. Questo fu un fatto di qualche anno appresso ma si sa che quel che dopo tre anni succede nella vita, nel raccontare accade tre minuti prima perché a chi racconta il privilegio è dato di dare al tempo il tempo che gli serve per presentarsi in un tempo dato. Tra le maggiori la più grande ancora, la sorella Feda era invece scappata, si può dire, per sposare giù giù a Florentia un giovane avvocato di non poche speranze e belle e una fortuna già così sfacciata che lui di un soldo riusciva a farne tre, o quattro non di rado. La Gilda invece, Comment ça se fait patata cotta e messa lì, per levarla  alla guerra, almeno un poco ché pian piano tutto quel mondo armato che s’è detto, veniva su pel Belpaese un piede dopo l’altro a levarsi dai piedi Germani e camicie nere, in treno da Ùdin a Florentia la Gilda dal babbo fu spedita a ritrovare la sorella che laggiù s’era sposata. Non bisogna pensare però che il viaggio fosse di piacere, tra spari e lampi nella notte e le fermate all’improvviso in mezzo alle campagne e non si sapeva perché, Comment, comment ça se fait. E inoltre c’era, e tale che molti avrebbero detto pesante come un piombo, una valigia da trascinare ogni volta che occorreva abbandonare un treno per correre su su un altro ché, ora qua ora là lungo la strada ferrata, una stazione qui ed una lì erano magari state bombardate e allora tutti via da quassù a laggiù a pigliare quel treno formato per virtù di ferrovieri indomiti, correva e correva la Gildina con i piedini larghi e svelti pieni di terrore ed il biglietto di terza classe stretto in mano, tra il fumo e il fuoco delle locomotive, gli stronfi e i fischi dei freni e dei pistoni e il mormorio e gli strilli di dialetti, dell’italico ancora più difficili, ed i pidocchi a saltellare lievi da un capo all’altro di tutta una babele di gente che scappava al sud contando che prima o poi, Angli e Miricani e tutto il mondo sarebbero arrivati, a salvarli, e dio solo sa che cosa sarebbe potuto capitare se in tutto quel marasma, lo stesso dio non si sa, ma certo la locomotiva e il macchinista, che in galleria il treno al la bisogna nascondeva, non si fossero compiaciuti di far arrivare la Gilda, da su e da giù per le balze dei colli di Puratta fino alla piana di Florentia e al fiume che una canzone diceva esser d’argento, ma è solo acqua e benvenuta, sotto una luna vivida talvolta. Finalmente.

Furono abbracci e baci tra sorelle, ma mica tanti ché in guerra tutti pensano a salvarsi anche quando son già salvi o sono morti e non lo sanno ancora. La valigia piombigna fu delegata all’avvocato, al cognatino e via ad aspettare dalla città Florentia un altro treno, un treno che arrivava o partiva solo a notte; tutti accampati al freddo i viaggiatori ad aspettare per arrivare su su per la collina, alla Caldìna, tra ulivi e vigne e cipressetti loro. Quella notte arrivarono anche dei Germani, spingendo a calci dei soldati, piccoli italici tranne alcuni, che si querelavano, ma poco, più per paura che per irritazione e ognuno nella sua favella; tutti prigionieri si capiva, le divise stracciate e dei fagotti in spalla, i gradi strappati agli ufficiali, e gridavano i Germani e spintonavano e davano di calcio con i fucili loro a quelli che sembravano più lenti o che esitavano a entrare nei vagoni, di un treno già peraltro pieno. Comment ça se fait, domandava la Gildina alla sorella, e perché quei modi, lei pensava, che finora aveva visto Germani e incamiciati neri in buona compagnia. Fino a quel momento. E il cognato, shh tacere bisognava e andare avanti, che parlare non era bene in mezzo a tanta gente accampata per il treno ché magari qualche spia, qualcuno che sotto sotto indossasse una camicia nera, esserci c’era. Non si sa dove vanno forse a lavorare, il cognato mormorava e non sapeva, nessuno sapeva di che lavoro si trattasse e dove. Solo più tardi, si riseppe, quando tornò qualcuno da quei treni e avrebbe avuto più la pelle alle ossa che muscoli attaccati.

Intanto in un deserto assai lontano, nel Nevada, alcuni scienziati ma non quell’Einstein che sappiamo, mettevano la scienza loro nota al servizio del presidente degli Stati Uniti così che quella bomba nucleare che ai tedeschi di costruire non fu dato, un bel giorno di luglio fu provata nel deserto e poco tempo dopo eccola pronta per piombare su due città del grande impero del Sol Levante che tanta parte aveva avuto nella guerra o non si sarebbe chiamata mondiale. Due esplosioni per una catastrofe annunciata. Ma

Come altrui piacque la guerra finì e benché il perché sia poco chiaro, la Gilda fu spedita in una città su al nord, detta Malanno, ad imparare l’arte del cucito, della camicia e della giacca da un sarto, del cognatino cliente da poco men che un anno. E in poco men che non si dicesse imparò e imparò e imparò la Gilda e, con qualche guadagno, si comperò le scarpe nuove, le francesine rosse che portava con sé da sempre nella fantasia del luogo da dove era venuta al mondo. Ma continuava a non sapere come si parla la lingua del Belpaese dove si trovava in vita, non tanto bello adesso, pieno di buchi e mozziconi, anche di sigarette, ché con la vittoria dei migliori sul buce e sui Germani, con il pane e con il latte da bere erano tornate ad essere fumate. Malanno, la città ricca d’acque di pianura, era affollata di soldati ben puliti e ben stirati e un conte polonese, colonnello anziano, che alloggiava dal sarto e che parlava franco ottimamente, portava la patata cotta e messa lì a ballare, al circolo ufficiali dove la Gilda conobbe un aviatore anglo, dai modi gentili, capelli al vento e occhi scuri e blu come la divisa, conte anche lui, benché sembrasse un principe, che parlava con un accento strano; e dopo un po’ lui le disse, Épouse moi Gilda cherie, je t’emmènerai dans mon château sur l’île des belles lilas [11], e che sarebbe andato a chiedere se la sua di lui di mamma era d’accordo e così fu; e quando tutto sembrò a modino, quando dall’isola lontana arrivarono i documenti per la Gilda che passaporto non aveva da quando una camicia nera glielo aveva sequestrato a Ùdin in mezzo ad una strada e poi strappato sempre gridando, A noi, come d’abitudine, quando avvenne tutto questo la Gilda pensò che non sapeva bene se le sarebbe piaciuto abitare lassù tra le colline in mezzo al mare ad annaffiar lillà ed imparare l’anglo già che di bocca ancora non le riusciva del Belpaese la parlata. E alla domanda per iscritto, Mi vuoi sposare infine, disse di no. Così la Gilda rinunciò a un castello ed a quel principe dai modi azzurrini e restò a cucire dal buon sarto e da sua moglie, la Graziosa, donna gentile di nome e di fatto, che come per una figlia aveva per lei riguardi ed attenzioni.

Poiché restava sempre senza documenti, venne il giorno in cui la Gilda dovette andare in comune a cercare di conquistarne uno, di documento non di comune, dal momento che pare, e il perché si capisca o non si capisca affatto, pare che al mondo non si possa stare senza una carta, un tesserino, un librettuccio che come uno specchio dica, sei proprio tu o così pare, il tale o questa o quello che sorride in fotografia, alto così o così bassa, dai capelli perlopiù castani e dalla carnagione regolare. Così la Gilda, calzate le sue scarpine rosse francesine nelle quali si sentiva a suo agio nonostante i suoi larghi piedi adatti a calcar la terra, non a ballare sulle punte, partì alla volta del comune incontro alla sua carta di identità, ovvero al suo destino. Ma siccome lei parlante nessuno la capiva, era lì ferma davanti a un impiegato che diceva e diceva cose che lei, Comment ça se fait; e a piangere era ormai pronta quando, Permettez moi de vous aider ma demoiselle [12], disse un bel ragazzo che ancora aveva al braccio il distintivo da combattente partigiano [13] e lo era stato, né principe né conte ma capitano, molto gentile e tanto onesto, pare. La storia della Gilda egli si mise ad ascoltare e poi a tradurre all’impiegato e fu così che passa un giorno passa l’altro, la Gilda ottenne la sospirata, identità di carta. Le chiese il partigiano di sposarlo ma questo molto e molto tempo dopo, tanto che la Gilda disse, Ouisì, con convinzione tale da giustificare il fatto che il narratore al mondo sia arrivato a raccontare la favoletta che appena avete letto. E vissero d’incanto, felici sì e no, contenti, di quando in quando.

Divisa tra l’antico ed un moderno un po’ insensato, questa storiella ha fatto uso di un linguaggio estraneo un tanto, e un tanto no; ma sono questi i mezzi di chi si sottomette poco al mondo come è fatto, al suo parlare asmatico e scrivere da zoppi, al non voler sapere che il futuro, il tempo di un sospiro, ed è passato.

Fine

 Lecco, autunno 2016

Note

1] Non è facile da pronunciare pruneaux, con la u stretta stretta all’inizio che solo i lombardi e i piemontesi conoscono e la o finale chiusa come per dire móltó, prünó.
2] Comman-sa-se-fè
3] Per bolscevico si intendeva un tempo un rivoluzionario, pericoloso seguace della rivolta russa del 1917 che aveva prodotto lassù tra le steppe la repubblica socialista sovietica.
4] Un tempo chi amministrava e dirigeva un’azienda agricola si chiamava fattore, fatto che lo distingueva dal proprietario che invece per lo più non faceva nulla tranne guadagnare sul lavoro del fattore e naturalmente dei contadini. Ma il fattore in genere stava meglio dei contadini.
5]  Ciò che si mangia oggi in ristoranti belli e caldi e accoglienti talvolta, la polenta, una volta era cibo per contadini, poveri per definizione, delle campagne italiane.
6] Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali la geologia e la geografia fisica d’Italia, 1876 dell’abate Antonio Stoppani di Lecco (1824), fu così popolare da d formaggio nel 1906 da dare il nome a un formaggio altrattatno popolare.
7]  In tempi di penuria, di guerra e di fame c’è che ammassa cibo e sapone, salami e farina per poi rivenderli a caro prezzo, sottobanco, alla borsa nera, a chi può quel prezzo pagare. E i prezzi salgono di solito, salgono, fino a diventare così alti che solo pochi ricchissimi possono permettersi di comprare due uova, un po’ d’olio, un po’ di burro. In quei casi le autorità, la polizia, l’esercito, tendono a punire chi della borsa fa il suo nero, ma poi si sa che sono proprio le autorità, di solito, ad avere il meglio e la meglio su chi autorità non ha.
8] La più economica e industriale margarina quando c’era, aveva preso a sostituire il burro che non c’era o se c’era era difficile da conservare, il frigorifero non esisteva ancora e il ghiaccio per le ghiacciaie, per chi le avesse avute, scarseggiava.
9]  Disfattista era inteso chiunque non fosse convinto, a dispetto di tutto, che la guerra del ducelucebuce era perduta e così le illusioni di molti, tra gli italiani, che a lui e ai bastoni delle camicie nere avevano creduto e ceduto.
10]  La Germania si chiamava infatti Reich ma al posto di un re qualunque nel 1933 si era installato, abbiamo visto, un uomo dal nome piuttosto noto di Adolfo Hitler. Ironia della storia reich vuol dire ricco.
11] Sposami mia Gilda cara e ti porterò nel mio castello sull’isola dei bei lillà.
12] Permettetemi di aiutarvi mia piccola signora.
13]  Partigiano si intendeva un soldato delle brigate volontarie che combatterono al Nord e al Sud contro i tedeschi e per liquidare, con inglesi e americani, il regime fascista.

About dascola

P.E.G. D’Ascola ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: "Le rovine di Violetta", "Idillio d’amore tra pastori", riscrittura di "Beggar’s opera"di John Gay, "Auto sacramental" e "Il Circo delle fanciulle". Sue due raccolte di racconti, "Bambino Arturo e il suo vofabulario immaginario"" e "I 25 racconti della signorina Conti", i romanzi "Cecchelin e Cyrano" e "Assedio ed Esilio", tradotto questo anche in spagnolo da "Orizzonte atlantico". Nella rivista "Gli amanti dei libri" occupa da molti anni lo spazio quindicinale di racconti essenziali, "L’ElzeMìro".
This entry was posted in Al-Taqwīm and tagged , , , , , , , , , , , , , . Bookmark the permalink.

8 Responses to Il viaggio della Gilda

  1. diegod56 says:

    strepitoso, esuberante, i luoghi, i fatti, spuntano rapidi e beffardi come certi libretti pop-up, stereogrammi; ho letto con grande piacere, mi piace anche molto l’uso dei corsivi per il contesto storico, pennellate rapide, figurine che scattano come in un film d’epoca (graffi compresi); non è una piccola storia, è una grande storia

    Like

    • dascola says:

      “Stereogrammi… figurine che scattano come in un film d’epoca (graffi compresi).”
      Apprezzo molto queste tue note, le impressioni e massime il fatto che hai colto i corsivi… graffi compresi, in tutti i sensi.
      Ti sono molto grato cara el mè Diegus. Molto.
      Abbracci P.

      Like

      • diegod56 says:

        a proposito dei corsivi, vecchio mio; tanti tanti anni fa, durante i miei anni a pisa (molto poco preso dall’università ma molto dalle universitarie) scrivevo un quaderno di pensieri tipicamente giovanili e da dimenticare (difatti dimenticai il quaderno e non lo trovai più, il giusto oblìo); ebbene la pagina era divisa in due, sopra i pensieri più o meno razionali, sotto, in corsivo le stranezze inconsce sottostanti; una grande stronzata, ma l’idea del corsivo a controcanto mi rimase come l’unica idea buona; del resto poi diventai tipografo, così da vivere fra corsivi, neretti, e altre caratteristiche «superficiali» delle parole scritte; un caro saluto, ora mi riimmergo nei patimenti dell’impresa artigianale

        Like

      • dascola says:

        Caro Diego, benvenuta questa osservazione in più ma attenzione, l’aspetto grafico sarà superficiale per i villani e i fessi. Per non dire della Mondadori che stampa senza margini,senza interlinea così da renedere la lettura un azzeccagarbuglio. La scelta del carattere, come lo chiamiamo noi ancora in luogo di font, vivano Times New Roman e Bodoni, esplicita il carattere di una lettura insieme con margini ben costruiti, e un interlinea che guidi alla lettura, insieme con una ben giustificata distribuzione del testo. Per quel che mi riguarda inoltre le scelte grafiche sono motivo di spesso lunghe dissertazioni tra me e me. A mio giudizio lo scritto deve avvicinarsi il più possibile alla scorrevolezza del detto, sicché mi disturbano tutti i segni che la interrompono, comprese le maiuscole che tendo a eliminare, o che ridondano, con l’eccezione delle virgole, dei punti con e senza virgola. Quindi gli esclamativi, specie se ripetuti, li lascio ai fessociali, così come le virgolette. Avrai notato che il discorso diretto prosegue da una virgula con una maiuscola d’incipit e il corsivetto a seguire. Saramago, da cui ho preso questa soluzione, non usa il corsivetto, ma a me pare meglio risolta la questione di segnalare così un cambio di registro. Del resto una pagina di Manzoni stesso o di Proust è un esempio di pulizia. Il periodo ininterrotto è una garanzia. Paragrafare inoltre rende ancora più fluida la lettura. Sono pause e respiri, attese che danno il tempo di riflettere e far prendere fiato al lettore come al nuotatore la boa. Quindi la grafica non è superficie ma profondità. Un caro saluto e grazie per avermi inzigato a tante dichiarazioni.

        Like

  2. prapaomag@libero.it says:

    E’ evidente che la poesia viaggia anche fuor di rima. Grazie, Pasqual. Paolo

    Like

    • dascola says:

      Oh Paolo, non riesco a dirti grazie senza arrossire e ad arrossire senza averti detto prima e almeno, grazie a te. P.

      Like

  3. Leonardo Taschera says:

    Caro Pasquale,
    è sempre un piacere rileggerti, e sono felice di quest’altro riconoscimento.
    Leo

    Like

    • dascola says:

      Caro Lero, allora vuol dire che reggo sulle lunghe distanze, come un alpino. E sarò felice di dare ancora questo tipo di notizie agli amici. P

      Like

Leave a Reply

Fill in your details below or click an icon to log in:

WordPress.com Logo

You are commenting using your WordPress.com account. Log Out /  Change )

Facebook photo

You are commenting using your Facebook account. Log Out /  Change )

Connecting to %s