Que pense de nous la coccinelle ?… Voilà qui est intéressant ! L.F. Céline – Les beaux draps
San Giovanni presso Bellagio, festa di ∼ , 23 giugno 2018, il giorno prima, sera. È un luogo fatato San Giovanni; molto vuol dire il lago, il bosco e i campi e l’insìdiaménto umano discreto, i rifacimenti; funziona la pavimentazione a nuovo, gli usci massicci a custodire qualche fatica, i cristalli modernisti dei b&b, l’accostamento discreto dei colori, tutti i trucchi di bellezza degli architetti, le furberie dei capomastri, vallo a sapere, insomma la messa in bella di un tema antico, il pittoresco. E poi la chiesona ex-romanica, vista lago, darsena, wundeschön, pavimento a spiovero, tutta di crema e nocciola rococò, senza prepotenze devastatrici, proporzioni pesate, un paio di modestissime ingenuità, belle pitture del ‘400, Giotto copiato da un bambino non bravissimo, datosi che il rinascimento arrivò quassù un secolo dopo e così così; impeccabili e stravisti i lavori di intarsio policromo degli altari, il centrale sormontato da un’aguzzeria d’oro, gotico merlettato, gugliata d’angeli e santi. A destra dell’altare in stile le-rovine-dell’Eur, santa Scalpellata, un toc da marmo bianco sottratto alla tomba di una delle demoiselles d’Avignon, star sicuri su commissione di un qualche parroco; ma ci sono anche dei delinquenti non comuni che le regalano certe cose, a far moderno, ovvero la pastorizzazione, pastoralizzazione, seminarizzazione, contabilizzazione dello stile, della musica, della poesia, del canto, bref dell’arte in arte sacra; mica s’è capito che l’arte è tutta sacra, per Zeus, anzi s’è capito benissimo per questo farla fuori, diluvi di orrori, maledizioni, calamità metalliche, giudizi universali a rate. Dopo mille e tanti anni di meraviglie d’arte, di Scrovegni, Colleoni, Medici, Bacon, to’ cristianucci state puniti, pubblicità promessa, chiese otto volante, bretelle di calcestruzzo; solo i romani osarono e riuscirono ad usarlo, leggi Pantheon – Roma I sec. a.c.- d.c. Allora per ricompensare la vista, dell’altare a sinistra la parrocchieria ha lasciato una Santa Volatrice, io dico che si chiama Teresa a giudicare dal panneggio in estasi, ma all’in piedi e a mani in gloria. Amen. C’è un concerto alle nove in chiesa, Keman Quartet, violini due, viola, cello; bene è un’idea dare asilo per poco alla musica in luogo dei santi jingles, ooooaaaaeeeeeiiiii da messa in piega, capita di ascoltarli ai funerali, ai funerali altrui come al proprio spesso non ci si può sottrarre; ventuno di sera, e che sera a guardar fuori i voli di rondini che da soli sono belli indiscutibili, tanto entusiasmo e giravolte solo per papparsi degli insettini e dirsi qualcosa che cosa, superata la consolidata tradizione di mozartìti requiematóse, elevazione spirituale per la festa di San Giovanni recita un pieghevole, il decoroso quartetto d’archi serba per ultimo, non a caso mi pare, una delle meraviglie del secolo scorso, secondo me ci sono delle cose che se ne sono fregate di far storia e sono lì magnifiche implacabili, il valzer n°2 in do minore di Dimitri Shostakovich; suono comme il faut, calante, crescente, stonante decadente m’importa assai, vedo dell’anima danzare sulle corde, farsi arco e freccia e tanto mi basta; ambiente estraneo; la partitura, il suo girotondo di bemolli, bìm-bum-bum bìm bum bum, è la musica sans arrière-pensées. Quando meno te l’aspetti eccola qui. Non di necessità in quelli che Rubinstein chiamava con onomatopea irripetibile i brldrubrlbrblù dei virtuosi; sommare mele e mettere atomi in colonna sono di preciso la stessa cosa, niente magia, mica trascendenza di questo su quello, non si domanda intelligenza in più ( Céline – Les beaux draps –Omniaveritas – pg. 127), ci torno prima o poi. Insomma i quattro suonano e bissano lo stesso brano, vous m’en direz de belles ad ascoltarlo, poi se volete sciacquarvi le orecchiette d’in cima alle rape, trovate dint’o Tubbo la versione più consona alle vostre necessità di sublimato*. Bellezza del valzer, la ronde, il gira e rigira senza e con biondine/i, prima durante dopo, fine, angoscia, strazio, pochezza, grandezza, coraggio, cantori, belli o brutti così fan tutti giò nella caldéra, gira e rigira, un’impennata centrale di zuccheri filati, caramelloni bicolori, torroni, roba da giostra fatata nel paese Youkalì1, accompagnamento all’esistenza dispiegata, che ricomincia se non la si tronca lì, stop. Il così com’è. Vabbè fine, ed ecco che dopo tanta meraviglia, arriva il sagrestano della ragion ciclica, l’aedo dell’altro mondo, alias il parroco, niente tonaca; confondersi con quello che si è, ragionatti, è d’uso ab uso. Sente l’imprescindibile desiderio l’omm, grando, un batocio, di dar fastidio alla musica con una giaculatoria sull’elevarsi dove come boh, sulle punte, in cima alle scale, conclusa con un Ambarabà Maria, gratia plena; in latino peraltro suonerebbe, in italiano brobrobrò da un altoparlante delle ferrovie o hmmm piave mormorò, uguale. Caratteristica delle religioni rivelate è rivelarsi tachifèmiche, polìlale, chiacchierone a non più finire, tutto pur di non lasciare al silenzio il suo ruolo di unica davvero possibile tra le forme di conversazione. Alla fine tutti giù a crucifiggersi i presenti. Shhhhilenzio noi pagani, per buona educazione, ma verrebbe voglia di dirgli al Don Dondolòn, Scusi tanto ma la musica mica ha bisogno di elevarsi o di elevare, è di questo mondo mica come la religione riELEvata che è altro dal mondo. Menos mal che ci benedice der Priester, tutti, nella massa non deve aver notato i tre o quattro senza croce uncinetto. Uno voce dice, Grazie. Oh là là là vedere la differenza con quel che resta del paganesimo oggi, Giappone intendo, la cui religione è anima, rituale del mondo così com’è, lacrime, sorrisi, un bagno caldo. Silenzio. Vedere per credere un filmetto, molto lagrimoso dies illo, Okuribito – Departures di Yojiro Takita; l’Accompagnamento, potrebbe essere in italiano. Un tal Tobayashi, cellista senza gloria, alla fine di una esecuzione della Nona, dell’orchestra in cui ha appena suonato, prende atto del morire per mancanza di fondi. È il lutto del lutto, nel film, mica solo. Il primo lutto da elaborare. Sicché il Tobayashi prende atto della sua morte di musico, vende o rende il cello da 140.000 euro, torna da Tokio al paesello, riapre la casetta della mamma morta, e aderisce a una fatale offerta di lavoro, il preparatore di morti. Tanato-esteti, li abbiamo anche qui nel mondo marchionne, ma si vedono poco e l’accudimento del morto, affare di donne un tempo, oggi è ben architettato da professionisti, veri trainer di cadaveri. Nel Giappone del film, lontano, paesano, è invece tutto un rito familiare e amicale; ma d’arte, da vedere, cerimonia del tè con il morto; l’atto della pulizia, trucco e vestizione del defunto, per accompagnarlo, Al cancello, dice il vecchio tecnico del crematorio. Oh il valzer di begli inchini, di mani giunte, di stoffe preziose, accantonate nei canterani per quell’ultima bisogna; di, Posso accendere gli incensi, di, Vi sono molto grato, di, Chiedo umilmente scusa; di lacrime, di zaffi per le guance e per l’ano, por si a caso, di gesti anima. Niente metafore, che si sa, stanno lì dove non si sa, metà di qui, metà di là. Le sciocche. A poco a poco Tobayashi prende dimestichezza con quel lavoro. Impara a maneggiar con grazia i morti e a mangiare nonostante la morte, guidato da Sasaki, un maestro truccatore, di rara carontica intelligenza, che parla poco, meno. Il maestro prepara chiunque, dice, Budddisti, cristiani, mussulmani a tutti bisogna togliere la fatica della vita dal volto; la morte è il rito del dopo e va per il suo senso, senza dopo. Personaggio chiave un vecchino che nel film gioca da solo, a dama o a qualche gioco d’oriente chissà quale, dice di sé, Io sono colui che dà fuoco alle cose, Prometeo sul fare della pensione, pigia il bottone che accende il forno crematorio. Vroum.
Finisco di scrivere e, voilà l’aria sorpresa e astuta, un bel merlo grasso entra in cucina dal terrazzo, saltellando; sa benissimo che sono lì, mi guarda; non fosse che mi ha appena scagazzato sul pavimento e che se lo lascio fare mi fa fuori la terra delle piante in cerca di vermi o chissà che altro, ti conosco mascherina, solo la vista del suo occhietto vispo e indaffarato in visita parenti mi fa piacere. Ah, men.
* https://youtu.be/2cImtT-ManA
1 K. Weill – Youkali (1936) – https://www.youtube.com/watch?v=sUEf6goy0G8
Caro Pasquale, questo tuo testo è proprio un sincopato che disvela. Celiniano e dascoliano.
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Si tratta di evitare, caro Alberto, di evitare il giornalismo, lo gne gne, la spiega, la piega, la solfa, l’ingolfo; a chi può interessare che io o chicchessia siamo andati a un concerto, a nadie; forse ad aggredirli con lo stile si destano; anche ad avere ragione, suggerisci non dimostrare. C’è chi lo farà meglio di te. Il mio maestro Rissone ci diceva, TIgri, siate tigri, attaccate il pubblico o si addormenta. Del resto tu hai ascoltato il Circo delle fanciulle, lo scrissi quando ancora mi ponevo un po’ la questione delle comprensione ma poi… devo dire che Cristina Rosa l’ha tagliato con tali fendenti da renderne ancora più violente le sincopi e le ellissi, i salti, le funambolerie. Intuito. Poi mi chiedeva, Scrivi una battuta di passaggio qui, aggiungi due parole. Un divertimento. Non dico sia bello il metodo ma un metodo occorre assumere, uno stile, per ogni cosa che si scrive, differente ma eguale; non puoi fare a meno di essere eguale a te stesso, ma la differenza, ah la differenza; o è espressione, ma quella la lasciamo ai dilettanti, agli stolti, agli schizofrenici. Ti pare? Céliniano dascoliano per me è un gran onore; per fortuna Cèline è morto o me ne vorrebbe.
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