Julian Schnabel – Maria Callas – 1982
Io non volevo essere come tutti gli altri. L’arte era la mia religione. J. Schnabel. Van Gogh. Questa è l’opera di uno che fa dire a Van Gogh, Io sono i miei quadri. Cose che capisce un artista. Occorrerebbe aggiungere che è Schnabel a identi-ficcarsi nell’immagine, a riflettersi nell’arte, facendola; ogni opera d’arte, è perciò stesso critica dell’opera stessa. Prendere o lasciare. Questo Van Gogh è stato premiato a Venezia l’anno passato, ma esistesse ancora sarebbe stato un premio al Salon di Parigi, tanto che v’è da domandarsi se la giuria del Lido si sia resa conto di aver riconosciuto sì l’opera d’arte ma di quale, hmm, non cinematografica, voilà, ma pittorica o per meglio dire, plastica o per meglio dire non saprei come dire. Van Gogh mi ha subito ricordato gli affreschi di Piero della Francesca nel Duomo di Arezzo, la Leggenda della vera Croce, titolo tra i più adatti a identificare il lavoro, proprio perché affresco, proprio perché leggenda, e vera croce. C’è qualcosa dei polittici peraltro, Jan Van Eyck, il Mistico agnello, non so essere preciso, l’opera di Schnabel è tanto complessa e tutto sommato difficile da esserne compresi che a inscatolarla nell’angustia di una definizione non che le si faccia torto ma nemmeno ragione. Si capisce che lavoro, che stile adotta, lo stile è quel di Van Gogh, sprofondare nel dettaglio guardare al microscopio e subito insieme al macroscopio; l’eternità, ricordata con insistenza nel film, è bipolare, marcia all’infinito ma andata e ritorno, divisiona e riassume l’inquadratura in una nebbia da cui poi emerge il quadro. Questo si vede, a voler guardare con occhio di pittore; Schnabel arriva ad usare l’infrarosso per cogliere la monocromia del tratto. Questo si vede e non la vitarella di Van Gogh -oh stupidaggine- che fu solo l’esistenza di uno massacrato dal fato, e afflitto da un intelligenza troppo acuta e assoluta, si pensi a Céline, ad Artaud, – l’absolu n’a besoin de rien, ni de dieu, ni d’ ange, ni d’homme, ni d’esprit, ni de principe, ni de matière, ni de continuité (Héliogabale- Gallimard) – per non ferirsi da sé. Pochi alcuni riescono a trovare sul bilico l’equilibrio. Del resto si sa, Federico Nietzsche ebbe una vita dolorosa e difficile, cui solo la creazione di pensiero, la sua arte, dava il sostegno, la forza, e il sollievo necessario ogni tanto per viverla. Quando si è così l’unica è tacitare il brouhahah del mondo con il successo, al successo il filisteismo concede tutto. Vedi Picasso. Se il successo si nega, come Van Gogh ti arrampicherai fino alla fine su per i pendii di un infinito carso – lo si vede in uno dei tableaux del film; tutto in salita e che culmina, ma dopo i titoli di coda, con una citazione di Gauguin Je suis Saint Esprit. Je suis sain d’ esprit. Per raccontare il dipingere, la pittura di Van Gogh, Schnabel ha in-tinto in somma alla propria pittura, io lo amo, poi si può non essere d’accordo. Non racconta mostra. Le madamine del questo-significa-questo anche aggrappandosi a vetri non insaponati, finiran per pucciare braghe e quantaltro nello stagno della loro scolastica. La pittura ha un mistero, ad ascoltare un artista come Schnabel, attraverso le visioni di Van Gogh, molto simile a quello della musica che non dice niente di più di quel che fa sentire ma che di solito comincia quando finisce, cose che capisce facilmente un artista; nuda è l’arte, ha solo una necessità, essere tale, illustra, folgora, scotta. Per questo irrita, piace infatti la presa in giro, l’abbassare il mondo al proprio naso, o il pubblico non tollererebbe la pubblicità e i telegiornali e le esternazioni di un grillo canterino; per questo a scuola, il massimo ente di negazione di ogni educazione estetica, l’opera d’arte viene deturpata dal dite-con-parole-vostre, o scaricata nel bidone dell’indifferenziata o sezionata da bavosi esegeti che esigono di ricondurla, lo si capisce bene con Schnabel, al gesto borghese – patologia psichica – di disporre i bibelots di famiglia sulla credenza, di addomesticare il segno, che è invece, adopero Nietzsche, freccia ed arco insieme, Zarathustra nell’azzurro. Schnabel riesce a dipingere un azzurro così azzurro, così Van Gogh che la freccia che lo attraversa non è difficile da cogliere, a permettersi di vedere, a permettersi di ascoltare. Dopo, a proiezione ultimata occorre continuarselo, il film, tessuto com’è anche da partitura per coro, con i suoi stàsimi su nero, da capo, parti sovrapposte. Peccato che al cinema la ragione del pop e del corn prevalga sull’integrità del lavoro che viene spezzato in due monconi. Va ben così, nell’intervallo basta stare zitti e non dare ascolto agli inutili neurini del giudizio intorno a sé. Le minimum qu’on puisse faire al cospetto di Piero -della Francesca- è tacere. In tutta questa densità l’attore William Defoe, io dico per grazia ricevuta, appare e scompare da sommergibile, su e giù, diventato zolla, polvere, acqua, macchia, figura e sfondo, pasta di colore, occhio, di sè e dell’ottica che lo scruta e perlustra, attende al discorso del viso. Van Gogh certo ma di più. Sono quei miracoli che si fanno aspettare e poi, avvenuti, si liquidano dicendo, Ma va’ che bravo. Il punto non è questo, Defoe non è stato bravo, non è psico né pisciologia, è avvento. Per dirla con Carmelo Bene, È apparso alla Madonna. Perché, chiedono spesso a Van Gogh nei momenti dialettici del film, Non lo so, risponde. Senza titolo
Juilan Schnabel – Senza titolo – 2004
Una analisi empatica e sontuosa, Pasquale, meritata da questo film che un giornalista ‘di sinistra’ ha definito “reazionario”. Uno splendido riconoscimento del valore del film e della bètise del giornalista.
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Mais tu sais celui-là c’est un con et de gauche, deux termes non seulement parfois jumelés. Grazie per empatica e sontuosa. L’opera mi ha colpito e non solo al cuore. E sono andato perchè ti avevo letto e in quel caso non mi è bastata la tua osservazione. Abbracci fraterni Psq.
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