In una delle sue note (La solitudine del satiro-Visita a Spoleto, Adelphi pag 171) Ennio Flaiano osserva con esattezza che a Spoleto finisce definitivamente il Sud e non comincia il Nord ma il tredicesimo secolo. E il XIV e il XV. Con qualche forzatura voluta credo che lì cominci e finisca l’Italia.
Siamo reduci da un viaggio in questa Italia, l’Umbria, le Marche, la Toscana. L’Italia, espressività geografica che confina a sud con il regno delle diverse mafie e con l’enclave pontificia e borgatara – Orte è uno sfacelo di carrozzerie, muri pericolanti, avvisi provvisori, segnaletica dubitosa e vecchia, un museo abbandonato dalla sua stessa esposizione, il Lazio; a est, di là dall’autostrada e dal Tevere, l’Umbria, Narni, una gioielleria a cielo aperto (e un’ottima gelateria) –; e a nord con la repubblica sociale legaiola e talebana (una la trina) dove l’italiano è lingua svenduta ai guerriglieri del tondino, del carburatore e del capannone. Solo passando la linea gotica, gli Appennini tra Carrara e Pesaro, si torna a sentire parlare italiano e ci si accorge di poter usare con il taxista e il pizzicagnolo i termini corrusco, rammaricato, sciapo, sciocco, scempio, Italia; ti senti di colpo in un grand tour tra Etruschi e chi ancora, Umbri, Piceni, Volsci. Il turista è delicato e sta attento a non alzare le voce.
Guardi le innumerevoli madonne con e senza bambini, assunte o no in cielo, anzi già traslocate, e vi riconosci i volti delle donne dai tratti gentili dietro ai banchi delle botteghe o alle casse dei musei: efebiche, sensuali, matrone, as you like; nasi Montefeltro, teste Duccio da Boninsegna o di misteriosi quanto spenti Licinia o Volinius cui il tempo o un Goto, hanno rotto orecchie e naso… ma che ancora ti guardano, recitando tutti in barba al tempo, Ricorditi di me, che son la Pia, Siena mi fé, disfecemi...
Da dovunque tu parta da qui, i treni per Bologna, Torino, Milano sono treni funebri per lavoratori Todt delle esequie.
Eppure in questa regione che è un tempio del bello infinito, dove i Rinascimento si respira anche e forse soprattutto nelle persone, è la natura di foreste e colli e infiniti e campi e olivete olivete olivete e vigne vigne vigne a sembrare scolpita, o dipinta per giustificare a Cocteau il detto, il turista cadde colpito dal pittoresco; e le cittadi e i borghi al contrario paiono incisioni del vento e del sole e dell’acqua e della neve, come la lastra di rame viene incisa per la stampa. In questo angolo di mondo i quadri abitano non sono esposti: Lotto, Perugino, il divino Piero della Francesca, Raffaello qui stanno in casa, in casa loro, non in musei come un Louvre o una qualsiasi National Gallery, dove li trovi parcheggiati come auto al Watergate… Urbino è una giovane aristocratica che guarda e passa, a piedi. Certo in tutto questo tripudio ideale c’erano violenze, massacri, guerre, invasioni, ma c’erano anche Michelangelo, Leonardo, il Rinascimento, recita appunto Orson Welles ne Il terzo uomo.
Eppure, un ingegnere non stupido, chiacchierando lamenta che a Gubbio non c’è lavoro. Ovvero non c’è la moderna manifestazione della schiavitù che è il lavoro, l’Arbeit che macht frei, che rende libero il giovane di sottoporsi alla libidine di guadagno altrui. Il giovane è addestrato a percepirsi libero là dove è un cementificio a impiegarlo in un fare e con macchine di cui non è padrone – lo diceva Marx, senza sbagliare mi pare – ma dove può continuare a sognare di arricchirsi non si sa in che modo, o almeno arrivare alla pensione per coltivare l’orto della casetta, vista autostrada magari, acquistata con mutuo quarantennale. Ma te tu mangi cemento e carburatori o pane e pomodori, è la domanda che te tu hai a farti. Così l’ingegnere in quel paesaggio del mondo vorrebbe ora vedere crescere torri per lo stivaggio del metano. Stivaggio del metano.
Naturalmente tutto questo ha la forza dell’illusione che la seduzione perduta innesca. Del rammarico.