Boris Godunov – Scala 7 Dicembre ’22

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Te lo dico col cuore: sono molto contento. Ieri sera e nonostante la consueta diffidenza per i cindarassbùm scaligeri, come ogni anno da qualche anno però, ho voluto assistere questa volta all’inaugurazione, da casa ovviamente, soprattuto per Musorgskij, autore che conosco quel poco e per la curiosità verso il Boris Godunov che non conoscevo affatto. Folgorazione doppia: dall’opera stessa – opera poi, ah vedremo – incontenibilmente geniale; e dallo spettacolo di cui il meno che si possa dire, ricorrendo a una terminologia riduttiva teatrale, è che è azzeccato, funziona. Poi se ne può dire di tutto, persino, vedremo, che ha qualche debolezza. Ma in generale quello che mi piace sottolineare è che ieri sera ho rivisto la Scala degli anni miei, di Grassi e Abbado, quando l’inaugurazione era una grande inaugurazione, con cast da paura, direzioni musicali di Abbado da pelle d’oca e tutto il senso del teatro, vero teatro: niente treni, allusioni ad anna magnani e lambrette e zeffirelle di torino con barba. Ci si intenda, l’opera lirica rimane quell’ibrido che è ma è inutile storcere il naso, la sua comparsa sulla terra va intesa a tutt’oggi come una meraviglia. Lo dice uno che non l’ha mai amata per principio ma per per la fine.

Premetto che non sono in grado di farne, ed è inutile peraltro perché di analisi della partitura ne esistono a schiovero e, anche ne fossi capace, perché mai farne un’altra. Dal punto di vista teatrale, quello che interessa qui, voglio farti notare qualcosa di non poco conto. L’assoluta genialità della struttura del Boris sta nel fatto che non è un’opera lirica. Circa 50 anni prima di Brecht, Musorgskij scrive una dramma musicale radicalmente nuovo (1869), cosa che a Wagner non riuscì preso com’era dalla sua ideologia da cigno. Boris sta all’Opera da tre soldi non ad altro. Certo è più impressionante ed anche meglio scritto ma quello che conta, a mio modo di vedere, è che è un dramma epico: l’azione è quasi di continuo narrata, epica appunto; è l’Iliade o se vuoi del tutto simile a Macbeth o ad altri drammi di Shakespeare in cui duelli, battaglie, le cose vengono raccontati: poi ci sono le canzoni e i cori. Detto questo hai detto tutto. Sulla funzione del coro, che è anonimo, popolo appunto o polis, non starò qui a ciabare. In Boris il coro non è il coro della Traviata. Tutto ciò avrà/ha quasi con certezza a che fare con una tradizione da cunto de li cunti , da conteurs se mai ce ne sono stati in Russia ma credo proprio di sì, che è con tutta probabilità incistato in quella tradizione e che a Musorgskij stava a cuore, contro la tradizione lirica europea: arie, cabalette duetti e piripì. Vabbè, nota bene dunque: epica. Su questa pietra si appoggia una dramma di squisita natura politica, veemente, tragicamente pessimista se vuoi, rivelatore di un pensiero che ieri sera mi è parso ben esplicitato ( ma senza, treni, carri armati e mitragliatrici) dalla direzione attenta di questo signor Holten e dal suo sodale Es Devlin: la Russia non cambierà mai finché non la smette di aspettarsi piccoli padri e messia. Finché non si riscatta dalla superstizione e dalla convinzione dei santi e di una sua immaginata grandeur. Dal suo misticismo primitivo. Dalla sua debolezza di mente. La relazione con l’oggi è automatica e ci sta proprio.

Trattandosi dunque di epica il sontuoso impianto scenotecnico, più che ottimamente secondato dai macchinisti della Scala, chapeau, è basato, avrai visto, su una sorta di struttura cavernicola fissa ad emiciclo, ostruente e obbligante come una scena greca. E da una serie di sipari che in realtà non sono tali; si tratta di illustrazioni da libro, vuoi per l’infanzia vuoi di cronache popolari. Queste illustrazioni di incredibile fattura e bellezza, alte come una casa hanno il duplice ruolo di didascalie e di conduzione dello spettatore dentro una sorta di matrioska di immagini che alludono, spiegano, portano nel mezzo di ambienti e situazioni suggerite, alluse, guarda, teatrali tout court. Per insistere sono i cartelli brechtiani elevati alla enne. Qualche imbecille, traviato dai vezzi delle fiammiferaie e dalle maîtresses della regia italo-europea di oggi, ha osservato, il povero facocero, che la regia era statica. Certo: un’opera parlata si parla mica si shake come una spear, a muzzo. Cosa vuoi agire un lavoro basato sulla solennità della parola, russa magnifica proprio perché non si capisce niente ( evviva i sottotitoli tuttavia) declamata, detta, cantata sì a suo modo e che tuttavia, te lo dico in serio, mi ha fatto piangere. Parola usata dentro l’orchestrazione non per volarne fuori nell’aria sentimentale ( sentimentalismo assente, sentimento tanto) ma per avvinghiarsi all’organico strumentale in un continuo avvicendarsi di soluzioni musicali che si discostano, ripeto, e dai numeri chiusi e da quelli aperti: Boris, a volere, dovrebbe essere eseguito dritto senza intervallo, non fosse che almeno per Boris il secondo atto è una fatica di presenza continua (per quanto? 75 minuti dicono). Di fatto lo spettacolo fila via liscio che nemmeno ti accorgi.

In sintesi, benissimo invece questa regìa accorta e attenta alla struttura e alla direzione musicale anche proprio nel senso dello stare attenti a Chailly e ad ogni richiamo dell’orchestra. Attenta a stare nei binari del rigore estetico. Qualche pecca minore. Se nel primo atto lo spazio scenico vuoto era del coro senza altre distrazioni, a parte la formidabile meraviglia del corteo di intronazione, con una porta che si spalanca per magia scenotecnica da uno dei sipari e si apre, (dirai su un corteo di lambrette? no no), una coorte di preti e e spose e labari d’oro e tutto un repertorio iconico semplice: un corteo, a piedi e stop; nel secondo atto l’intuizione corretta di fissare lo spazio in un interno un po’a Mosca a Mosca, un po’ biedermeier, allusivo dell’epoca di Musorgskij e quindi teso a levare la storia dalla storiografia per renderla l’eterna storia deteriore della Russia, casca un po’ nel genere attrezzeria Rancati ( vedi →). I tavolini e le abat-jours, il mappamondo, il lettone sì, vabbè ma non sono icone, non sono segni, sono arredamento. Pier Luigi Pizzi avrebbe messo un divano, ah certo, ma lungo 8 o 9 metri e con un tavolo, a volerlo, di eguale sproposito davanti. L’allusione alle dismisure del Cremlino di oggi avrebbe giovato. Il ricreare un ambientino da boudoir di Boris non è stato geniale come il vuoto da cappella del primo atto. Bello invece l’arrivo dei boiari, attaccati alla poltrona e bello in generale far notare con piccoli movimenti quale sezione di coro canta: tenori I, baritoni, bassi, II e idem soprani, mezzi e contralti. Un’esigenza di chiarezza che imparai fin dai primi giorni di Scala. Si vede che il signor Holten ha studiato. Bellissime le luci( nonostante la convivenza con quelle invadenti della televisione: che altro dire) Per me sorprendenti, dato che non sono più aggiornato in tecnologie di teatro, gli effetti di luce che colano come acquerello sui sipari, colando alla lettera ora in questo ora in quel punto voluto: non ti saprei dire che diavoleria hanno usato ma super-efficace ( perché poi sono convinto che sia semplice, all’antica). Ho apprezzato persino l’uso del seguipersona, quelle che tu chiamerai magari follower e che fa figo ma è la stessa macchina dei tempi del varietà. Ci sta.

Un cenno ai costumi di Ida Marie Ellekilde va fatto: ecco, non sono eccezionali e trovo che in generale, tranne quello delle guardie nere con la corazza ma anche i fucili, (ci stanno non disturbano, rendono l’idea dell’eterna polizia), non sapevano da che parte andare. Mescola mescola elementi del ‘600 russo alle consuete marsine ottocentesche il risultato è che i costumi erano un po’ da grande magazzino danese, schiavi di un design minimalista o puramente senza fantasia. Un panciotto marrone sotto un abito marrone fa Ermenegildo Zegna non Boris. Del resto la costumaia si presenta alla ribalta per gli applausi con un feltro crème da homassa ignorando che non è estate a Principina a mare e che in palcoscenico non si indossano cappelli. È pura ignoranza della buona educazione; sicuro che la signora si si sentiva quello che è forse: una turista danese. Intendi bene questa blanda osservazione leva poco a un spettacolo sontuoso e ripeto, azzeccato. I costumi alla fine non si notavano e va bene così.

Un cenno ai protagonisti va fatto. ( Il coro si sa è storicamente eccellente alla Scala). Ebbene di rado si sente cantare, fraseggiare, modulare, utilizzare il proprio strumento espressivo, la voce, con la maestria che tutto il cast, anche le parti minori hanno portato in scena. Poi tu puoi leggere i punta spilli della stampa. Eccezioni di spicco, diciamo un rigo sopra gli altri senza mai andare fuori dalle righe, il signor Boris e il signor falso Dimitri (qui di seguito tutti i nomi), entrambi peraltro di bell’aspetto. L’attitudine in scena, del tutto libera di darsi spazio e attribuirsi con vasta autonomia il gesto, ha contribuito a una visione senza peccati di psicologismo – assente nell’opera proprio ripeto per essere epica – o eccessi grand guignol. Una cosa non mi è piaciuta: la coltellata finale Boris che non c’entra. A mia moglie invece il transito ripetuto dello zarevich insanguinato dal principio alla fine dello spettacolo. Non dava troppo fastidio a mio avviso e la comparsina che ne sosteneva il ruolo era educata ad arte a non strafare. Ma vabbè. In definitiva, come ho accennato, una resurrezione della Scala. Ora se si libera piano piano dalle vetriniste… ebbè.

Inutile dire della regìa televisiva, indispensabile e attenta alla musica. Sbagliata nel ricorrere di continuo ai primi piani: ma si sa che il primo è il piano televisivo per eccellenza. Là dove il totale dall’alto schiaccia inesorabilmente le prospettive e non rende i volumi. Lo si sa e non c’è niente da fare. È tutto. Suggerisco di investire in un biglietto per una delle prossime recite. Stammi bene.

Boris Godunov – Ildar Abdrazakov (basso)
Fedor – Lilly Jørstad (mezzosoprano)
Ksenija – Anna Denisova (soprano)
La nutrice di Ksenija – Agnieszka Rehlis (mezzosoprano)
Vasilij Šujskij – Norbert Ernst (tenore)
Ščelkalov – Alexey Markov (baritono)
Pimen – Ain Anger (basso)
Grigorij Otrepev – Dmitry Golovnin (tenore)
Varlaam – Stanislav Trofimov (basso)
Misail – Alexander Kravets (tenore)
L’ostessa della locanda – Maria Barakova (mezzosoprano)
Lo Jurodivyi – Yaroslav Abaimov (tenore)
Pristav, capo delle guardie – Oleg Budaratskiy (basso)
Mitjucha, uomo del popolo – Roman Astakhov (basso)
Un boiardo di corte – Vassily Solodkyy (tenore)

 

About dascola

P.E.G. D’Ascola ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: "Le rovine di Violetta", "Idillio d’amore tra pastori", riscrittura di "Beggar’s opera"di John Gay, "Auto sacramental" e "Il Circo delle fanciulle". Sue due raccolte di racconti, "Bambino Arturo e il suo vofabulario immaginario"" e "I 25 racconti della signorina Conti", i romanzi "Cecchelin e Cyrano" e "Assedio ed Esilio", tradotto questo anche in spagnolo da "Orizzonte atlantico". Nella rivista "Gli amanti dei libri" occupa da molti anni lo spazio quindicinale di racconti essenziali, "L’ElzeMìro".
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6 Responses to Boris Godunov – Scala 7 Dicembre ’22

  1. azsumusic says:

    Analisi ammirevole, eppure mi son scocciato. Scocciato che la “prima” non possa essere di Ligeti, Stockhausen, Berg o chi volete. Scocciato che la mondovisione debba essere lirica, mentre per sinfonie, balletti e avanguardie, guardare RAI 3, lavoro permettendo, il mercoledì pomeriggio, servizio di 3.45 minuti a fine telegiornale (tg locale, peraltro). Uffa!

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    • dascola says:

      La Scala è prima di tutto un teatro di teatro lirico. Ligeti o Staccauzen no con la lirica non c’entrano. Non ricordo opere di Ligeti che peraltro non avrebbe avuto ragione di scriverne perchè il melodramma è finito con Mascagni, con al coda di Stravinskij come bene sai, e il circolo chiuso di West Side Story. Proporrre un titolo eccezionale come il Boris testimonia della intelligenza di progarmmazione: andare all’inusuale piuttosto che all’usuale Tosca. Domani potrebbe toccare piuttosto ad Arianna a Nasso piuttosto che alla Damna di PIcche o alla Lady Macbeth del distretto di Minsk. Sempre Opere. Cioè un’altra epoca, un altro mondo. L’oratorio o la cantata sono da concerto, se mancano nelle programmazioni bè è una questione di scelte.

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      • azsumusic says:

        “Licht” di Stockhausen (peraltro eseguita in prima mondiale proprio a La Scala) e “Le Grande Macabre” di Ligeti. Due opere liriche contemporanee. Senza considerare chi scrive (o che potrebbe scrivere, se vi fosse spazio) ancora oggi. Aggiungo: se il grande teatro lirico non permette il debutto di nuove opere, alla prima della stagione, continueremo a vivere in un eterno revival. Inesorabilmente costretti a vedere la settima replica di Titanic su Canale 5 durante Sanremo.

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      • dascola says:

        Allora mi vuoi invitare a nozze. Ma la questione che poni in modo del tutto credibile è altrove. Ripeto: la Scala non è il teatro dell’innovazione, dell’esperimento, del nuovo: il nuovo non è poi ipso iure meglio. La Scala è un teatro nato e vissuto sul melodramma e sai quante opere meravigliose di Rossini non si fanno? E lì c’è una miniera musicale ancora da scavare. Se l’opera come forma è finita e non ha senso riproporla perchè l’opera lirica ha una struttura abbastanza precisa: inizio centro fine: Persino il mitico Wozzeck è così. Lo sai. Niente lezioni. Ora il punto dove voglio portarti è questo: a una cittadina come MIlano gioverebbe molto ma molto che si accendesse un teatro in più e che già c’è meno che sottoutilizzato: l’Arcimboldi. Quello dovrebbe essere La Scala-21°sec. Dove si fa tutto di più a partire da una meditazione profonda sul cosa proporre. Ma devi creare il pubblico che non c’è. Operazion da giganti; non puoi tenere aperto un teatro per 500 persone. Né aprire un teatro per dare operine minori di Alberto Savinio(belle). Si potrebbe cominciare con i lavori nazionali, anche americani. Insomma di roba ce ne sarebbe da affiancare a quei due titoli che citi. La Scala farebbe il suo mestietre di teatro internazionale e gli Arcimboldi, con una direzione molto brillante, una sua orchestra, un suo direttore principale, un suo centro di ricerca musicale, un suo tutto e tanti posti di lavoro da creare, andrebbe nella sua direzione. Un po’ come a Berlino o Parigi. Detto questo siamo nella fantascienza in Italia e a MIlano. A mio avviso, non di oggi, la direzione dovrebbe esser questa. I tempi saranno cambiati non lo so ma fai attenzione: innovazione alla Scala ne è stata fatta, Mosè e Aronne(due palle), o metti il Gran sole carico di amore, ( Luigi Nono: c’ero lo so a memoria e gridavo per due ore ordini militari in quinta a non meno di 80 comparse, poi centoventi coristi, trenta ballerini). Scaricavano al Lirico pullmann della Cgil carichi di operai che applaudivano lo spettacolo, sontuoso, impressionante di LIubimov( bellissimo ) e poi credo scattassero di corsa a casa ad ascoltare Sanremo. Qui sta un punto che non tocchi. Che il pubblico ripeto va creato. Che occorre ascoltare tutta la musica, farsi un’idea di come funziona già a tre anni. Imporre la danza, obbligare al teatro. Le menti si affinano, il gusato si forma. Parti dalla 1812 di Tchaikovskij e arrivi ad Alessandro Melchiorre, i cui lavori sono, a mio gusto, di musica musica. Tutto questo è lavoro che in Germania è normale da duecento anni, qui non siamo nemmeno mai partiti. Quando passo sotto le finestre del liceo scientifico Volta, con annesso musicale, qui a due passi e sento suonare, mi si apre il cuore ma poi? Qui non c’è un’orchestra. Lì in Germania sai quante? (se non ricordo male 120) Sono forse un po’ confusionario ma conto tu abbia capito dove il discorso va spostato. Del resto: in Conservatorio io ho proposto riscritture e lavori nuovi fino al mio ultimo anno di lavoro, con musiche composte da allievi, alcune bellissime altre meno ma cos’era importante: abituare per esempio i musicistai al rigore del teatro e delle metrica parlata. Della forma destinata. È solo un esempio. Per dirti che nemmeno i Conservatori sono scuole di musica ma di strumentisti. Lì sta il dfetto del nostro paese sottoculturato ed erede di quel Crocianesimo che non ha mai ricosciuto valore estetico alla musica, e che ha modellato i modi di percepirla: di fatto un evento in cui si battono i piedini e si dondola la testa, sbagliando tempo.🤣

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  2. orazio donati says:

    Sono assolutamente d’accordo con te. Finalmente abbiamo visto un vero regista all’opera, con molte idee, un grande senso del teatro, senza inutili attualizzazioni o trasposizioni. uno che ci ha risparmiato l’arrivo di Boris in Maserati. Ho trovato bellissimi anche i costumi.

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    • dascola says:

      Capisco; ma non dico di preciso che i costumi siano/fossero brutti ; bensì inadeguati, almeno nelle prime parti. Zeffirelli ci insegnò che ciò che non vedo non c’è in palcoscenico. RIcorderai peraltro i manti, anche solo quelli, dei coniugi Macbeth nel 1976. Dico sei metri a spanne. Azzardo per poca pratica della costumaia forse di lirica e di palcoscenici immensi. Quasi 20×9 alla Scala oggi, agilmente potresti montarci un condominio di tre piani senza sforzo, lì l’uomo diventa un vermino grigio nel vuoto. Gli accorgimenti per ovviare sono tanti, certo il colore, la materia, il tratatmento, i glitters,la scelta stessa della stoffa, se seta, se quel che ti pare.( solo la Spinatelli insistetta per secoli col cencio di nonna e la juta, ahinoi)Aggiungo che risolta mi è parsa senza tanti dubbi la massa del coro donne ( belli i rossi e i bianchi davvero), non quella degli uomini che vedevo tuttavia essendo massa, per il resto avrebbero potuto salira in scena in tuta e l’effetto sarebbe stao identico. Belle le guardie nere, belli i bimbi cantori e i bimbi morti; vedevo di più il nero e il grigio del monaco e del Dimitri. Per paradosso la cenere si nota. Bella ripeto la processione ( splendide le due donne alle spalle di Boris). Bella la zarevna così Pippi calzelunghe con le sue scarpette rosse. Sulle altre prime parti tuttavia io avrei fatto delle riflessioni di ordine scaligero. Ma sono chiacchiere le mie. La sostanza è che si è visto un gran spettacolo per una musica sfolgorante.

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