
Le cose inattingibili ci sono più vicine di quelle vicine, anzi, quelle presenti restano per noi quanto di più estraneo.«Può darsi che io studi i dettagli ma non sono un osservatore». Questo vale per ogni genio. In cambio, gli sono dati quegli sguardi, quegli accessi fatti di sguardi su cieli e giorni estivi di tempi lontani, di generazioni venture, di altri sperimentatori dell’esistenza – accessi fatti di sguardi senza veli, per esempio su qualcosa di estivo, al culmine, un che di rigoglioso: città torride, tutto molto simile, lo stesso valzer di Chopin in la bemolle maggiore, eppure molto diverso. Vi si accompagna un che di inappagato, qualcosa che strugge il cuore. Nuove onde lontane, metamorfosi quasi impercettibili, tardività – e inesaudibile, tutto.
Gottfried Benn –Romanzo del fenotipo (1944-pag 53)- Adelphi.
Vienna. Chiediamo dov’è la Berggasse perché, attirati invece dall’ombra rigogliosa della Servitengasse, ricca di ritrovi che ingolosiscono al ritrovarsi, passato l’angolo della Schlickgasse a sinistra la Berggasse ci è appena sfuggita. Vienna dalla cartina turistica, piena di incertezze, allusioni e omissioni, costringe a certi accertamenti topografici: ciò che sembra sott’occhio, portato lo stesso occhio nel reale è altrove. Per fortuna, una vecchia signora, una visione in nero, un inaspettato altro col carrello della spesa – ach c’è un mercato Billa alle spalle –, spiega che siamo vicini vicinissimi ma dalla parte opposta, indica, spiega, ci accompagna ; Ognuno che bussa trova un altro ad aprire ; accoglie con questa citazione la casa museo del maestro: casa e studio di Freud in Berggasse 19 Wien 1090. Accanto al portone intagliato, immenso e massiccio ci sono le tre snelle vetrine della biglietteria e di un caffè confortevole, con il suo dehors; da non escludere confortante. Altro. I bussanti del museo sono evidenti addetti ai lavori, non pochi con famigliole; argentini che si riconoscono dall’accento; il modo e il riguardo e il sentirsi a casa propria che tutti manifestano nei gesti e nei bisbigli denunciano la loro provenienza clinica. Ma non importa. Sono in fondo i più estranei perché intesi detentori del sapere benché nessuno, tranne uno o due, legga il tedesco delle didascalie e dei documenti. Li senti recitare a fior di labbra qua e là il rosario delle didascalie in inglese; che è altro. (nei fogli sparsi nelle teche si nota la calligrafia a elettrocardiogramma di Freud, si capisce perché molta parte della corrispondenza mostrata è a macchina). Poi, al ristoro, si berrà tè e Almdudler, una bevanda frizzante verde chiara dal vago sapore di limone e menta, tutto molto viennese come ognuno può immaginare; lì si viene mangiati da un buon dolce di mirtilli adagiati su uno strato di formaggio di capra, quasi senza pasta sotto. Altro.
La casa è un imprevedibile labirinto; o meglio un insieme di scatole di Lego; ma viene in mente Escher anche se non c’è nessuna torsione o ribaltamento prospettico; non che sia evidente; è piuttosto una sensazione. Si cammina in piano ma l’occhio fa inquadrature sbollate: le usava Orson Welles, e le usò Carol Reed ne Il terzo uomo: l’altro. Insomma questa casa non può essere che il Lego di Freud. Nel vestibolo pare di sentire l’andirivieni di passi, il fruscio dei capotti che hanno sfiorato questi muri, atteso all’attaccapanni ( qui e adesso invece è tutto un ciabattare di sandaletti e di più discrete scarpe ginnico-sportive). Con un un po’ ma non più di tanta fantasia si possono percepire anche gli strilli, il vociare delle SA che infransero i sigilli di questo tempio antropologico per devastarlo o i lamenti dei 79 ebrei costretti a viverci, nell’appartamento requisito per un periodo, prima della deportazione. Ma non c’è che dire e appena varcata la soglia la gola ci si stringe; pare di compiere o di resuscitare i passi di un rito, sale una commozione al pensiero delle varie Dora e Doro che qui deposero il soprabito, sedettero nella sala di attesa… quali indugi, quali aspettative… in transito per quella di consultazione ovvero di trattamento, Be-handl-ung si legge nelle didascalie esposte con grande precisione e abbondanza a questa e quella parete. Poi c’è l’andito di scambio per dove, finita la propria seduta, il paziente transitava in modo da non essere visto dall’altro in attesa; una garitta di confine, curiosa, piccola e stretta con una finestrella che dà su un cavedio; l’associazione è con le vecchie passerelle a soffietto dei treni un tempo: il divertimento da piccoli era traversare il convoglio da una vettura all’altra per quel ponticello di ferro in sussulto e odoroso di ferodi e lubrificante. Si intuisce un cordone ombelicale tra le stanze, quella del maestro, della figlia e dell’amica della figlia legata a sua volta dal cordone di telefono interno i cui fili strappati penzolano da un angolo vicino a una finestra. E c’è un cordone ombelicale strettissimo tra l’inventore della terapia della parola e la parola tedesca: la psicolalàlisi non poteva che essere tedesca. Perché analitico è il modo di esporre del tedesco, la sua costruzione per accumulo, così musicale della frase, il mostrare la composizione in blocchi di particole, note, significanti della parola che un prefisso o un suffisso mutano in un altra strettamente o astrattamente o distrattamente legata, ma ora ambigua, ora coniugata a un altro significato. A studiarlo rinunciando a dire che è difficile, il tedesco è la psicoanalisi della lingua – madre? tanto sono morbide le sue aspirazioni e uterine o placentari le sue declinazioni: il resto sono luoghi comuni nazionalisti, provinciali e antigermanici –. Nessuna lingua, non di quelle che si conoscono qui in Europa – altrove il giapponese? – può tradurre nel senso del profondo la complessità della parola trattata, be handel tes Wort: è neutro non femminile e leggilo vort non uort. Il tedesco che declina tutto, che ordina e subordina, fa aspettare la soluzione della frase fino all’arrivo del predicato verbale – il verbo in fondo che cos’è? L’altro che ti apre incognito e atteso? – che precisa con intransigenza, che finalmente associa, associa: Donau schif fahrts gesell schaft: Donauschiffahrtsgesellschaft: Compagnia danubiana di navigazione. Il tedesco è la lingua del sogno, una lingua di navigazione, della poesia, di Rilke, di Benn, di Nietszche. Se vuoi anche di Lehár, del valzer, di Billy Wilder infine, il macchinista della commedia. Il tedesco è un meccanismo a orologeria come quello a Vienna del nostro appartamento: evocando l’apposito psicopompo di una tastiera alfanumerica, un meccanismo si mette in funzione e la porta si apre su: altro. Ognuno che bussa trova un altro ad aprire.
Fuori in Berggasse c’è un bel sole di fornace fiorentina ad accoglierci di nuovo, tira una brezza gradevole nonostante la temperatura inusuale. Immaginati il dottore incravattato percorrere queste strade alla vigilia estiva del più efferato dei delitti seriali: la liquidazione dell’Europa-impero absburgico, nell’agosto del ’14 dopo Sarajevo, e l’assassinio dell’Austria repubblicana poi, nel ’38, e per mano di sé stessa, benché armata da Hitler. L’Austria non la Germania è stato l’epicentro di una catastrofe che l’Europa ha speso un secolo a elaborare ammesso che lo abbia fatto; e che ancora elabora il lutto di sé medesima e che tuttavia pencola smarrita sulla propria necessaria unione alimentandosi ancora di brute mitologie nazionaliste – e di campanili e rosari stonati – le stesse del 1914 e del 1938. L’Europa non ha nulla per opporsi e proporsi all’emigrazione perché è un flatus vocis senza parole. Senza tedesco. Si prende il tram D e pensierosi si torna in centro, fermata Volkstheater che è lontano, e, curioso, non fermata Parlamento che invece è lì da contemplare, vastissimo Partenone di marmo al sole. Inesaudibile.

Dici magnificamente dell’essenza della lingua tedesca. Però i meccanismi ad orologeria possono essere forieri di rischi. Il primo e il più ovvio è la possibilità che si inceppi: il famoso sassolino che distrugge la macchina. L’altro è la tendenza a saturare il pensiero che esprime e a non lasciare spiragli verso prospettive inaspettate. Quando incontrai il sempre (da me) più che mai compianto Ferrara, rimasi sbalordito del fatto che per lui il massimo della soddisfazione interpretativa lo trovava nelle Ouvertures delle opere verdiate. Agli allievi preferiti dava sempre da dirigere, nel concerto di chiusura della stagione accademica della Chigiana, un’Ouverture di Verdi. Mano mano che ho approfondito la sua conoscenza e ho capito il suo modo di intendere la musica e la sua interpretazione ho capito il perché della sua predilezione. La musica italiana in generale sta alla musica tedesca come la commedia dell’arte alla tragedia shakespeariana o alla grande tradizione tragica francese o tedesca: l’interprete ha uno spazio ri-creativo molto maggiore nei confronti della tradizione musicale italiana piuttosto che in quella tedesca. L’eventuale sassolino nel suo labile meccanismo può essere accolto come una variabile che apre a delle prospettive non immaginate. E d’altronde se le premesse del meccanismo ad orologeria non sono fondate (socialmente parlando) su principi o valori etico-politici arrivare ai campi di sterminio è facile. Comunque quanto dici di Vienna risveglia nostalgie reali (i miei soggiorni di studio) e immaginarie: la perdita della cultura mitteleuropea che aveva il suo centro in Wien….
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Jung diceva che quanto è fuori è tanto immenso quanto ciò che si trova dentro. Quindi, la percezione di quel che è esterno dipende da come lo vediamo al nostro interno. Per un germanofono, tutto quel rigore estetico corrisponderà a un rigore intimo e viceversa, per un latino, il caos in superficie equivarrà al fuoco dentro. A conferma di quanto esposto, secondo Le Bon, i popoli latini necessitano di una dittatura per essere gestiti poichèé diversamente, sbrigliano. Tuttavia, l’esempio del despota che prese piede nel centro Europa, conferma l’inverso. Come se, in ogni caso, l’umano, di ovunque, necessitasse dell’ordine per non pensare a come il tutto potrebbe essere diversamente. Se si teme di rischiare, di esplorare, questo ordine in cui l’umano trova conforto da, a questo, solo una certezza: la certezza di essere un essere limitato.
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Questo presuppone che l’umano inteso come massa alimenti un pensiero, cosa che mi pare priva di sostegno: ci si cala nella massa proprio per non pensare, per inseguire di solito sensazioni, sentori collettivi, odori canini o di incenso. Il disagio dell’esistere è dato, mi pare, dall’incognita del pensiero, strutturato in sensibilità o inconscio. Da qui l’avversione insorta da subito per le pratiche analitiche che al pensiero comunque cercano di ricondurre il soggetto. MI pare così. Non conosco Le Bon ma tra i precursori di Freud porrei, è un mio avviso, F. Nietzsche. Precursori, intuitivi ma privi della faticosa tenacia del ricercatore sistemtico e in un solo campo: il genio diceva Carmelo Bene con giustezza è colui che in sintesi sa fare e arriva a sapere o fare una sola cosa, anche quando, per curiosità o stanchezza, si dedica a qualche passatempo: la critica per esempio. Quanto alle dittature del XX secolo mi sento di dire che i primi a concepirla furono Lenin e Troztky, due efferati assassini senza qualità, ovvero una sola, quella di non averne, ma di agitarsi molto. Mussolini a ruota. Hitler applicò un metodo alla balordaggine gigiona di Benito. Per il resto sostituì al tedesco le sigle,( osservazione che prendo da H.Böhl) e l’urlo, il rutto da birra. Fu popolare come Benito perché apprendista stregone di popolo. I sovietici partirono dall’idea di farlo fuori il popolo per sostituirlo con un’entità astratta, modellata su una teoresi forsennata(non quella di Marx, che fu un pedante di genio, ma innocuo). In Europa, al contrario, i macellai furono dei praticoni che ogni tanto bontà loro deponevano il coltello. I sovieti no, il loro modello era il delirio ideale, la torsione nel delirio del reale. (a vantaggio ma solo fino a un certo punto di una nomenclatura). A Benito, Adolfo e Francisco mancò del tutto o in parte un’ideologia, furono degli artigiani, o dei bottegai. Adolfo se la inventò pescando nella mitologia orecchiata. Non credo di spiegarmi ma scrivo di getto questo commento lo stesso, per rivelare la mia pochezza di interprete. Peraltro il mio dire in Berggasse va inteso in senso estetico. Il mio amore per il tedesco è di questo tipo. Del resto il mio maestro mi diceva:”ma sei proprio un tedescone” Ah ahaa ah. Grazie per le sempre stuzzicanti visite.
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