
La mer est pleine d’eau, c’est a n’y rien comprendre – Erik Satie
Da un articolo di Nicolas Bellario (→)sul Post colgo questo passo che non voglio, non devo commentare né spiegare perché, come dice Bellario, sarebbe una forzatura. L’articolo si riferisce agli inizi della carriera dell’artista Rothko, autore per esempio del quadro qui sopra:
Peggy Guggenheim diventa la sua agente (di Rothko n.d.r.) e nel 1945 gli dà l’opportunità di realizzare la sua prima personale: quindici tele, che Rothko stesso descrive come “ritratto di un’idea”. La forza teatrale delle sue opere si impone: le incide con spatole o col manico del pennello, tracciando percorsi introspettivi e surreali. Rothko aborrisce interpretazioni e spiegazioni didascaliche: vuole che sia lo spettatore a decidere di fronte all’opera e che sia l’interlocutore a scegliere se vi sia il sacro o il profano in quei colori e in quelle forme. Critici, storici dell’arte, esperti di ogni genere sono solo un ostacolo, una forzatura.
Te lo dico con un certo disagio ché da una parte mi stupisce e a volte persino mi (re)suscita il riso, dall’altra mi fastidia, e mi innervosisce ogni volta la selva delle recensioni on line, si tratti di ristoranti o erboristerie, o film o libri o quadri appunto ; certo, uno la selva mica è obbligato a traversarla, caro Dante loda il mare e tienti a terra ; ma è il linguaggio cioè la sua attitudine che sconcerta, non solo la lingua che affiora dagli analfabetismi, mi pare di potere diagnosticare e aggiungo, dalla ebetudini dei recensori pubblici (perché pubblici si rendono e dove sappiamo). Provo a spiegarmi me medesimo : un tempo un tipo alcolico, tale Veronelli, girava per osterie e, soggetto supposto sapere, stilava delle critiche, delle recensioni, alla fonduta e alla cantina e agli gnocchi della signora Rosina. Veronelli qualcosa di cucina doveva ben sapere ; allo stesso modo, i periti Michelin vanno, magnano e assegnano stelle o no. Sono soggetti supposti sapere, volendo ad arte adottare un‘espressione cara al Lacan che cretino non fu tanto che qui questa sua invenzioni semantica fa gioco. Ovvio che tu sei libero di crederci e meglio di non crederci, di sapere che le stelle cadono e che si tratta di vezzi del commercio, anche nel caso di epigoni odierni del Veronelli che figurati…gamberirossi…e alla fine marketing. Ma, ti domando, con che becco si pubblicano le recensioni ( quasi tutte di uomini se ci fai caso) del signor Brambati, contabile in Desio o dell’avvocato Martidaradonna di Cremona che, con sprezzo del pericolo ed orgogliosa sicurezza, scrivono di scaffali ben forniti location interessante (sic) prodotti ottimi personale competente ben scritto trama avvincente…da che pulpito, da quale fucina sapienziale si recensisce il sapere di un erborista o di un oste, persino dei farmacisti – molto professionali davvero e davvero ‘sti cazzi, alla farmacia Dulcamara distinguono ibuprofene da acido ialuronico – oppure è che nasce con i detti signori e avvocati un sapere di fatto enciclopedico e tale da permettere il giudizio, sempre perentorio sul sapere altrui in materie che contabili e avvocati ignorano, dal culatello alla padella antiaderente, dal torrone alla tisana sonnifera. Come fa poi un analfabeta strutturale, condizione se vogliamo comune a tutti, come fa a tranciare giudizi su un altro analfabeta che ha avuto la fortuna e l’abilità di farsi pubblicare da una delle tante agenzie di marketing ma culturale nascoste sotto il nome di case editrici. Pensa ai generali che scrivono e non solo vengono appunto editati, cioè messi sul mercato. Certo si può enunciare ciò che si è gradito con un mi piace non mi piace che è la prima forma disponibile di giudizio, forma che raccomandavo agli studenti esortandoli ad allenare però il giudizio con il raffinamento della sensibilità. Ascolta cento volte il Wozzeck e vedrai che ti piace. Si può dire ho mangiato di schifo oppure mi è piaciuto molto a condizione di avere per esempio una cucina di paragone o acuito il proprio palato Ma a proposito di una farmacia ho letto che il suo personale è un po’ lento ma divertente – ah ri-sic – sono forse giocolieri? Al tuo posto mi preoccuperei: lo spettro dei competenti virtuali si aggira per l’Europa.
Implacabile sono andato al cinema poco prima della fine dell’anno per un film atteso come rivelazione di un genio, vero in generale, alla sua ennesima opera. Peccato che un film di americano concepito e partorito in francese sia stato doppiato in italiano al solito con impeccabile mediocrità. Nessuno alla distribuzione ha voluto riflettere sul cambio di registro di un autore anglofono che decide di lavorare in francese, traducendosi. Nemmeno un dubbio: doppiaggio. Perché mai non i sottotitoli. Peraltro mediocri erano gli attori originali anche credo in francese : opachi anche ai raggi X e mal truccati. Mediocri i costumi. Si dice che il film dell’autore è l’ennesima sua penthouse comedy, commedia d’attico, ma qui di penthouse c’è davvero poco, pochi i costumi, la protagonista indossa sempre lo stesso paio di scarpe spaiate con l’abito e si veste da serie televisiva in classe energetica G. Il film non si muove, non si sapesse che è cinema, cioè movimento, verrebbe il dubbio di assistere a una presentazione power point, luci da commercial, nessuna messa in scena, la vicenda passa dal non rullare all’abortire il decollo alla fine della pista : tutti salvi i passeggeri ; avevo allacciato il cinturone di sicurezza dell’indifferenza e non sono cascato dalla poltrona. Ma cosa, come, di che dici? Sì dico di Coup de chance. Autore Woody Allen : di solito i grandi sbagliano alla grande, qui no l’Allen non ha nemmeno sbagliato, era dalla parte sbagliate della macchina da presa ( quella che i nativi illetterati chiamano telecamera), ovvero dalla parte sbadigliata. Tutti contenti alla fine gli spettatori, ah che bel che bel. si sono divertiti ; che è quanto i competenti recensori si attendono da un’opera o da una farmacista : divertirsi. E lasciateli divertire. Il pubblico guarda ma non vede.
Accidenti a te e da che pulpito, ti/mi chiedi, da che pulpito parli. Presto detto, mi permetto e comprometto per via di più di un annetto passato in teatro e televisione a far da cadetto (di Guascogna). Insomma il spettacolo è stato dai 19 ai 70 anni il campo del mio mestiere – e adesso sudate carte – Qualcosa ho appreso e compreso, alla mia opinione do peso, poco, ma non per malinteso.
Dunque Witz beiseite(sgherzi a parte) ho visto anche il film che rappresenterà la Spagna al prossimo Oscar e che ha già guadagnato i consensi pubblici dei recensori privati americani, in questo caso ma come si dice tutto il mondo è paese, cioè sguazza nella medesima brodaglia (chissà se anche laggiù dicono molto ben fornito). Ho visto dicevo l film La società della neve. Perepè perepè squillano le trombe del capolavoro di emozione, la rara potenza in re maggiore che arriva con non poco corteo di catering, effetti speciali e, in un set glaciale andino, attori cui per 72 giorni virtuali non cresce mai la barba e non bruciano mai gli occhi in mezzo alle nevi. Amen, si racconta del disastro del volo 571 della Fuerza aerea uruguaya, il 13 ottobre 1972. Il film del signor Bayona, per 125 minuti inquadra in totale vola sul relitto dell’avione disperso, dentro e fuori fuori e dentro e poi tanta neve, neve a sfare e gelo. Il film così però resta congelato senza sceneggiatura, un puzzle su una lastra di sovrimpressioni ghiacce in bianco su bianco, voci off del narratore che poi scopriremo morto, e vita da moribondi, insomma una specie Das Boot, sai, la serie tedesca sugli Uboot che ha il pregio di essere un meccanismo tedesco di precisione e pieno di pistole e siluri che sono il bello della guerra. Per il resto c’è poca ciccia in La società delle neve e molto sfuoco sulla ciccia dei compagni morti che i sopravviventi pappano per campare, cruda o appena scottata sulle lamiere dell’aereo scottate dal sole delle Ande ; imparagonabile a un capolavoro di quasi cento anni orsono, La tragedia di Piz Palù (Die weiße Hölle vom Piz Palü-1929- https://www.youtube.com/watch?v=gJ8B4VH-5gk) di Franck e Pabst, che suonava tutt’altra musica. Il resto mi pare è un peana alla capacità dell’umano di tenere duro e alla fine farcela col favore della preghiera, dello sforzo collettivo, della fede, speranza e carità e dei verbalismi da saggi delle montagna ( ci sta la saggezza andina), ma lo stesso modus operandi potrà essere condiviso dalla prossima pellicola della Mosfilm sull’eroismo del fante russo tra le betulle (se ce n’é ancora) di Bahkmut : con diecimila cadaveri autentici riesumati… produzione paneuropea : PD, M5S, Ungaroton, Comuni di Modena e Bologna, Repubblica Serba, produttore esecutivo Massimo Fini.
La società della neve : un film catastrofico : non è una recensione.
N.B. Qualcuno potrebbe pensare che in questa pagina si manifestino una o più certezze assolute, una fede in quanto scritto. Disilludo : io non ho fede alcuna o per la precisione solo quel po’, quel che basta per non tacere in assoluto, non scrivere, nemmeno pensare al limite : un cinismo che so bene ha in sé il proprio limite. Lo si creda o no possibile infatti, lo scritto non è né assodato né si compiace di essere nel campo del vero ; del possibile sì, magari del probabile. Del simpatico quasi mai. Anzi mi leggo tra le righe un certo fastidio, un’antipatia verso me stesso che forse mi permette la distanza prospettica. Che dà un po’ di sollievo dal non mi piaccio – la prospettiva è una forma di anestesia, forse la migliore – e la possibilità di intravedere un altro, l’altro che compone la combinazione delle parole quindi, a suo giudizio. Giudizio che mi stanca e alla fine mi annoia. Stacco le mani dalla tastiera e ciao Diogene (→)




