Storielle di un bosco viennese

Vienna. Agosto. Yppenplatz che non c’entra con gli hippy né con gli hipster e, bada di dire üppen, con la u francese o milanese. E Yppen fu il conte van Yppen, nederlandese, che a fine settecento comprò terreni qui in questo settore a ridosso della città allora, oggi quartiere popolare, per edificare un palazzo e una residenza per veterani. Dalla piazza striscia via il Brunnenmarkt, il mercato all’aperto che lungo l’omonima Brunnengasse ogni giorno è il campo di lavoro di centinaia di mercanti orientali, ci paiono turchi la più parte. Il mercato sarà lungo due chilometri, ordinato e pulito come può essere un mercato. Ma ordinato. Le merci? Tutte: olive, frutta, verdura, carni, mutande, narghilé o come si chiamano, pizza italiana e turca, la pide, utensili, cibi cotti e crudi, tonnellate di dolci assassini, scarpe… una donna con lo/la hijab sui cinquanta , lei non lo/la hijab d’ordinanza prova un par di ciabatte aperte sostenendosi al braccio del mercante, lì nel bailamme… piedino dentro e fuori, hoplà noi viviamo.

L’approdo alla piazza con 36 gradi insoliti testificati dal termometro del telefono invoca un ristoro, stiamo camminando dalle dieci di mattina e sono quasi le cinque del pomeriggio. Il caffè si chiama Wirr am Yppenplatz ( ce n’è un altro in Bruggasse) e si nota subito, è accogliente, arredato in modo fantasioso, fuori ha grandi ombrelloni perché la piazza è a sua volta di mercato e gli alberi ci sono sì ma solo nel parco giochi al suo centro. Ci sediamo a un tavolino di ferro vintage, non toccato da una riverniciatura contemporanea e arriva una ragazzona di belle maniere con bicchieri e una mezzina di acqua di rubinetto che a Vienna è gelata. Da bere agli assetati. Poi chiediamo tè freddo alla menta e succo di mela frizzante. Si frescheggia perché al solito spira una brezza serale che asciuga malgrado non sia fresca. Beviamo in abbondanza. Accanto a noi c’è una coppia suocera-nuora, molto giusta la giovane in un vestitino stampato a fiori, mezze maniche, la gonna larga sotto il ginocchio, una bimba graziosa in collo. Arriverà un uomo, forse un marito. che alla giovane parla in inglese per una metà e in tedesco per l’altra. Non sappiamo perché ovviamente. La giovane non sembra inglese ma tant’è. Forse è lui l’inglese o olandese o scandinavo e ha un’aria da architetto che sia appena uscito dallo studio, studio che ha lì nei paraggi : a Vienna convivono il coturno e appunto la ciabatta.

Ecco che attirati come vespe, non si escluda dal fatto che ci hanno sentiti magari parlare italiano tra noi invece, arrivano prima uno poi un altro mendicante. Il primo è un ragazzo dal volto educato, potrebbe essere un bel ragazzo, alto, ben piantato, non fosse che è lurido e calza dei sandali del tutto inutili per camminare tanto sono sfondati. Il resto cenci. Con cortesia estrema, le mani giunte  chiede molte volte, vielmal ( leggi fiilmaal) scusa per il disturbo ma spiega che ha bisogno di soldi… attenzione si tiene a distanza dal nostro tavolo come per non infrangere il nostro cerchio vitale. Prega ma non mendica, spiega. Altrettanto cortesemente gli diciamo che dispiace anche a noi molto ma non abbiamo mai denaro su di noi e quindi non possiamo esaudire la sua richiesta. Verrebbe sinceramente almeno da offrigli da bere… e forse da mangiare… e forse da abbracciarlo non fosse per la repulsione che suscita il sudiciume… il timore del contagio… quale? Uno qualunque. E poi chissà se al Wirr sarebbero contenti di farlo accomodare a bere dai loro bicchieri. Bene, il ragazzo se ne va rinnovando le scuse e ringraziamenti per l’attenzione con leggeri inchini. La cortesia è nel patrimonio genetico a Vienna, non si contano i gerne (gherne) volentieri, e i sorrisi per ogni grazie che pronunciamo. Tant’è. Pochi istanti dopo ci si avvicina un cristoscappatodaeboli, un Giobbe con l’occhio forse del tossico ma non sappiamo non ce ne intendiamo, stracci addosso che non coprono le sue magnifiche ulcere e piaghe, anche in viso un trionfo di stimmate, un lavoro da miracolologia per un qualche santo redentore in una pittura tardo medievale su legno. Si avvicina a noi con impeto l’uomo e… chiede scusa. Chiede scusa per il disturbo e denaro ovviamente; ha già pronta la mano da ostendere. Ma dobbiamo anche a lui chiedere noi scusa perché non abbiamo contanti da dargli. Offrire da bere o mangiare meno che al primo uomo; vai a sapere che nascondono le piaghe e le ulcere. (Ma egli non puzza di morte come ci capitò anni fa a Parigi e in metropolitana: lì l’origine era con tutta probabilità un diabete estremo e sulla gangrena delle gambe a me parve vedere avviticchiarsi dei vermi: ma mi è noto che sull’orrore lavoro di fantasia.) Se ne va, non sembra contrariato e ringrazia, meno formalmente del primo ma con la convinzione la cortesia che è abito mentale.

Lecco, settembre, supermercato Iperal. Barriera di uscita dalle casse automatiche. Una donna carica di spesa, cerca di far aprire il varco, come d’uso, offrendo il codice a bare stampato sullo scontrino di cassa all’apposito lettore laser. Ma il varco non si apre. La vedo in difficoltà, la spesa ecessiva la impiccia, tentenna,  mi avvicino e le dico di lasciarmi provare con il mio scontrino, non dico signora. Eh ma non si apre…ritento…Ah ma non si apre non si apre. Interviene un’impiegata gentile che sblocca lei le porte dell’Ade. Non un grazie, non un buongiorno o arrivederci, non uno sguardo dalla donna. Fila via liscia. Tutto dovuto. Per fortuna non ho detto signora.

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Una visita

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Le cose inattingibili ci sono più vicine di quelle vicine, anzi, quelle presenti restano per noi quanto di più estraneo.«Può darsi che io studi i dettagli ma non sono un osservatore». Questo vale per ogni genio. In cambio, gli sono dati quegli sguardi, quegli accessi fatti di sguardi su cieli e giorni estivi di tempi lontani, di generazioni venture, di altri sperimentatori dell’esistenza – accessi fatti di sguardi senza veli, per esempio su qualcosa di estivo, al culmine, un che di rigoglioso: città torride, tutto molto simile, lo stesso valzer di Chopin in la bemolle maggiore, eppure molto diverso. Vi si accompagna un che di inappagato, qualcosa che strugge il cuore. Nuove onde lontane, metamorfosi quasi impercettibili, tardività – e inesaudibile, tutto.
Gottfried Benn –Romanzo del fenotipo (1944-pag 53)- Adelphi.

Vienna. Chiediamo dov’è la Berggasse perché, attirati invece dall’ombra rigogliosa della Servitengasse, ricca di ritrovi che ingolosiscono al ritrovarsi, passato l’angolo della Schlickgasse a sinistra la Berggasse ci è appena sfuggita. Vienna dalla cartina turistica, piena di incertezze, allusioni e omissioni, costringe a certi accertamenti topografici: ciò che sembra sott’occhio, portato lo stesso occhio nel reale è altrove. Per fortuna, una vecchia signora, una visione in nero, un inaspettato altro col carrello della spesa – ach c’è un mercato Billa alle spalle –, spiega che siamo vicini vicinissimi ma dalla parte opposta, indica, spiega, ci accompagna ; Ognuno che bussa trova un altro ad aprire ; accoglie con questa citazione la casa museo del maestro: casa e studio di Freud in Berggasse 19 Wien 1090. Accanto al portone intagliato, immenso e massiccio ci sono le tre snelle vetrine della biglietteria e di un caffè confortevole, con il suo dehors; da non escludere confortante. Altro. I bussanti del museo sono evidenti addetti ai lavori, non pochi con famigliole; argentini che si riconoscono dall’accento; il modo e il riguardo e il sentirsi a casa propria che tutti manifestano nei gesti e nei bisbigli denunciano la loro provenienza clinica. Ma non importa. Sono in fondo i più estranei perché intesi detentori del sapere benché nessuno, tranne uno o due, legga il tedesco delle didascalie e dei documenti. Li senti recitare a fior di labbra qua e là il rosario delle didascalie in inglese; che è altro. (nei fogli sparsi nelle teche si nota la calligrafia a elettrocardiogramma di Freud, si capisce perché molta parte della corrispondenza mostrata è a macchina). Poi, al ristoro, si berrà tè e Almdudler, una bevanda frizzante verde chiara dal vago sapore di limone e menta, tutto molto viennese come ognuno può immaginare; lì si viene mangiati da un buon dolce di mirtilli adagiati su uno strato di formaggio di capra, quasi senza pasta sotto. Altro.

La casa è un imprevedibile labirinto; o meglio un insieme di scatole di Lego; ma viene in mente Escher anche se non c’è nessuna torsione o ribaltamento prospettico; non che sia evidente; è piuttosto una sensazione. Si cammina in piano ma l’occhio fa inquadrature sbollate: le usava Orson Welles, e le usò Carol Reed ne Il terzo uomo: l’altro. Insomma questa casa non può essere che il Lego di Freud. Nel vestibolo pare di sentire l’andirivieni di passi, il fruscio dei capotti che hanno sfiorato questi muri, atteso all’attaccapanni ( qui e adesso  invece è tutto un ciabattare di sandaletti e di più discrete scarpe ginnico-sportive). Con un un po’ ma non più di tanta fantasia si possono percepire anche gli strilli, il vociare delle SA che infransero i sigilli di questo tempio antropologico per devastarlo o i lamenti dei 79 ebrei costretti a viverci, nell’appartamento requisito per un periodo, prima della deportazione. Ma non c’è che dire e appena varcata la soglia la gola ci si stringe; pare di compiere o di resuscitare i passi di un rito, sale una commozione al pensiero delle varie Dora e Doro che qui deposero il soprabito, sedettero nella sala di attesa… quali indugi, quali aspettative… in transito per quella di consultazione ovvero di trattamento, Be-handl-ung si legge nelle didascalie esposte con grande precisione e abbondanza a questa e quella parete. Poi c’è l’andito di scambio per dove, finita la propria seduta, il paziente transitava in modo da non essere visto dall’altro in attesa; una garitta di confine, curiosa, piccola e stretta con una finestrella che dà su un cavedio; l’associazione è con le vecchie passerelle a soffietto dei treni un tempo: il divertimento da piccoli era traversare il convoglio da una vettura all’altra  per quel ponticello di ferro in sussulto e odoroso di ferodi e lubrificante. Si intuisce un cordone ombelicale tra le stanze, quella del maestro, della figlia e dell’amica della figlia legata a sua volta dal cordone di telefono interno i cui fili strappati penzolano da un angolo vicino a una finestra. E c’è un cordone ombelicale strettissimo tra l’inventore della terapia della parola e la parola tedesca: la psicolalàlisi non poteva che essere tedesca. Perché analitico è il modo di esporre del tedesco, la sua costruzione per accumulo, così musicale della frase, il mostrare la composizione in blocchi di particole, note, significanti della parola che un prefisso o un suffisso mutano in un altra strettamente o astrattamente o distrattamente legata, ma ora ambigua, ora coniugata a un altro significato. A studiarlo rinunciando a dire che è difficile, il tedesco è la psicoanalisi della lingua – madre? tanto sono morbide le sue aspirazioni e uterine o placentari le sue declinazioni: il resto sono luoghi comuni nazionalisti, provinciali e antigermanici –. Nessuna lingua, non di quelle che si conoscono qui in Europa – altrove il giapponese? – può tradurre nel senso del profondo la complessità della parola trattata, be handel tes Wort: è neutro non femminile e leggilo vort non uort. Il tedesco che declina tutto, che ordina e subordina, fa aspettare la soluzione della frase fino all’arrivo del predicato verbale – il verbo in fondo che cos’è? L’altro che ti apre incognito e atteso? – che precisa con intransigenza, che finalmente associa, associa: Donau schif fahrts gesell schaft: Donauschiffahrtsgesellschaft: Compagnia danubiana di navigazione. Il tedesco è la lingua del sogno, una lingua di navigazione, della poesia, di Rilke, di Benn, di Nietszche. Se vuoi anche di Lehár, del valzer, di Billy Wilder infine, il macchinista della commedia. Il tedesco è un meccanismo a orologeria come quello a Vienna del nostro appartamento: evocando l’apposito psicopompo di una tastiera alfanumerica, un meccanismo si mette in funzione e la porta si apre su: altro. Ognuno che bussa trova un altro ad aprire.

Fuori in Berggasse c’è un bel sole di fornace fiorentina ad accoglierci di nuovo, tira una brezza gradevole nonostante la temperatura inusuale. Immaginati il dottore incravattato percorrere queste strade alla vigilia estiva del più efferato dei delitti seriali: la liquidazione dell’Europa-impero absburgico, nell’agosto del ’14 dopo Sarajevo, e l’assassinio dell’Austria repubblicana poi, nel ’38, e per mano di sé stessa, benché armata da Hitler. L’Austria non la Germania è stato l’epicentro di una catastrofe che l’Europa ha speso un secolo a elaborare ammesso che lo abbia fatto; e che ancora elabora il lutto di sé medesima e che tuttavia pencola smarrita sulla propria necessaria unione alimentandosi ancora di brute mitologie nazionaliste – e di campanili e rosari stonati – le stesse del 1914 e del 1938. L’Europa non ha nulla per opporsi e proporsi all’emigrazione perché è un flatus vocis senza parole. Senza tedesco. Si prende il tram D e pensierosi si torna in centro, fermata Volkstheater che è lontano, e, curioso, non fermata Parlamento che invece è lì da contemplare, vastissimo Partenone di marmo al sole. Inesaudibile.

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Il senso intimo dell’inutile

Ti dirò qui di cose che oltretutto e oltremodo non interessano nessuno. Parto da un’ossservazione. Stavo scrivendo alcune righe in merito quando un accidente di combinazione tra tastiera e mia propria inefficienza ha cancellato di colpo l’intero post, già scritto, già cotto e mangiato si diceva. Che sia un atto mancato? Non lo so. Con molta fatica ne riprendo il filo e lo riannodo. Da un po’ di tempo ho in uggia la lettura dei romanzi e analogamente  soltanto l’idea mi annoia di rimettermi a mettere sotto le mani un romanzo che ho approntato a suo tempo, rivisto e corretto e lasciato lì, per noia. Mi trattiene sull’orlo di questo sentimento la stesura dei raccontini che compilo per Gli amanti dei libri. Hanno al mio animo la virtà, anzi il vizio della brevità e dell’oblivione ; come una rapida despedida guardandosi negli occhi di qua di là dal filtro di un finestrino. And then is seen no more. La poesia che mi scrive ha questa stessa ma più intensa virtù, è inutile. Inutile immaginarne la pubblicazione, inutile immaginarne il successo o anche solo un passaggio di mano in mano tra sconosciuti che afferrino la forma del sonetto. Pochi, pochissimi, meno che pochi amici, uno dei miei figli che mi fa con pazienza ed entusiasmo da editor, possono esserene i destinatari. E va bene così (con le parole). Canzonette, esprimere uteri è al contrario ciò che viene inteso poesia. E non che a volte Vasco Rossi non lo sia.

C’è qualche analogia in ambito musicale. Fuori dal circo della musica commerciale, e per commerciale intendo anche gli immensi Wiener Philharmoniker, c’è un pullulare di artisti come il mio amico Francesco Biraghi, chitarrista, che suonano e pubblicano cd, costano è facile quattro baiocchi, e altri, prendi Alessandro Melchiorre e Gabriele Manca, che scrivono scrivono bella musica e su commissione di questo o quel festival o di questa o quella formazione. And then is heard no more. È facile essere presi per snob quando si è nob.

Credo che l’arte, questa fatta di lunga applicazione e meditata scrittura, sia all’apogeo, caro mio, al suo ultimo pianerottolo : oltre c’è una ripida scaletta.

She should have died hereafter.
There would have been a time for such a word.
Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow
Creeps in this petty pace from day to day
To the last syllable of recorded time.
And all our yesterdays have lighted fools
The way to dusty death. Out, out, brief candle.
Life’s but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage,
And then is heard no more. It is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.

William Shakespeare – Macbeth, aV/s5

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Too Much Ado…

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Mobius

Sono stato per dieci giorno ospite in Engadina e mi sono sentito a torto Nietzsche, il silente. Anzi sono andato al Gedenkstein, il suo discreto romitorio di pietra e larici, laggiù in cima alla penisola che indica in mezzo al lago di Sils Maria, Qui sta di casa il bello. Bello nel bello il silenzio o, più che il silenzio, il quieto interecciarsi dei bisbigli o il rumore di fogli smossi: di persone che  leggono, pensa leggono e libri persino – non parole crociate o Libero – che si bagnano  poverini anche di sole e che producono il solo rumore dell’acqua che li accoglie, quando sia, interrompendosi per un attimo dal suo disteso sciabordio da mare ; e tutte che stanno semplicemente in silenzio: die große Stille è uno stile di vita quotidiana. Un silenzio non rotto dai  cani, che non abbaiano, da bambini, che non strillano che non fanno capricci anche se si divertono o se qualcosa al contrario li disturba. Salutare all’incontrarsi per via, come si usa credo da millenni in montagna, è un diversivo sonoro, accennato con cortesia di voci più che detto, Grützi. Saluto che è augurio. Di bien être.

Va bene interrompiamo l’idillio, ti va’? Alè, bagno di realtà al varco che ti aspetta alla frontiera. Dunque qui dove abitiamo, sai è un tormentone, in questo stesso momento, per sola voce canina, dura da un’ora e non accenna a smettere ; è sempre lo stesso  cane cui spesso rispondono suoi pari in giro, lo stesso i cui i padroni per sopramercato, ahi i  padroni, spesso strillano  ordini inutili quanto sguaiati e prepotenti, gli stessi con i quali poi aizzano invece i bambini. Il cane andrebbe educato, con autorevole fermezza come i bambini. I bambini qui strillano, ahi povere gioie di mamma, piangono, ordinano a genitori imbelli ma che non non hanno voglia di non esserlo o che interrogano il nulla sul come si fa ad esprimere quel minimo di autorevolezza che conviene con cani e bambini. Avranno altro per le loro teste. Qui i motorini svegliano l’aurora rododattila con scoregge a ultradecibel, qui si suona con roboanza,  frenare mah se mai, qui si sfreccia via rombambàm alle rotonde nonostante il triangolo bianco rosso che obbliga a dare la precedenza. Qui si alza la voce per  qualsiasi cosa, qualunque motivo, anche ciao. Qui conversare in un qualsiasi luogo pubblico è una gara che si instaura all’istante del sedersi a tavola a chi spara la voce oltre le altre ; e che lascio vincere a tutti che vi partecipano. Detesto ormai andare fuori a pranzare, a prescindere dai prezzi. Qui è così. Siamo a millenni dal civismo, dal rispetto, dalla semplice buona educazione insomma ; che poi sai secondo me è civiltà. Non quella romana del Buce che non a caso rallevò una generazione di cafoni da cafone tra i cafonissimi che fu. Ed è una pena viverci qui, a dispetto delle qualche persone a modo e simpatiche, cólte a prescindere dal sapere, che ti capita, a volte, di incrocicchiare.

Una conoscente di pura fede melosalviniana mi dice, Se non ti piace qui puoi andartene. Un’opzione che accarezzo.

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Incantatori di serpenti

Page from The Goddess, 1990 by Moebius (Jean Giraud, 1938–2012)

Seguendo in History channel l’ennesimo, visto ma sempre agghiacciante e nuovo documentario sull’ascesa e trionfo di Mussolini, mi è venuto alla mente incantatore di serpenti. Poi, osservando quel mascellone, come lo chiamò Gadda, e andando a Putin ho trovato qualche somiglianza tra incantatori, dei quali una cosa mi pare certa: è indispensabile abbiano serpenti che si lascino incantare. Amen.

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L’ElzeMìro di Martedì 25 Luglio

Fablìole – Greta la cuoca

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http://www.gliamantideilibri.it/lelzemiro-fabliola-greta-la-cuoca/

in  http://www.gliamantideilibri.it a cura di Barbara Bottazzi

BAMANTI
Desideria Guicciardini-L’Elzemiro alla sua tastiera
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L’ElzeMìro di Martedì 11 Luglio

Fablìole – Le uova volanti

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http://www.gliamantideilibri.it/?p=79478

in  http://www.gliamantideilibri.it a cura di Barbara Bottazzi

BAMANTI
Desideria Guicciardini-L’Elzemiro alla sua tastiera
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Si premia di qui si premia di là si premia nell’al di là 2

A parziale compendio ovvero a corollario di quanto apparso ieri con lo stesso titolo copio qui un bel fondo apparso oggi, sì domenica, in Pangea, la rivista corsara di letteratura in quanto navigazione corsara; l’autore è quasi di sicuro il nume della rivista Bullo, che non si firma ed è già un indizio.  Habeat corpus.

Vacanze, ovvero: epica della diserzione

Panottico. L’altra faccia di Pangea

Vacanza porta in seno le stigmate del vuoto. Vacante, per via etimologica, significa “esser vacuo”, cioè “rimanere vuoto”. Vacuità, vuoto: concetti eccelsi se si è un contemplativo – ci si svuota di sé, per empire il vuoto, per fare ingresso nell’empireo del vuoto. Nel contesto odierno, piuttosto, la vacanza è l’emblema del vuoto pneumatico del ‘vacanziere’, figura sempre felice e sempre frustrata che vagabondeggia da una brandina all’altra, veleggia tra una scarrozzata a cavallo, una tornata in bici, una missione montana: il tutto ad alta densità ‘sociale’ (o social, è uguale), pagandosi il confort di essere lì come altrove, mera cartolina turistica; pagandosi, per lo più, il privilegio della frustrazione.
Alla parola vacanza, preferiamo allora diserzione, che significa abbandonare una bandiera – quella estiva, festivaliera – che non si ritiene più propria, e, in profondità, fare di sé un deserto, desertificarsi, devastarsi. Come vedete, tra il vuoto dell’autentica vacanza e il deserto della diserzione c’è un’affinità paradigmatica, paradisiaca, spirituale. In fondo, qui, si tratta di riassegnare il giusto posto ai segni, deviati dalla bulimia d’uso dell’oggi.
Per il resto, il nostro addestramento passa per Melville. Piaceva tanto a Carl Schmitt.

La vita per mare di Herman Melville dura quattro anni, dopo aver tentato vari lavori, compreso l’insegnante. Il primo lungo viaggio, imbarcato come marinaio, lo fa nel 1839, sul “St. Lawrence”: ha vent’anni e percorre la tratta New York-Liverpool. Molti anni dopo, nel 1855, esaurita l’ennesima vita, quella da letterato, ritenuta insoddisfacente, Melville è di nuovo a Liverpool, fa visita all’amico Nathaniel Hawthorne, a cui ha dedicato Moby Dick, autentico, evanescente, leggiadro leviatano della letteratura americana, lì in qualità di console, grazie ai benefici ottenuti dall’intimità con Franklin Pierce, quattordicesimo Presidente degli Stati Uniti d’America. “Melville, come sempre, cominciò a ragionare della Provvidenza e della vita futura, e di tutto ciò che è oltre la conoscenza umana, e mi informò che ‘era più o meno giusto alla conclusione che sarebbe tornato al nulla’, e però non sembra trovar riposo nella previsione” ricorda, Nat.
*
Il primo vero impiego, però, Melville lo ottiene nel dicembre del 1840 quando si imbarca sull’“Acushnet”, una baleniera che fa rotta verso il Pacifico. Il 23 giugno del 1842 l’“Acushnet” attracca a Nuku Hiva, nelle Marchesi. Il porto naturale è placido, ma nessuno osa sfidare i boschi, notoriamente abitati da popolazioni cannibali. Il 9 luglio, insieme a Toby Greene, Melville diserta “e si nasconde nei recessi dell’isola”. Un mese dopo, i due si impiegano su una baleniera australiana, la “Lucy Ann”; Melville si allea agli ammutinati. Processato, arrestato a Tahiti, Melville scappa con un altro compagno, John B. Troy, nell’isola Eimeo, dove si arrangia come coltivatore di patate. In seguito, riesce a imbarcarsi sul “Charles & Henry”, che gli consente di arrivare alle Hawaii, nell’aprile del 1843. Lì ottiene l’ultimo impiego della sua vita da marinaio, sulla “United States”, percorrendo il Pacifico, fino all’ottobre del 1844.
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Come si sa, gli anni di vagabondaggio nel Pacifico sono lo sfondo dei primi romanzi di Melville, Typee (1846), Omoo (1847) e Mardi (1849). Il Pacifico è il liquido amniotico del Melville romanziere: “Da tempo pensavo che la Polinesia offrisse una notevole quantità di ricco materiale poetico che non è mai stato finora sfruttato in opere di fantasia”, scrive, nel 1848, al suo editore, John Murray. Al Pacifico è dedicato uno dei capitoli più poetici di Moby Dick: “C’è non si sa quale soave mistero in questo mare, le cui movenze delicatamente tremende paiono dir d’una qualche anima che là sotto si celi… Ed è appropriato che sopra questi pascoli marini, sopra il vasto rollio di quest’acquee praterie, sopra questi campi del vasaio dei quattro continenti, le onde s’alzino e s’abbassino e fluiscano e rifluiscano incessantemente, poiché qui milioni d’ombre e di parvenze si mescolano, sogni annegati, sonnambulismi, fantasticherie e tutto ciò che chiamiamo vite e anime qui giacciono sognando, sognando, sempre…” (cito dalla traduzione di Alessandro Ceni, il poeta, realizzata per Feltrinelli, 2007).
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Dieci anni dopo la pubblicazione di Moby Dick, Melville è ancora lì, nel Pacifico, a cercare, forse, la giovinezza perduta, l’estro della scrittura sorto, per diserzione, alle Marchesi. Ne scrive al primogenito, Malcolm, che morirà in modo atroce, diciottenne, sparandosi, a New York. “L’altro giorno abbiamo avvistato una baleniera; ho preso una scialuppa e ho navigato nell’oceano fino alla baleniera, sono stato lì per un’ora. A bordo c’erano otto o dieci “selvaggi”. Il capitano della baleniera li ha arruolati in una delle isole intorno a Rarotonga. Dovrebbero aiutare a tirare la balena dopo che è stata catturata”.
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A Nuku Hiva, nel folto, in quella cattedrale di foreste, Melville rimane per un mese. Che cosa succede? È il sommo segreto melvilliano. Alcuni suppongono che Melville sia stato iniziato ai riti tribali, penetrando negli oscuri enigmi delle leggende isolane. Ad ogni modo, così ne scrive Elémire Zolla: “Due marinai americani scappati dalle loro navi si sono rifugiati presso una tribù delle Marquesas. Stranamente le statue degli dèi maggiori sono adagiate nel verde fittissimo e umido e nessuno fa mai cenno a queste presenze. La vita si svolge tenera, sensuale, trasognata, scherzosa. Ma forse è un inganno, la verità è in quegli angoli segregati, in quelle oscurità stillanti”. Alle Marchesi Melville ammira la – apparente – marcescenza del dio, il dio-feticcio divorato dalla selva, simulacro che si consuma perché deve consumarsi. Così un passo di Typee tradotto da Luca Orlandini in Nuku Hiva (Magog, 2022): “Il simulacro, in sé, era solo un pezzo di legno grottescamente scolpito… Era in un pessimo stato di conservazione. La parte inferiore era ricoperta da una lucente patina di muschio. Sottili steli d’erba spuntavano dalla bocca spalancata e contornavano il capo e le braccia. Le sue caratteristiche divine erano letteralmente giunte a quella decadenza che detta la selva, quando prende il sopravvento. Tutte le sue parti in rilievo erano ammaccate e logore, o del tutto marcite. Il naso era addirittura scomparso, e dalle condizioni generali della testa, veniva da supporre che questa lignea divinità, esasperata dall’incuranza dei propri fedeli, avesse tentato di spaccarsi il capo contro gli alberi circostanti”. L’incuranza come atto di fede – il feticcio esiste perché si consumi, con scostumata indifferenza – scoscendere nel nulla.
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Francesco Saba Sardi ha curato un’edizione di Taipi per Mondadori (1984), e ne scrive in questo modo: “Se Melville è autore, più che del suo, del nostro secolo (e anzi di questo dopoguerra di illusioni cadute), è per merito di una coscienza incerta quanto impietosa. Nessuna amplificazione leggendaria di un’autobiografia: Taipi non è affatto questo, bensì il disincanto, e pertanto il rifiuto di ogni autobiografismo… L’atmosfera di queste pagine non è certo gioiosa: la selva è feroce, l’isola implacabile, gli indigeni perfidi… il mito personale di Melville è catabatico”. Discesa agli inferi, catabasi. Melville è attratto dal mondo magmatico, magnetizzato di spiriti, degli isolani – e ne è rifiutato, rigettato. Orfeo perde cetra, lingua e certezza: nulla può risorgere, lo scrittore porta lo stigma del lebbroso, il marchio del profeta.
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Mentre nell’estate del 1842 Melville diserta e si inoltra tra i recessi di un’isola sperduta nel Pacifico, Nathaniel Hawthorne – così leggiamo nei suoi diari – fa il bagno nel fiume vicino a Concord, Massachusetts – “la sua acqua è di piacevole effetto immediato, essendo soffice come il latte” –, che sfida anche di notte, al “chiaro di luna” – “era calmo come la morte, m’è parso di tuffarmi nel cielo” –, e pranza con Henry David Thoreau, “una persona singolare… brutto come il peccato, col naso lungo, la bocca strana e con modi rozzi e rustici, sebbene cortesi”. L’amicizia tra Melville e Hawthorne, sodalizio tra i più alti della letteratura, comincia nel 1850. “È uno sguardo strano, pigro, ma con una forza abbastanza unica. Non sembra attraversarti, ma prenderti dentro di sé”. Con queste parola Sophia Hawthorne, adorata moglie di ‘Nat’, descrive gli occhi di Melville, lo sguardo onnivoro. Ne è conquistata.
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La catabasi a Nuku Hiva, l’avventura tropicale tra i cannibali, segna Melville per sempre. Secondo i ricordi della nipote, Eleanor Melville Metcalf, “Nell’angolo c’era una grande poltrona, dove lui si sedeva sempre quando lasciava i recessi del suo oscuro mondo privato. Gli salivo sulle ginocchia, mentre mi raccontava storie fantastiche di cannibali e isole tropicali”.
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La diserzione è il carisma di Melville. Melville diserta per avviarsi nel suo deserto: abbandona il mondo degli uomini, la consuetudine letteraria, le convenzioni editoriali. Nel 1885 a James Billson scrive: “Quanto alla fama irraggiunta – cosa importa? La nostra civiltà avanza in un presente in cui diventano famose, ancor più in campo letterario, le cose che hanno successo commerciale. Questa specie di fama, prodotta su ordinazione, fabbricata dalle agenzie, è vanità delle vanità, lo sappiamo bene”. C’è un’analogia tra il pellegrinaggio negli oceani, quello a Gerusalemme – stralunato, involuto, mesmerico – messo in versi in Clarel, e la fuga tra le foreste di Nuku Hiva. Il primo gesto di vita di Melville, quello che ne ha forgiato la giovinezza e foraggiato il futuro, è un gesto di diserzione; non di rinuncia, di viltà, da disadatto, bensì il tuffo verso l’ignoto. Meglio la foresta fitta di dèi ottenebrati dal muschio e di cannibali all’ignavia della barca, al reggimento, ai comandi sfiduciati.
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L’ultima, estrema diserzione è da se stessi, dalla propria opera. Quando il pittore Peter Toft gli chiede ragione dei suoi libri, Melville lo blocca: “Sembrava fare poco conto delle sue opere, e scoraggiò i miei tentativi di discuterne. ‘Le conoscete’, diceva, ‘ meglio di me. Io le ho dimenticate’”. In effetti, riuscì a farsi dimenticare. Nel necrologio pubblicato dal “New York Times” il 29 settembre del 1891 Melville è ricordato come scrittore di “racconti di mare”, come “l’autore di Typee”. Tre giorni dopo il quotidiano ritorna sulla notizia, per trarne una nota moraleggiante: “L’eclissi totale di quello che pareva un luminare della letteratura pare un capriccio sfrenato della fama, in ogni caso, è un monito amaro e salutare per i romanzieri di oggi… I mari del Sud del Pacifico erano il suo territorio di scrittura”.
In fondo, è annegato e risorto, Melville; fu quasi un battesimo. Il patriarca sul dorso della Balena Bianca.

Ci sarebbe da urlare al miracolo editoriale. Ovviamente, dobbiamo fare copia-incolla guardano oltre la tendina delle Alpi. Riassunto bibliografico. Nel 1987 – poi 2004 – Il Mulino edita Il nodo di Gordio: dialogo su Oriente e Occidente nella storia del mondo tra due titani del pensare, Carl Schmitt e Ernst Jünger (ora ripreso da Adelphi). Nel 1999 – poi 2012 – l’editore tedesco Klett-Cotta pubblica il carteggio tra i due, che testimonia una amicizia durata dal 1930 al 1983, pochi anni prima della morte di Schmitt (1985). Nel 2020, in Francia, Editions Krisis traduce quella Correspondance (1930-1983) con didascalia esemplare: “Ernst Jünger, il più noto tra i grandi scrittori tedeschi contemporanei, e Carl Schmitt, il politologo più citato e commentato al mondo, si sono incontrati la prima volta nel 1930. Da allora, hanno coltivato un rapporto di amicizia basato sulla reciproca stima. Entrambi hanno assistito in prima persona agli sconvolgimenti del XX secolo. Durante il Terzo Reich, Jünger optò per un esilio interiore, mentre Schmitt preferì compromettersi con il nazionalsocialismo. La loro amicizia fu profonda, e la loro elevata posizione intellettuale continua a illuminarci”. Da quel carteggio, in particolare, abbiamo estratto le parti che rivelano l’interesse di entrambi verso l’opera di Melville e di Edgar Allan Poe. In uno studio del 2006, Carl Schmitt’s Myth of Benito Cerano, pubblicato su “A Journal of Germanic Studies”, Thomas O. Beebee scrive: “Carl Schmitt, specialista di diritto pubblico e costituzionale, resta la figura più controversa della cultura giuridica tedesca, uno dei pochi intellettuali di destra che continui ad attirare studi e interesse; è il pensatore politico più legato alla letteratura del XX secolo, colui che ha permesso al mito e alla finzione di irrompere nel diritto per creare una ‘teologia politica’… Insieme all’amico Ernst Jünger ha letto i grandi autori americani, Herman Melville e Edgar Allan Poe su tutti, come profeti della situazione globale della Seconda guerra e del dopoguerra, compreso il tramonto dell’epoca delle sovranità nazionali. In particolare, Schmitt cita il Benito Cerano di Melville nella sua opera più di qualsiasi altro testo della letteratura mondiale pur non dedicando a quel libro un saggio specifico”. In Ex Captivitate Salus Schmitt paragona la propria situazione a quella di Benito Cerano. Lo scambio di lettere tra Schmitt e Jünger ne esplicita le passioni letterarie: Schmitt è un assoluto melvilliano; Jünger ha maggior sintonia con Poe, forse per il suo talento nell’esplorare ambiti letterari diversi, difformi, coniugando la propria poetica allo studio scientifico, tra l’occulto e l’oggettivo, l’esperienza dell’enigma.
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Carl Schmitt a Ernst Jünger, 25 febbraio 1941
Caro Jünger, sono stato molto felice di ascoltarla. Sua moglie mi ha scritto qualche giorno fa: attendo marzo per incontrarla. Le invio il Benito Cerano di Melville. Purtroppo, non riesco a trovare Moby Dick. Spero di acquistare presto Billy Budd. Sono sopraffatto dall’involontario simbolismo di questa situazione…
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Ernst Jünger a Carl Schmitt, 3 marzo 1941
Caro Staatsrat! Ho ordinato tutti i libri di Melville e te li donerò se me ne invierai altri. Ho sentito dal mio fornitore di libri che Moby Dick è attualmente introvabile. Ho letto Billy Budd anni fa. Egli è un chiamato, un uomo braccato da chi – un malvagio superiore che lo tratta da subordinato – vuole distruggerlo…
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Carl Schmitt a Ernst Jünger, 4 luglio 1941
Sarei estremamente felice di incontrati al Ritz, a Parigi, caro Jünger, e bere una bottiglia di vino con te. Il desiderio di tali piaceri levita: il vino e gli amici diventano cose rare. Ho letto il libro di Giono su Melville. L’inizio è bellissimo: si resta deliziati dall’arte paesaggistica francese, che fa vedere tutto, subito. Poi si toccano i temi centrali e il libro risulta effeminato, altero, anodino. Questa miscela di anarchismo e di sensualità mi disgusta. Melville è ridotto a un autore kitsch, anche se la sua impareggiabile grandezza sta nel creare una situazione oggettiva, elementare, concreta. Benito Cerano è più grande dei russi e degli altri scrittori dell’Ottocento; anche Poe si ritrae, al suo cospetto. Moby Dick, poi, come epopea dei mari, può essere paragonato soltanto all’Odissea. Soltanto Melville, intendo, è in grado di rendere palpabile, presente il mare come elemento. Un argomento decisivo per i nostri tempi…
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Ernst Jünger a Carl Schmitt, 28 agosto 1941
…Sto ancora leggendo Moby Dick. Il romanzo ha un carisma effettivamente cosmico. Ricordo spesso la frase, “e Leviatano suona”, credo sia di Klopstock. Capisco l’interesse del mondo economico per questo maestoso animale: egli è il distruttore. Il misero demoniaco gioca un ruolo nella vita, diventa visibile tra i fuochi fiochi delle caldaie nutrite a olio di spermaceti. Non posso essere d’accordo sul giudizio che dai di Poe rispetto a Melville. Poe è e resta il grande maestro, che dipinge i contorni e la matematica di mondi pericolosi. Si irradia in molteplici direzioni – tocca questa, ad esempio, in Maelström, Gordon Pym e nella sua cosmografia.
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Carl Schmitt a Ernst Jünger, 17 settembre 1941
…Se riusciamo a incontrarci vorrei spiegarvi il mio punto di vista su Melville. Non volevo sminuire Poe. Penso che Benito Cerano sia il simbolo di una situazione, ed è argomento inesauribile. Moby Dick è disponibile in francese?
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Ernst Jünger a Carl Schmitt, 8 aprile 1943
Caro Schmitt, le tue lettere del 16 e del 21 marzo mi sono giunte. Voglio ringraziare te e la tua cara moglie per i cordiali auguri di compleanno. La giornata è iniziata simbolicamente: lo Stato, spostando l’orologio in avanti, ha rubato un’ora alla mia vita. In seguito, ho fatto un sogno importante su Eva e la sua progenie. Si adattava all’animo del giorno e si è trasformato nella prima nota che ho scritto all’inizio del nuovo anno della mia vita. Il primo a farmi gli auguri è stato il generale Hans Speidel: mi ha telefonato da Poltava.  Mi affascina la connessione di immagini tra Poe e Melville, nel tuo sogno – mentre Poe osserva come individuo, Melville ha uno sguardo politico e sociale. Unendoli, raggiungiamo il carattere di un uomo contro la cabala dei cospiratori.

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Si premia di qui si premia di là si premia nell’al di là

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Baltimore, 2022 by Miles Cleveland Goodwin (b. 1980)

Quand’era piccino e poi più in avanti con l’età un amico e collega di mio padre, tale Lucioli, toscano di Arezzo lo ricordo con piacere, non mi dava né del tu né del lei, mi chiamava D’Ascola con l’apostrofo che mi pertiene. Chiamava così anche mio padre. Leggendo il Post mi imbatto in questo uso di definire qualcuno con il cognome senza premettere né signor né professor né signora o professora, semplicemente, nel caso che ora dico, D’Adamo con l’apostrofo che le conviene. Ora D’Adamo ha vinto in articulo mortis il premio Strega. Niente da eccepire. L’ha vinto e punto. Evito di passare per uno che spara sui poveri morti. Ma ho letto l’incipit del suo libro vittore, Come d’aria, se sia romanzo non saprei, ma direi che forse con l’aggiunta di verità, romanzo ci sta. Non credo che leggerò per intero il romanzo perché nel mio cervelletto si è accesa la domanda, da subito senza oscillare per sbalzi di tensione, la lampadina anzi due, che cosa si è premiato… che cosa si premia. Chiaro che un premio è sempre frutto di mille mediazioni nel brodo ristretto della commissione, facile che sia fatto di, Questo verbale non lo firmo, piuttosto che, Non vi rendete conto. Ma è ovvio,  si trova lì per premiare e alla fine la commissione premia. A che cosa serve premiare non lo so, a volte al marketing, così a ruota dallo scritto si passa al film. Se poi il film è mediocre, vedi vedi Le otto montagne, un’ombra ti passa per la testa a domandarti, Sarà mica così anche il romanzo. In più, lo dico con competenza, quando c’è di mezzo l’autobiografica sono sicuro che dio ci scampi e liberi : non è letteratura. Immaginati se Flaubert avesse fatto dell’autobiografica benché avesse esclamato un dì , pare, che, Madame Bovary c’est moi. In tempi in cui l’inglese non dominava con parole scollate dalla testa, come transgender o sigle come LGBTQ, beh, è ovvio che Flaubert non alluse a proprie operazioni di mutazione forzata. Flaubert fu Flaubert è basta. Signor o Signora o o o o + poco importa. Aggiungo che dove si dice IO la letteratura inciampa sul nascer e quasi sempre casca e batte il culetto, ma il dolore per osmosi passa al lettore. Che cos’è la letteratura. È ovviamente difficile definirla senza cascare a propria volta nell’ipse dixit ma in generale e per pratica antica si può forse dire che la letteratura, o l’arte in genere iniziano (riguardati Vicky Cristina Barcelona o il Sogno di Costantino di Piero della Francesca, ad Arezzo appunto; leggiti Voyage au bout de la nuit di Céline) là dove si depone all’ingresso l’io (sono, faccio, disfo, dico scrivo. Nessun pittore ha mai dipinto in prima persona e Becket non  conosceva Godot, l’io narrante è un fantasma). Questa qui che ascolti, se mi ascolti, del resto non è letteratura, se mai aforistica. Immaginati se Tolstoij avesse cominciato Guerra e Pace con, IO ero ad Austerlitz invece di principiarlo con la nota conversazione in salotto e in francese : da deporre subito il libro sul comodino e lasciarcelo. Ma oggi, e in Italia e nel mondo, dove imperversano i biopic, sempre più si insegue il mito del vero, del personale, del vissuto, come se questo fosse una garanzia, un sigillo DOCG posto… pensa che nessuno degli evangelisti visse al tempo di Gesù e che Giovanni non vide l’Apocalisse se non con gli occhi della letteratura… Non mi piace l’apocalisse, mi dici. Benedetto questa è un’altra storia, replico. L’interesse che suscita la letteratura è dato dal non essere reale che in un’altra realtà. Di essere un’altra realtà, indipendente e sovrana se mai delle tue emozioni se proprio vuoi provarle. Ma un libro non è fatto, non vuole, non deve nemmeno emozionare. L’emozione lasciala ai baci perugina o a va dove ti porta il cuore. Il libro è un paese delle meraviglie, metafora generale sul che cos’è la letteratura con cui può essere letto l’Alice in Wonderland. Non la faccio lunga, ti lascio raccomandandoti di leggere A sangue freddo – in Cold Blood – romanzo-verità di Truman Capote che non fece l’esperienza personale di essere ucciso a Holcomb-Arkansas-USA.
Per tuo diletto ne trascrivo qui l’incipit. Evito i confronti (l’incipit di D’Adamo lo trovi nel Post) Ci fai le tue riflessioni.

The Last to See Them Alive

The village of Holcomb stands on the high wheat plains of western Kansas, a lonesome area that other Kansans call “out there.” Some seventy miles east of the Colorado border, the countryside, with its hard blue skies and desert-clear air, has an atmosphere that is rather more Far West than Middle West. The local accent is barbed with a prairie twang, a ranch-hand nasalness, and the men, many of them, wear narrow frontier trousers, Stetsons, and high-heeled boots with pointed toes. The land is flat, and the views are awesomely extensive; horses, herds of cattle, a white cluster of grain elevators rising as gracefully as Greek temples are visible long before a traveler reaches them.

Holcomb, too, can be seen from great distances. Not that there is much to see–simply an aimless congregation of buildings divided in the center by the main-line tracks of the Santa Fe Railroad, a haphazard hamlet bounded on the south by a brown stretch of the Arkansas (pronounced “Ar-kan-sas”) River, on the north by a highway, Route 50, and on the east and west by prairie lands and wheat fields. After rain, or when snowfalls thaw, the streets, unnamed, unshaded, unpaved, turn from the thickest dust into the direst mud. At one end of the town stands a stark old stucco structure, the roof of which supports an electric sign–DANCE–but the dancing has ceased and the advertisement has been dark for several years. Nearby is another building with an irrelevant sign, this one in flaking gold on a dirty window–HOLCOMB BANK. The bank closed in 1933, and its former counting rooms have been converted into apartments. It is one of the town’s two “apartment houses,” the second being a ramshackle mansion known, because a good part of the local school’s faculty lives there, as the Teacherage. But the majority of Holcomb’s homes are one-story frame affairs, with front porches…

in T. Capote In cold blood – Penguin Random House-Canada

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L’ElzeMìro di Martedì 27 Giugno

Fablìole – Monsieur Quandmême

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http://www.gliamantideilibri.it/?p=79442

in  http://www.gliamantideilibri.it a cura di Barbara Bottazzi

BAMANTI
Desideria Guicciardini-L’Elzemiro alla sua tastiera
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