Rivoluzioni indispensabili, indisponibili, indisponenti.

Parto da lontano. Nella prefazione al volume Modernità liquida di Zygmunt Bauman, mi imbatto in alcuni frammenti tematici, la rincorsa alla felicità è solo un episodio e non un balzo in avanti irreversibile e irrevocabile; nell’ambito di una comunità le persone tendono a prendere decisioni che non mirano solo al profitto; nel gergo degli adepti della chiesa della crescita economica orami diffusa su tutto il pianeta migliorare la vita significa consumare di più; più si riempiono gli scaffali dei negozi che attendono di essere svuotati dai cercatori di felicità più si svuota la terra.

Sul giornaliero Repubblica, in un panegirico firmato CdG leggo di una scrittrice, con il difetto di pubblicare senza vergogna presso uno dei tanti editori del padrone unico, che scrive una storia teatrale, un po’ come il romanzo teatrale di Bulgakov, da leggersi volendo, storia nella quale il teatro fa da argomento ed è un teatro povero che si arricchisce e svanisce. Storia di ego, credo.

Infine ricordo Jacques Copeau, il maestro che, in teatro, diceva, un filo di ferro con un po’ di carta colorata in cima è un fiore; en octobre 1924, Copeau et sa troupe de jeunes passionnés s’établissent au Château de Morteuil à Merceuil, village à quelques kilomètres de Beaune. Le metteur en scène souhaite retrouver en province, auprès d’un « public moins frivole, moins distrait, moins surmené de plaisirs, moins énervé par les variations constantes de la mode, moins détraqué dans son goût et moins affolé dans son jugement que le public de Paris », une authenticité de l’art de la scène. Pour Laferté, ce retour à la terre, cet intérêt pour l’art populaire, s’inscrit dans un « discours valorisant une pureté des mondes paysans, des mondes les plus éloignés de l’urbain industrialisé » plus général dans les arts du début du XX siècle. La citazione è da Wikipèdia, in francese, perché delle edizioni italiane non mi fido.

Tra pubblico e privato occorre scegliere il nulla. Il problema si pone per le generazioni di giovani, diseredate prima ancora d’esserci, il cui mondo, più a parte si pone e si conserva, più ha qualche probabilità di salvare sé stesso e il mondo, visto che in dubbio è di esso anche la sopravvivenza o, perlomeno, di crearsi una nicchia di esistenza semplice, la semplicità è l’obbiettivo di una vita ma quant’è difficile, scrisse Jung da qualche parte dove che non ricordo, non compromessa con i miti del nostro tempo, mercato, produzione senza raccolto, pareggio di bilancio totem, quest’ultimo, che rappresenta nell’immaginario capitalista, l’epitome della buona amministrazione. Il pareggio di bilancio non esiste se spendi quanto puoi. Nel momento in cui agisci divertendo le tue abilità e i tuoi motivi, in anticipo su quello che non c’è, improvvisando, allora vivi nella convinzione di dover fare il buon amministratore, cioè uno che vive per rincorrere ciò che gli sfugge via, il denaro ma non solo. Tutti ricordano il paradosso di Achille e della tartaruga.

Teatro; il teatro è pubblico o non è teatro; tra vendere un maglione, uno straccio, un abito di sartoria, una mutanda o uno di quegli spettacoli biodegradabili che gli uomini marketing, onnipresenti, chiamano miusicol, non c’è nessuna differenza, se non etica; vendere mutande è necessario, almeno per chi le indossa, fabbricarle anche, chi vende è un mercante, chi fabbrica un operaio, in mezzo ci sta l’incomodo, l’imprenditore e la schiera dei suoi bravi co’l zuffo, i già citati e le pattuglie degli aedi e laudatores tutti co’l zuffo, se ne vedono molti in giro da tempo. Ora se un uomo è capace di seminare e far nascere cipolle, le venderà e se il prezzo del suo lavoro è stimabile guadagnerà abbastanza, poco di sicuro, per viverci; ma in cambio troverà qualcuno che fabbrica mutande alle stesse condizioni, l’equilibrio dovrebbe essere garantito o perlomeno, raggiungibile. È, a mio modo di vedere, il principio di una società di mutuo affetto, dalla quale il principio di profitto è ridotto al minimo etico, ma non soppresso, è relazione in sé e per sé. Che cosa succede se l’uomo delle cipolle si mette in testa per puro sfizio di produrne di più e non le vende, o d’ingrandirsi e dalle cipolle passare al fast food; ecco, domandarsi questo e guardarsi intorno, esclude, implicandola, la risposta; essa è sotto gli occhi di tutti quanti vogliano vedere. Questo dipende a mio avviso e sono di un avviso intransigente, da un fattore diverso da quello che uno potrebbe immaginarsi per concludere questo paragrafo, il fattore ignoranza. Mettersi in testa di fondare una fabbrica di mutande invece di tricotarle è la perversione; fai quello che sai, se sai fare soldi, cioè niente dovrebbero metterti alla porta di qualsiasi società, non dico giusta, ma in equilibrio. Semplifico, lo so, rischio lo strale ma poco me ne cale, le semplificazioni hanno il difetto di essere accattivanti ma rischio di mio.

Io non credo che il teatro serva ad altro che a fare pedagogia, in ognuno dei modi con cui può manifestarsi e sono tanti. Chi facesse teatro dovrebbe pensare a questo, restando esso un mestiere, un’attività per giovani. L’ho già scritto, mi pare in chiaro. Pubblico, privato, nonsense. Il teatro come le cipolle per chi le semina e coltiva è pubblico quando e se è accessibile a chi vivendo d’altro ne acquista con una metodica molto simile allo scambio senza profitto, baratto. Attenzione perché la gioia che deriva dal denaro non è fondata sulla possibilità che esso determina di acquistare senza meritare e senza avere bisogno; dividendo le persone e trattenendole con la forza di qua dal confine tra chi ha e chi non ha,  esso è potere, greed è la parola, furore e avidità di potere; l’oggetto è escluso da ogni transazione, capitalistica, l’oggetto, se così si può chiamare è unico, potere, target, bersaglio e, come tale, presupposto di una guerra qualsiasi.

Teatro; il teatro o si esclude da tutto questo, o non è tale, una fabbrica di mutande da cui gli operai sono seclusi, chi parla della ferrari parla non dei meccanici ma di un uometto co’l zuffo e che a casa forse non sa girare una vite e non a caso di teatro vogliono impicciarsi ingegneri, affaristi, che mestiere sarà mai l’affarista, e i sempiterni uomini marketing. Ogni umorismo tra questo e il termine marchetta è luogo comune dunque da tenere alla larga.

Teatro; dev’essere piccolo ma non più il Piccolo Teatro, rivoluzione arresa all’istituzione, non più permanente ma immanente, un incubo surgelato nell’attimo stesso in cui avrebbe potuto continuare a levare la propria sua voce per dire e non dice niente; i cui scopi, 1947, furono gli stessi, nacque come teatro di piccola città distrutta dalla guerra, teatro di comunità benché condotto al trionfo da una coppia di Narcisi egocentrici volonterosi e sociali, scopi simili allora, 1947, negli intenti e negli stenti, a quelli del teatro di villaggio, per così dire, di oggi. Come fare perché le cose non si degradino e muoiano sotto il loro stesso peso è la domanda la cui risposta potrebbe essere mangiare poco e bene e con giudizio. Ora se il teatro è ancora possibile, cosa che non credo per le ragioni di Baumann e che credo possibile per le stesse ragioni, mi pare che la sua strada sia ancora quella indicata da Copeau; se i giovani attori volessero fare teatro dovrebbero rinunciare all’ambizione di specchiarsi e trovarsi belli, rinunciare eticamente alla televisione, ombra del potere, scegliere il lavoro, umile no, non è la parola adatta, il lavoro bello e quotidiano, che come tale è attività tipica dell’umano e che per tale andrebbe rispettato e compensato in misura atta a vivere bene, lasciando in pace i gatti che il non lavoro hanno trasformato in attività frenetica e ce lo insegnano; la rivoluzione silenziosa, evangelica senza dèi, è fondare tanti piccoli teatri in ogni piccolo paese d’Italia, non chiedere sovvenzioni comunali, forma divertita di corruzione, vivere da soli, facendo del paese in cui vivono, il teatro delle loro azioni; trasformando in attori il ferramenta, il fornaio, il benzinaio, ma sono tutti arabi dicono i legaioli e i pensionati di lusso con il borsello, bene, meglio dico io, imparando da loro, la lingua per esempio e insegnando quello che loro non sanno. Teatro è scambio, di battute prima di tutto, e luogo di scambio. È una forma di letteratura corale. Epica. Politica. Incontro di boxe senza guanti e senza mani. Oggi non si può più non essere, almeno un po’, comunisti. Comunisti senza questo nome, buoni tra buoni, intransigenti con i cattivi. Resta da vedere come classificare gli uni e gli altri con certezza. Bingo.

About dascola

P.E.G. D’Ascola ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: "Le rovine di Violetta", "Idillio d’amore tra pastori", riscrittura di "Beggar’s opera"di John Gay, "Auto sacramental" e "Il Circo delle fanciulle". Sue due raccolte di racconti, "Bambino Arturo e il suo vofabulario immaginario"" e "I 25 racconti della signorina Conti", i romanzi "Cecchelin e Cyrano" e "Assedio ed Esilio", tradotto questo anche in spagnolo da "Orizzonte atlantico". Nella rivista "Gli amanti dei libri" occupa da molti anni lo spazio quindicinale di racconti essenziali, "L’ElzeMìro".
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