Sotto il tavolo io, intorno al tavolo gli adulti, inconsapevole vedetta io, nel loro spazio scenico gli adulti. Dunque il mio primo punto di vista è di spione; non mi pare sia cambiato nel tempo. La spia è uno che osserva, standosene bene acquattato rileva, registra, immagazzina; di solito non fa il gioco di tutti, nel migliore dei casi gioca per sé stesso, nel peggiore beh, devo precisare che per un certo tempo sono appartenuto al novero dei doppio se non dei triplodʒoˈkisti, capace di scindere ogni giudizio mio da quello dell’altro e di aderirvi; abilità negativa quando, nel tempo, si tratti di costruire una passabile immagine di sé. Per questo attribuisco molta importanza invece a quel primo punto di vista, oscuro o così mi pare ai grandi che, di certo, m’intravedono e fingono sorpresa se, con un balocco in mano, sporgo il capo da sotto il tavolo e dichiaro così il mio particolare interesse per la piega che la loro discussione sta prendendo. Occorre notare che in casa dei miei il transito di amici era continuo, riunioni non di conversazione ma di discussione, differenza deducibile dal tono delle voci, quasi sempre concitato, fino alla veemenza; inoltre, che sto parlando di un essere – come si faccia a definire io quello che siamo stati non so, uso il termine, io, in modo convenzionale come i trattati di pace e le sigle sui bollettini postali – di un me insomma che là sotto il tavolo del tinello aveva tre anni e parlava poco. Ciò che inoltre dico di ricordare è esatto ma disordinato piuttosto che ordinato in una cronologia, come se la memoria fosse una cipolla, tante bucce una dentro e sopra l’altra, ognuna con una consistenza indipendente, più tenera meno tenera, più sottile più spessa. Sarebbe utile sapere che cosa ne sanno le neuroscienze, ma non adesso.
Bruno, al suo primo apparire dal sotto in su nel mio orizzonte mnemonico, è un uomo massiccio, amabile, rozzo, giocoso, capelli duri e irti. Bruno è un inventore e tanto denso di qualità e conoscenze da averne poche, qualcuna o nessuna, come nel romanzo austriaco; peraltro il suo ramo materno fa wassermann. È avvoltolato e legato dentro un lenzuolo, poco men che morto, su una sedia con la seduta capitonné di linoleum verde; Bruno ha bevuto una bottiglia di gin nel tempo di una chiacchiera, poi è scivolato a terra come un gioco di carte, poi gli è stato iniettato qualcosa in una vena, rammento i due particolari, per non farlo morire. Il mattino dopo, la moglie Nuccia di professione sarta, volto già appannato dalle nazionali senza filtro che l’ammazzeranno molti anni dopo, è passata a riprenderselo. È inverno, s’indossano cappotti goffi e pesanti, i bottoni sono enormi. Bruno è imbesuìto. Ecco.
Bruno sa di matematica e di astronomia, costruisce apparati, semplici meccanismi, grandi meccani come un piccolo Newton ma, al contrario di questi, passerà molti anni della sua vita a dimostrare teoremi già dimostrati falsi o peregrini, nella convinzione di essere sempre a un passo dal detenerne la chiave di accesso come se si trattasse di quella del suo armadio stereofonico con trenta altoparlanti, edificato prima che esistano dischi per farlo suonare. Bruno è un uomo che comincia a correre presto e continuerà a correre senza accorgersi di essere deragliato; suo padre è vedovo e macchinista di treni peraltro, insieme vivono nelle case dei ferrovieri lungo la linea che passa da lambrate, fila a venezia e oltre, òpcina belgrado chissà istàmbul, trieste, da cui la famiglia bruno proviene. Non esercita una professione né lavora nel senso virtuoso del verbo Bruno, questo benché abbia fatto il cartografo per il tempo che gli ci è voluto a sciogliere i lacci di una delle sue altre qualità, litigare o sparire e sparire dopo avere derubato il principale, nella convinzione non del tutto campata per aria, che quando si parli di padroni si parli di banditi. Negli intervalli di tempo tra un lavoro smarrito e un altro acquistato con iniziale successo, Bruno è mantenuto dal padre che ha tentato, in un tempo remoto, di farlo esorcizzare dai salesiani a sessioni di avemarie in ginocchio sul sale grosso. Senza risultati, a parte l’infiammazione ai ginocchi. Un giorno Bruno farà molti soldi, vende cuscinetti a sfere, avrà una casa molto grande, pacchiana per dire, che perderà appena nuovi depredati padroni prenderanno a inseguirlo; e un’altra ancora, più grande, appartata e fuori città, una villa liberty con giardino che attrezzerà come un fortilizio per evitare i creditori, a nessuno dei quali mai verrà corrisposto un centesimo del denaro loro tolto o in altro modo dovuto.
Bruno inventerà cose ancora più straordinarie, le uova volanti. Per un’intera mattina m’impegnerà un giorno, nella costruzione di un’opera atta a farle volare. Cascheranno nei piatti sul tavolo della cucina di una casa di vacanze in località pino-confine di stato, provincia di locarno, da cui dista pochi chilometri rispetto a varese, che è lontana, oltre ripetute linee di montagne e a sud, ironia della sorte per qualcosa che si ritiene polare senza essere né circolo né stella. Le uova diventeranno frittata; un disco, non volante, ma disco dopotutto. Bruno potrebbe avere 90 anni.