Il primo fonografo dei miei è una cassetta rivestita di tela beige; ha un piatto di circa quindici centimetri di diametro e un coperchio che funge da cassa armonica per l’unico altoparlante. Mio padre, che non ha alcuna abilità manuale e che imparerà solo dopo anni e con molta fatica a premere il pulsante di accensione di un televisore che, arrivato in casa già vecchio, resterà in casa fino all’ictus finale dei suoi circuiti nativi, farà applicare dal signor zanzi, meccanico di macchine da calcolo e dirimpettaio, una riproduzione su tela, fiori tra i tanti di renoir, sull’ovale del diffusore, nella convinzione che il suono, ovattato, migliori. A quest’apparecchio corrispondono le canzoncine nonsense di renato rascel.
Acquistato a una svendita eccezionale in un negozio di elettrodomestici bric-à-brac tenuto da un uomo immenso che milanesi antichi direbbero brù-brù, un chiacchiera-chiacchiera cioè, senza parentele con l’omonimo passeraceo sub sahariano di abitudini opposte, il nostro primo stereo consiste in due cassette di truciolato, laminato noce; il corpo dell’apparecchio ha un coperchio di plexiglas marrone sotto il quale c’è il piatto di 22 cm. e un braccino di alluminio dall’allure sofisticata. Diamond needles. Agendo sulla manopola left-right si ottiene un suono esile a destra o un suono esile a sinistra. Al suo interno scoprirò un bel giorno che l’apparecchio è quasi vuoto, due diodi, due transistors con alette di raffreddamento, delle resistenze – in serie o in parallelo non so dire, degli anellini colorati ne segnalano le diverse potenze – un trasformatore. A quest’apparecchio corrisponde il concerto per violino di beethoven.
JL appare tardi al mio orizzonte mutato, da sotto il tavolo a un canto di esso dove ora disegno, gli adulti a parte con due poltroncine e il mio divano letto a disposizione per la chiacchiera. Non fa parte del gruppo di amici del tinello JL ma è un isolato nel salottino nella seconda delle due case popolari abitate dalla mia famiglia; non partecipa alle corse giovanili nella notte per andare a vedere l’alba a lugano, tierra prometida di ritorno, è un solitario vegetariano, per molti anni avrà per tutti la stessa età, cioè nessuna, in un corpo abituato a nascondere da solo i segni dell’invecchiamento o a mostrarli con economia, ma JL ha a che fare con i giradischi; per anni e anni e infinite domeniche di cui lui è il protagonista e l’ospite di riguardo assoluto, ci rifornisce di centinaia e centinaia di dischi e infine di uno e poi di un altro impianto hi fi; JL è generoso a oltranza, arrivano il concerto per violino di tchaikovsky e poi bach bartòk beethoven bruch chàvez franck ginastera hindemith ives ligeti mahler N, O poulenc, Q, R strauss T U V Z weill, tutto quello che so di musica, non tanto, non pochissimo. I dischi diventano un migliaio. A occhi chiusi JL piange quasi per tutto quello che ascolta da noi. Ho il sospetto, da subito, che le lacrime siano dovute a qualcosa che la musica rimette in relazione, forse anche in discussione, ma che non è la musica. JL è impermeabile a qualunque indagine, un viaggiatore in incognito cui piace lasciare tale l’incognito. Si sa che suona il violino. La musica a lungo mi seduce ma non mi piacciono i meccanismi che non si possono aprire, per anni mi immaginerò possibile neuro chirurgo; alla stregua della matematica non la vedo maneggiare corpi e, a differenza di quella, non rivela ciò che dice o proprio non dice; alla lunga finirò per non sopportarne il vagheggiato mistero e infine, se capisco il lutto, non capisco perché indossarne in perpetuo l’abito con 4 lieder di strauss come soprabito. Per chi, per me stesso, via no, nietzsche mi direbbe, Décadent. Eppur mi muove la musica e riconosco che per motivi che ancora sfuggono alla mia personale indagine ci sono momenti in cui è indispensabile trovare e ritrovare questo o quel brano, ascoltare o riascoltare, in cerca di che cosa non so ma so che si tratta di una ricerca perché nulla si fa con altro scopo. Ognuno ha la sua piccola frase di vinteuil nella sua memoria filogenètica. Qui comincia per me la strada letteraria. Escrever para compreender dice Saramago il Grande, che cosa comprendere e che cosa si comprende è l’interrogativo in più.
JL parla castigliano con dei ricchi messicani di passaggio alla pasticceria alemagna, locale remoto e consunto come il velluto delle sue poltroncine nate, parrebbe, per accogliere solo sederi impacchettati da madame biki. JL cita a memoria Cervantes, i messicani stupiscono e più che altro non capiscono, sono hidalgos figli di hidalgos, sanno di tittirittittì in esilio e habana club. JL usa senza distinguo francese, italiano, inglese, m’insegnò il tedesco, insegnato a lui, ebreo rumeno nato forse a krakau, dai monaci di non so che collegio. Pajarito è l’immagine più vicina alla sua memoria, un passeretto con il petto orgoglioso e carenato, cioè di pollo, il volto affilato adatto a scivolare nell’aria, occhiali glasant, occhi grigi, capelli bianchi come solo chi è stato biondo riesce ad averne, quando invecchiano. Paradossale, ma sotto una certa luce JL può ricordare Eichmann, di cui è contemporaneo, chiuso nella sua gabbia di vetro, le orecchie appuntite dalle due antenne per la traduzione simultanea; ha un fratello autentico invece ma con nessuna contemporaneità in comune, Lazarus enorme e protervo, un mercante, adatto, più che a vivere, a resuscitare di continuo da gozzoviglie da operetta di cui la moglie condiscendente si lamenta ancora e che a lui, un singhiozzo patologico ricorda, o così sembrerebbe. JL conosce le dosi di mille cocktails, il tango argentino, ha fatto il consulente di cosmetica e il tisiologo in sanatorio, legge lo zohar in ebraico, ha studiato teologia e numismatica, si rimpinza di patate fritte e crème caramel che mia madre gli deve apprestare nelle sue domeniche comandate; può bere litri di vino senza sbandare, è un cortese machista, vive dello stipendio di stato, è dirigente medico nel servizio sanitario nazionale, è severo, deride i colleghi che pensano di fare diagnosi, lui non ne sbaglia una ma non ha mai avuto uno studio privato, m’insegna a bere il punt-e-mes e dice, se vuoi un aperitivo solo punt-e-mes; si apprende da lui che vivere si può vivere in 40 metri quadri foderati non di sughero ma di dischi e migliaia di libri, che il tè solo in porcellane di meissen è tè, si apprende che solo il lusso è indispensabile e segno di parsimonia; cita quindi e parafrasa oscar wilde in questo caso, ma JL cita a memoria tutto; non hai un’idea personale, gli contesta mio padre per più di un litigio, sei solo citazioni; e non è vero, le sue citazioni sono divenute nel tempo tanto sue da non essere separate dai suoi pensieri; continue e puntuali e pertinenti su qualsiasi argomento, esse sono la colonna vertebrale di quello che so; in un caffè di via mac mahon si apprende da lui che essere individui non è né un traguardo né un ambizioso progetto, anzi è impossibile; si è esiti e transiti da un processo a un altro. Scrive tre libri JL, negli ultimi dieci anni della sua vita, in rumeno; gli occorre una macchina speciale con i segni diacritici di quella lingua, la sua di sua madre e suo padre, defunti borghesi di costanza sul mar nero; in biblioteca gli preparo le ricerche sulle porte di ferro del danubio su codreanu e la sua legione, così come di molte malattie anche di quella nazista constato l’apolidìa; i tre romanzi spariscono nei cassetti di una ditta di gas butano che avrebbe dovuto editarli e che forse li fa sparire. JL è nato nel 1906, ottengo l’informazione spiando, spiare è il mio diletto. Mio padre, dolcemente omòfobo – uno dei pochi motivi di mio disaccordo con lui – schernisce JL dietro le quinte per la sua supposta ma lampante omofilìa; il suo tardivo amico, M., che egli tenta di appiccicarmi come comes intellettuale, – del resto in casa mia tutti sono sottoposti a raffinati test di ingresso e non so come mi avrebbe preso mio padre se fossi stato meno che intelligente o un poco meno intelligente di quello che si aspettava a ogni mio passo – è una sirenetta periferica per anziani, oh santa yourcenar, ripete ciò che ascolta e se ne impipa, trasformandolo in sciocchezze; JL lo trova eccezionale ma è solo un modesto squilibrato senza talenti, nemmeno per il suicidio e che occorre andare a trovare ora sì ora no a guardia seconda, lo psichiatrico del policlinico, sbarre alle finestre e letti di contenzione, il male della mente non è meno cavernoso della piaga da decubito. JL considera tradimento la mia defezione dall’eventualità di una tricefala comitiva o dal tentativo di quello che con molta probabilità lui intenderebbe pas de trois quando è solo pas de quoi. A me dà fastidio la confusione tra sessi, possessi e decessi. Per tutto il periodo della sua discesa volontaria in un’agonia oscura, non voglio andare a trovarlo – spesso, negli spioni il limite tra codardia e coraggio estremo è fluttuante, come le virgole – e nel 1990 JL si lascia morire di fame all’ospedale san giuseppe, rifiuta il riso cotto nelle pentole contaminate, così egli dice, da cibi di origine animale, si nega le flebo, rifiuta la frutta si nega e poi perché mangiare bisogna distinguere tra fame e appetito, sono le ultime parole che di lui ricordo. Pajarito. dim. de pájaro. morirse, o quedarse, alguien como un ~ morir con sosiego, sin hacer gestos ni ademanes. Morire con calma senza fare storie né darlo a vedere.
Nasco con credenziali privilegiate dunque e per questo non credo di essere mai stato abbastanza riconoscente al caso e alle intenzioni della banda di persone che mi hanno circondato; forse dovrei o potrei essere e invece sono e basta, non ci si deve concedere il tempo per i condizionali quando il tempo non è più molto; scrivere è l’unico modo che conosco per accorgersi di esistere; si nasce davvero quando, dopo la propria gestazione nella lettura dura intensa continua, si comincia a scrivere, così come da bambini, se si è minimamente accorti, dopo avere a lungo ascoltato si comincia a parlare; più tardi, come le civiltà, in un attimo di distrazione si muore; per questo è indispensabile continuare a scrivere. È un processo faticoso e gioioso insieme, gioioso dacché rivelatore e, per lo stesso motivo e se ci si attrezza con una buon’attitudine alla vigilanza, penoso; le rivelazioni non esibiscono la stessa faccia per la stessa medaglia.