Ho incontrato ieri l’altro delle persone fuori del comune con le quali ci siamo incontrati nel teatro comune dell’intesa tra chi, non ancora conosciuto né conoscendo ancora, con grande emozione, nell’altro sente vibrare l’altro da sè che tocca, accende e attrae. Il più grande tra i grandi, Marcel Proust, stimola nella sua lingua limpida questo blog, non tanto a stargli alla pari, impresa impossibile, ma di quella lingua e di quei pensieri sottoporsi alla benedizione ogni volta che scrivo uno di questi pensierini chiamati post e in questa altra lingua che amo e che è grande benché negletta. L’altro grande è il mio Saramago cui va la mia riconoscenza per essere esistito e avere scritto. Si parlava di grandi dunque, letterati in genere ma il tema di sicuro era un altro. L’interrogazione è sul che cosa fa grande un grande e perché lo si definisce così, ecco la domanda. Credo che fondamentale sia il carico di significati che un grande porta con sé nel suo essere un corpo pensante che trasferisce il proprio essere carne e sangue nel corpo, differente per sostanza ma non per consistenza, che un libro dev’essere, pena la sua estinzione al ruolo di oggetto da ombrellone o di abecedario per analfabeti estetici, forse più che tali. Chi mi conosce sa che sono polemico e intransigente ma poco mi importa: continuerò a distinguere tra letteratura e scrivitura, tra teatro e spettacolazzo, tra cinema e intrattenimento, anche se riconosco che le impossible missions mi divertono. Mi spostano cioè su altre strade, di cui non mi vergogno, ma che che non mi distraggono dalla convinzione che esiste un bene, ma non comune, forse invisibile proprio quando appare, che in genere si chiama arte, parola tanto abusata da richiedere il diniego e il pudore quando si è costretti a richiamarla. Offro invece in lettura un piccolo oggetto poetico di un poeta ormai oscuro quanto lontano nel tempo, tale Alceo. Eccolo qui, per trasmettere a chi legge, in una traduzione azzardata, un poco di corpo e di sangue che, dunque, sia di buon augurio in questo scorcio di mezza estate. Kαλὸς κἀγαθός.
(Antologia palatina, fr. 347)
Τέγγε πλεύμοναϛ οἴνῳ, το γὰρ ἄστρον περιτέλλεται,
ἀ δ’ὢρα χαλέπα, πάντα δὲ δίψαισ’ ὐπὰ καύματοϛ,
ἂχει δ’ὲκ πετάλον ἂδεα τεττιξ (-)
ἂνθει δὲ σκόλυμος, νὒν δὲ γύναικες μιαρώταται
λέπτοι δ’ἂνδρες, επεì (-) κεφάλαν καì γόνα Σείριος
ἂσδει
Bagna di vino i polmoni che l’astro gira e rigira
la stagione assassina, ché tutto è febbre e arsura,
e stride tra gli steli gradita la cicala
è in fiore il cardo, nelle donne il sangue matura
e deboli gli uomini fa Sirio che la testa brucia
e i ginocchi