Ciò che racconta un piccolo naviglio

C’era una volta, e non c’è davvero ragione per cui si possa dubitare che una volta ci sia stato, un piccolo naviglio. È raro e obsoleto che si intenda per naviglio una nave o una barca anche di buone dimensioni, ma in questo caso, la canzoncina che dice esserci stato una volta un piccolo naviglio aveva bisogno di tradursi dal francese navìre, che indica proprio la stessa cosa e con lo stesso numero di sillabe e lo stesso accento al posto giusto, cioè sulla seconda sillaba. Dunque c’era una volta un piccolo naviglio che non sapeva navigare ancora, non perché fosse stato mal costruito, non perché l’equipaggio o il comandante lasciassero a desiderare, quanto a perizia di naviganti; il naviglio non sapeva navigare perché ancora non lo aveva mai fatto o forse anche le barche hanno un’anima e a metterle in acqua non è detto che subito si diano per vinte alla legge di Archimede. Com’è come non è, si racconta che il naviglio partì per un lungo viaggio, nel Mediterraneo è detto ma ci piace immaginare che scambiò per Dardanelli le colonne d’Ercole e il mare tra le terre con l’oceano senza terra, che sempre mare è ma che, anche osservato dalla spiaggia di Balbec con i piedi ben saldi a terra, mai ha un portamento rassicurante, nemmeno per il turista più ottuso e tutto preso dal sentirsi lupo nel suo mare, laggiù sulla terrazza della graziosa trattoria dove di cozze e pesci fritti si ingozza con le mani unte e un’aria da capitano coraggioso, un po’ brillo per il molto vino bianco ghiacciato digerito. Dunque via per l’alto mare senza posa, vento in poppa è l’espressione più consona a raccontare la bellezza di una navigazione aperta e veloce, quanto inconsapevole del fatto che i viveri a bordo, qualcuno, di certo l’errore è umano non del naviglio, qualcuno non li ha stivati per benino, non ha calcolato la durata possibile del viaggio, la rotta, i venti, gli alisei e tutte quelle variabili da cui dipende un viaggio per mare e che per quanto variabili hanno da essere previste quasi fossero certezze; dunque dopo 5, 6, 7 settimane ecco che il cambusiere scopre che la stiva è vuota o quasi; non l’avrà scoperto di colpo ma si può esserne certi, avrà fatto i suoi conti e si sarà detto, Con queste patate e questa carne secca arrivo in fondo al Mediterraneo e li ci si rifornisce. Il fondo però non era ancora in vista, anzi i calcoli lo davano ancora per lontano, tanto lontano da far dubitare che i calcoli dell’ufficiale di rotta fossero mai stati ben calcolati se dopo ben sette settimane, ebbene se dopo tutto quel tempo del Mediterraneo e della sua fine nemmeno si notavano le nuvole che dicono si formino in certi giorni di burrasca proprio sulla cima dei monti intorno, dell’Olimpo per esempio. Così senza viveri e nemmeno la più pallida ombra di certezza di un rapido attracco, in qualche isola vicina, nemmeno da nessuna parte, ecco che in un lampo l’equipaggio decide di ricorrere al vecchio espediente di giocarsi la vita alla paglietta corta. Si  è vista la scena in qualche film, di guerra o  di marineria appunto; il più anziano o il più autorevole sul ponte, magari quello che da giovane ebbe la gamba troncata da una granata, mette insieme un certo numero di stecchi o di pagliuzze o di filìni, quello che c’è, tutti della stessa lunghezza tranne uno. Poi come va a finire è facile da capire. Mentre quell’uno tiene strette nel pugno le pagliuzze, o quello che sono, in modo da nascondere quell’unica corta, tutti i presenti a turno strappano dal mazzo quella che loro capita; è nota la scena di sospiri e sudori terrorizzati e di dita tremanti, corredo di ogni estrazione. Il gioco può durare anche fino a esaurimento delle pagliette o pagliuzze o filìni o stecchini. In ogni modo si sa che a chi tocca il più corto, tocca la sorte più amara, una missione suicida, un compito tanto gravoso quanto impossibile da esaurire, cose del genere. In questo caso il caso giocò a sfavore del più giovane tra i marinai, un mozzo, e il suo compito, se così si può chiamare, la triste bisogna, quella di essere messo arrosto o bollito o comunque cucinato per il resto dell’equipaggio. Sicché mentre il sordido resto affila denti e coltellacci e si intrattiene con il cuoco dissertando su quale sia delle salse la migliore per accompagnare il banchetto e se del giovane sia meglio la frittura o la fricassea, ecco che il mozzo monta ratto in cima all’albero maestro e dalla gabbia di lassù, quel paniere o cestello o semplice pedanina, dall’altezza sul ponte della quale scrutare a fondo i limiti del mondo, cioè del mare visibile, ecco che egli si mette a interrogare il cielo più che il mare o entrambi le immensità; così guardando e interrogando vede lontano un brulichio, un’effervescenza dell’acqua che gli mette subito qualche dubbio motivato; pensa che non si tratti di onde malandrine, pensa a turbolenze delle profondità, a melstrom, alle sirene pensa, di cui ha sentito raccontare e che popolano gli incubi degli uomini in mare, come presagi oscuri  e latenti che se si avvereranno o no, sapere non si può e come, nemmeno indovinare. Sicché il ragazzo scende dalle nuvole alla sua gabbia e si mette e pregare, visto che a interrogare non si ottengono risposte né dalla acqua né dal cielo.  Pregare fa lo stesso in genere, ma è noto che rivolgersi al proprio dito o a una coperta o, come si racconta facesse Martìn Lutèro, ai chiodi del proprio cappello o infine solo a sé stessi parlando da soli,  per un po’ produce quell’anestesia o quella calma dolce che tutte le ripetizioni dello stesso atto inducono. Così tra quei pensieri rudimentali e quelle più rudimentali parole, immaginiamo quali, Oh santa vergine mia buona madre, signora e padrona del mio cuore, aiutami e impedisci a quelli laggiù che mi mangino, oltretutto sono magro e ossuto, nemmeno buono per il brodo ohé ohé. Eccolo lì il risultato da vedere, un miracolo  messo in atto dalla buona volontà della signora, con molta maggiore certezza dall’inattendibilità del caso o dalla volontà creatrice del ragazzo, perché noi non sappiamo che cosa, che forze, dèmoni o dèi, può scatenare la paura e il termine di ogni speranza, ovvero di ogni illusione. Così ecco che migliaia di pesci, vivi e vegeti e salterìni schizzano fuori dall’acqua sul ponte della nave inondandolo con il loro fervore suicida. Si agitano e boccheggiano i pesci senza mezzi per respirare, simili a epilettici stupiti, poi si assopiscono e muoiono. Non c’è che da pigliarli sventrarli e voilà buttarli a friggere nello strutto, di cui è evidente non essersi esaurito del tutto l’ultimo barile. Così per una volta il giovane mozzo fu salvo e se questa storia ha un che di divertente, canta la canzone, bene da capo la ricominciamo, canta la canzone.

Ma noi che divertimento addosso non le troviamo, su di lei buttiamo il nostro sale e la mangiamo, così da non scordarla più.

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About dascola

P.E.G. D’Ascola ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: "Le rovine di Violetta", "Idillio d’amore tra pastori", riscrittura di "Beggar’s opera"di John Gay, "Auto sacramental" e "Il Circo delle fanciulle". Sue due raccolte di racconti, "Bambino Arturo e il suo vofabulario immaginario"" e "I 25 racconti della signorina Conti", i romanzi "Cecchelin e Cyrano" e "Assedio ed Esilio", tradotto questo anche in spagnolo da "Orizzonte atlantico". Nella rivista "Gli amanti dei libri" occupa da molti anni lo spazio quindicinale di racconti essenziali, "L’ElzeMìro".
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8 Responses to Ciò che racconta un piccolo naviglio

  1. teresa pelliccia says:

    …anche questo letto una sola volta e tutto d’un fiato! delizioso! bravo Pas t

    ________________________________ Da: Pasquale D’Ascola A: tetsit@yahoo.it Inviato: Domenica 21 Luglio 2013 15:37 Oggetto: [New post] Ciò che racconta un piccolo naviglio

    dascola posted: “C’era una volta, e non c’è davvero ragione per cui si possa dubitare che una volta ci sia stato, un piccolo naviglio. È raro e obsoleto che si intenda per naviglio una nave o una barca anche di buone dimensioni, ma in questo caso, la canzoncina che dice e”

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    • dascola says:

      Ecco vedi Tetsit uno scrittore, ruolo che forse mi arrogo il diritto di esercitare, ha bisogno di riscontri; è impossibile, almeno per me, non voler sapere che cosa succede a chi legge; anche se scrive per sè stesso chi scrive sa che scrive per qualcuno che da qualche parte lo ascolterà; un’anima in sintonia c’è. Baci e commenta

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  2. Hai colto perfettamente lo spirito laico del mio commento. Grazie a te per la tua riflessione.

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    • dascola says:

      Caro Beppe, ieri riflettevo su un motto di Nietzsche che non saprei ritrovare, forse da Umano troppo Umano. Più o meno afferma che un uomo sta in piedi anche se è stanco, che non si appoggia ai muri, ai sostegni nemmeno in treno. Insomma stringe i denti e va, per parafrasare il titolo italiano di vecchio film con Hackman e la Bergen. Di là da qualsiasi malinteso eroico il mio scomparso amico Toni Comello di sé, ateo come me e come Leopardi e tanti altri, come la Hack e chissà chi ancora, diceva:”la gente in genere non capisce il fegato e il carattere che ci vuole a vivere senza appigli e maniglie e protesi e bretelle e grucce”.

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      • Non so “vivere senza appigli e maniglie e bretelle e grucce” sia un riferimento vero o figurato.
        Quel che so è che si fa sempre più fatica a vivere contando solo sulla propria volontatà e capacità, senza appartenere a gruppi di potere o amicizie altolocate. Si fa fatica, ma si è davvero liberi.

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      • dascola says:

        Figurato sì. Per il resto che dire. A volte il mondo sembra, e forse è, un complotto per rendere infelice, a volte impossibile, la vita di chi ha sé su cui contare. Basta aver pagato le tasse una volta per capire che qui non alludo a concetti filosofici ma al continuo violento attacco alla dignità della persona di chi lo Stato ha occupato oltre vent’anni fa, qui e altrove, e che se lo sta svendendo e utilizzando come registratore di cassa dei propri malaffari. L’esproprio, un tempo sogno proletario, da tempo è diventato spudorata imprenditoria capitalista. Che dire di chi mette la Grecia in saldo per salvare i principi dell’economia di mercato. Di figuri come Marchionne che dire, che dire degli altri. Chi si dà fuoco o si getta dalla finestra è un santo o un eroe o più banalmente uno cui la propria morte pare una bella speranza. Forse l’errore è nel suicidio. Non è da escludere che qualcuno riscopra nell’omicidio una delle belle arti. Più che liberi quando liberati, è la domanda che interroga chiunque di noi. Non è così?

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  3. …e così, quando ogni speranza sembra perduta, qualcosa appare all’orizzonte a riaccenderla. Quando tutto va per il meglio, il bisogno di speranza è sopito, mai sepolto. Vive, nascosto in un angolo recondito del cuore, pronto al risveglio nel momento del bisogno, quando non resta che sperare in un presente e in un futuro migliore. Concetto troppe volte scritto ed evocato, come fosse frase fatta. Se invece non se ne abusa, se ne riscopre tutta la forza e il significato. Perchè, insieme alla dignità, la speranza nutre l’essere umano.

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    • dascola says:

      Sai Monicelli, diceva che la speranza era un dono della chiesa per tenere le menti nel bagno-maria di un domani provvideziale. Però come dici tu bene, quando le cose si mettono o sono già al peggio alimentarsi con la fiamma del ce la farò, perchè mai non dovrei farcela, ho passato momenti peggiori dopotutto, e l’inverno non dura certo in eterno, e bè aiuta a sopravvivere e a farsi la barba tutte le mattine anche se non se ne ha più voglia, sì. Grazie Beppe.

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