Suona nelle orecchie di tutti la parola galera, evocata a stampa e a voce o come è possibile. S’ode a destra uno squillo di tomba, a sinistra risponde una squillo insomma, e pare un sinistro mantra fatto di un solo termine ricco di storia quanto di infami ricordi. Le galere veneziane, le galere delle maestà cattoliche, alias gli Absburgo di Spagna, la galera promessa e forse mai mantenuta per i bravi che tormentavano il ducato del Milan, nelle grida e nei bandi di minaccia iterata e dunque inefficace secondo Alessandro Manzoni, dei governatori spagnoli. Arrivati gli Absburgo d’Austria, scomparvero i bravi. Ebbene nella galere si marciva, alla lettera, legati ai remi, o a un muro, promiscui fino all’infimo, dannati più che condannati. Questo evoca il termine galera; chi non ci crede vada a rivisitarsi la storia, disciplina così negletta oggi quanto vasto è il suo campo e faticose le sue indagini. Galera ricorda a tutti che siamo sadici, almeno in parte, oltre che belve gli uni con gli altri. Ricorda che di questo ci vantiamo, che al nemico auguriamo l’inferno di Dante, ricorda la peggiore idolatria cristiana per la punizione che traveste di sé il regolamento di conti, ricorda che ci scordiamo che Nous sommes tous des assassins,- Andre Cayatte, 1952 – e che dipende solo dalle circostanze il modo in cui questa propensione trova ora motivo, ora sfogo ora giustificazione; più spesso freno, per fortuna. Ricordarsi di Monsieur Verdoux, l’ometto di Chaplin che dice, Un omicidio è delinquenza, un milione eroismo, il numero legalizza, prima di concludere la propria parabola con un merci al boia che gli offre del rhum, aiuterebbe a capire che c’è qualcosa di marcio nel modo di intendere il giudizio sul misfatto, quale esso sia. Ma che tte lo dico a ‘ffà, chi si ricorda di Chaplin è la domanda cui rispondere non so, egualmente proseguo. Con galera si designa in questi gironi, non è un lapsus né un refuso, il luogo dove ci si aspetta venga rinchiuso qualcuno, E che si butti la chiave molti penseranno, che è l’esatto contrario di Chaplin, gigante a dispetto della propria altezza, qualcuno che della propria bassezza ha fatto statura; un ometto vero, un noto capobanda, anche di musica sentimentale e con i capelli ma non altrettanto senso del ridicolo incollati in testa, il piccolo jocker di Monzabrianza. Faccio fatica a chiamarlo uomo quello, ne detesta il fascismo genetico il mio cuore mentale che ha un solo atrio ed è il sinistro; i miei 128 followers lo avranno bene inteso e se qualcuno non l’ha capito ancora, è bene si svegli e mi onori togliendomi l’onere del suo saluto. Faccio fatica a vederne, di colui, altro che male, ma non riesco a giustificare la voluttà con cui si stampa e si sillaba per lui la parola ga-le-ra. C’è il sadico secondo me che affiora sulle lingue e riempie le bocche di piacere filisteo, c’è l’inquisitore di più turpe memoria, c’è il diavolo cattolico con forca e forcone. Non mi piace. Le parole hanno corpo sono il nostro corpo e vorrebbero essere affrontate con attenzione, se non con prudenza. Il vocabolario non è mai un catalogo, ma uno scrigno di delicatezze, infatti, Voce dal sen fuggita/Poi richiamar non vale;/Non si trattien lo strale/Quando dall’arco uscì. Parola fuggita dal seno, da muscoli e sangue insomma. Pietro Metastasio – Ipermestra, Atto II, scena I – la sapeva lunga. Non sono un fautore della prassi italica di alleggerire i termini, non vedente per cieco, prodotto postale per lettera e altre risibili iniziative buro-linguistiche, non preferisco a galera prigione, né l’ineffabile casa circondariale appeso fuori le mura dei pii alberghi di detenzione. Penso però che la vicenda giullaresca dell’omino di tolla potrebbe indurre alla tentazione di rivedere per i più, per i meno fortunati, per i più disgraziati, per il proletariato della delinquenza, i giudizi sul giudizio, sul delitto e sulla pena che insiste e si affanna a essere tale, ma di più, più di pena, più di esclusione e reclusione, tortura, una tortura non sempre blanda, soltanto a guardar gli edifici adatti alla pratica con cui la comunità, lo stato, decide di essere nel giusto, ripeto dannando più che condannando, a uno stupro consumato a rate e con il placet e il conforto di una legge scritta a tale scopo: per avvilire, annientare, vivisezionare l’individuo. Si rifletta se il campo non è che l’estensione massima di un concetto angusto. Se l’Arbeit macht frei di Auschwitz è lo sberleffo inciso nel cuore di chiunque eserciti il diritto all’esecuzione delle leggi. Lo sbirro è benedetto in questo caso, ma non solo, quanto il delinquente che si crede dio, questo o quello per me pari sono. Non sono così sciocco da pensare che l’uomo sia buono di natura, non è sempre così perlomeno, forse nemmeno il contrario, ammazzo le zanzare anch’io anche se riconosco l’inutilità e la prosopopea del gesto, suvvia sono più di noi e meno pericolose. So che esistono, come diceva la mia prima psicanalista i ciula e i carogna, gli stolti e gli squali, o caimani. Lo so, l’ho provato sulla mia pelle, lo provo tutti i giorni, chiunque lavori o debba frequentare gli umani, prima o poi se ne rende conto. So anche che all’occorrenza, potrei uccidere io stesso animali più grossi di un tafano, o a compiere atti o gesti riprovevoli a scopo di difesa, per esempio, di chi amo o anche no, solo per difendere un principio, me stesso. Ho sempre pensato che gran parte della nostra esistenza individuale si svolga in una trincea, pronti allo zufolo dell’assalto e al grido avanti. Uffa. Proprio per questo penso che la vicenda di quell’ometto dovrebbe far pensare a come sarebbe bello costringerlo sì, ma non alla galera, anche a lavori utili alla comunità perché no, e non con l’intenzione di togliergli dignità, che è lo scopo preciso della pena che, la si giri come si vuole, è vendetta, ma di restituirgliela quale egli l’ha scordata, la propria e l’altrui, all’atto di farsi strada nel mondo; educarlo a sentire l’odore del propri calzini, finalmente, dopo tanti anni di biancheria abbandonata da lavare agli altri senza vederli, senza intenderne altro che il ruolo di comparse nel proprio teatrino narcisistico; senza capire che il potere se c’è è meglio smascherarlo, che la vita non è un west da conquistare ma un dono o una iattura eguale da condividere, ciascuno a suo modo. Anche a quella tarda età immagino che si dovrebbe costringere lui e i tipi come lui, a frequentare la valentìa di capaci psicoanalisti, rigorosamente maschi, adulti e non consenzienti, che lo stringessero con manette più robuste del vanadio, quelle della realtà. Non per farsi curare, non credo sia possibile in soggetti siffatti ma per indurre senza limiti di tempo alla riflessione sulla pochezza di ciò che le mutande pietosamente raccolgono, finché dura, e che spesso non è nemmeno duro.
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chapeau a te. E a tutti noi, “y…?”
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Dirò con chaplin, merci madame.
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«manette più robuste del vanadio, quelle della realtà»
sei troppo bravo a scrivere, buon Pasquale, così bravo che quasi il tuo stile mi attrae anche oltre il contenuto
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È bello ritrovarsi nella stessa rete diegod56; il commento mi lusinga certo; tu sai che lo stile letterario come di ogni letteratura che tale sia, si presta al punto di vista, più che all’ambiguo; non è mai un ipse dixit nemmeno quando così sembra. Tu conosci Nietzsche e sai che cosa intendo del resto; ti dirò peraltro che non sono mai riuscito a vedere i Promessi Sposi, nonostante le iterate letture, con occhiali cattolici. Ti saluto con molta cordialità e con la riconsocenza dovuta a chi mi legge il sei di agosto. Chapeau al lettore et merci.
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