Sabato 10 agosto, ore 12, un fantasma sta appollaiato su un trespolo di un McDonald’s et pourtant c’est un homme. Indossa una canottiera aperta e molle, slembata dalle ascelle fino ai fianchi a mettere in mostra un tatuaggio continuo fatto di teschi, teschi e teschi. Egli mangia la sua carne fatta burger, non si esclude la propria, tra le due apposite fette di pane piuma.
Rifuggo dalla giornalistica quotidiana e settimanale da anni, per non gettare al vento 90 euro al mese e non perpetrare il rito del bacio alla tonaca della notizia che ogni giorno officia e rinnova l’eucaristia dell’informazione. Mi limito a guardare e riguardare in rete gli strilli, così sempre molto bene strillati. L’abate Dinouart -1716/1786 – osservante della legge ecclesiastica benché messo in difficoltà nel 1750 dal suo Triomphe du sexe, ouvrage dans lequel on démontre que les femmes sont en tout égales aux hommes: on y examine les avantages de leur commerce, et quel doit être l’amour réciproque des deux sexes – ebbe a scrivere che, si deve smettere di tacere solo quando si ha qualche cosa da dire che valga più del silenzio. È perlomeno singolare far fatica a leggere, di quotidiano, qualcosa che non sporchi; quando questo accada, ci si rallegra. Così apprendo che Adriano Celentano, scrive a un tale che riceverà una paga fastosa per dirigere il porto di Venezia o qualcosa del genere, gli scrive cara autorità; questo incipit mette di buon umore, cara autorità stai distruggendo Venezia. A furia di passaggi di mastodonti marini, seguita, e argomenta A.C. e conclude a modo suo. Quanta acqua sollevi la chiglia di un aggeggio da forse 70.000 tonnellate e quanta spinta eserciti sulle palafitte di Venezia tutta quell’acqua, penso che anche un bambino lo capirebbe giocando nella vasca da bagno con una papera di plastica, ammesso che ci sia ancora qualche bambino che gioca nella vasca da bagno prendendosi il tempo che gli compete. Ma alla stregua degli alonsi e degli herrera del ducato di Milano, le autorità portuali sembrano ignorare i dati che provengono da una vasca da bagno, preferendo inseguire quelli della loro fantasia malata del progresso costruito sul luccichio e la devastazione e, chissà chi lo sa, sulle buste gonfie di dollari che loro passeranno gli armatori di bastimenti impavesati. Ebbene a Venezia, alcuni cultori del bagno nella vasca hanno attaccato a ragione l’autorità, inscenando cortei contro il permesso di passaggio di tali navigli e contro l’idea ancora più folle di scavare un canale in più in laguna. Preciso che non me ne intendo di canali né voglio intendermene, mi pare che il progresso passi da troppo tempo come un’orda unna e, per me, la laguna di Venezia è e deve restare lo specchio silenzioso e caldo d’estate e il ghiacciolo blu d’inverno che conosco. Preciso che, dei si può fare, delle ragioni tecniche, delle dimostrazioni di pii ingegneri volte a garantire, crocifisso e regolo alla mano, che nulla può accadere alla città, frankly, come Rhett Butler delle lagne di Scarlet, I don’t give a damm, me ne infischio. Peraltro tutti sappiamo che in una certa notte di tregenda, resse la diga del Vajont ma non il Longarone che le stava di sotto. C’è un momento in cui dovrebbe prevalere il buon senso estetico, il gusto, e la ragione etica, contro gli ingegneri, le calcolosi matematiche, le fatture commerciali e le autorità. Tutti i refrain che hanno portato a devastare nel tempo intere regioni d’Italia, dalla Brianza, alla pianura veneta, dal napoletano alla Sicilia. Una gita alla piana di Agrigento con i suoi texmex sconforta e avvalora la visione del disastro antropologico. La Val di Susa non so dove porti, ma sono portato a dare ragione ai ribelli. Tanto per dire. Dunque ribellione a Venezia. Puntuale è sempre la polizia che si schiera con le chiglie d’oro, con l’autorità o con chi autorità non detiene ma prepotenza e la difende. Si schiera la milizia. Quindi non mi si venga a dire che non è complice. Non me lo si venga a dire. Dell’obbedienza agli ordini me ne infischio. O Himmler aveva ragioni da vendere tra lui e i suoi.
La questione supera in stazza quella di tutte le Regina Claudia del mondo. Far mareggiare queste barcacce in vista del Bovolo Contarini, dei Tetrarchi di porfido rosso, del ponte di legno dell’Accademia, vuol dire rifiutare la storia, l’eredità, la fatica di un’umanità che di sé, ingiurie e disfatte, crolli e guerre, e devastazioni e barbarie superate e infamità, ha voluto nei secoli lasciare l’impronta della propria bella tenacia: sì è vero abbiamo inquisito torturato e conquistato ma anche elevato al cielo, o con maggiore probabilità a noi stessi, preghiere di pietra e di pittura e di carta e di tela, e parole e persino di tessuti Fortuny, che chiedono perdóno, anche quando concederlo sarebbe arduo, di tutte le malefatte mai fatte e inducono a riflettere se sia o no il caso di togliere il condizionante, se, al giudizio di Primo Levi, Se questo è un uomo. Del turismo incrociatore, tutto quell’inchinarsi per affondarsi e affondare segnala il suo, Noi siamo solo presente, acciaio, vetro, aragoste in bellavista, ballerine, naviganti, comici di servizio; noi siamo coloro che sono sospesi sulla linea di Plimsoll, noi siamo quelli che non ce ne frega niente di nulla che non sia la nostra attualistica gentiliana. Siamo all’armi siam fascisti cioè sfascisti. Ché di questo è fatto di fatto il fascismo: viva la muerte muera la inteligencia, iterato e trasferito in ogni gesto del quotidiano. Noi siamo dei terra bruciata. Per questo navighiamo. Marchi in polo, anzi in canottiera. Questo segnala.
Giorni fa ho notato il seguente piccolo episodio, su un’altura del confine tra il territorio di Varese e quello di Locarno-Ch. In una chiesa del IX secolo, piccola, ben restaurata, elementare come una stalla ma perfetta di strutture e tutta frescata di dipinti, ingenui più che rozzi, insomma in una di quelle piccole meraviglie che insieme alle più grandi dovrebbe essere intese per segno distintivo di questo paese infimo che parlerebbe una lingua straordinaria, la sapesse, e con elevato proprio lì davanti a sé il cubo di calcestruzzo di una trattoria, peraltro di buona cucina, ecco che al termine di polente e cacciagioni e vini e grappe e amari, un’ intera comitiva di donne, donni e nonni, generici e bambini in scalmane vi si riversa, nella chiesina, bicchieri, cestini di pane e litro di vino per le mani. Poco dopo da dentro mi arriva la parodia avvinazzata della messa. Eppure si trattava delle loro religione, eppure tutti i pargoletti intorno, invitati allo spettacolo dei loro adulti in braghette, rutti e sandali, erano tutti di sicuro battezzati. Io che battezzato non sono e che mi sono indignato per il prete assente e che non avrà mai le mie confessioni ho inteso che il fantasma dell’innocenza in doppiopetto non ha bisogno di colpi di stato estivi; sta solo secondando quello che a se stessi hanno già fatto gli italiani. Gl’italiani così come ho visto scritto s’un cartello s’ul dehors di palazzo Grazioli, nel dì delle lacrime al coccodrillo. Non ho visto polizia.
Sporcizia sporcizia sporcizia. E volgarità. Ho intravisto un esagitato clorotico in un sito, uno che si chiama Sgarbi e quindi si assomiglia; non diceva nulla, urlava e insultava un tale che gli ricordava la sua condizione di condannato per truffa allo Stato. L’insultato però non era nemmeno arrabbiato, forse era psichiatra.
Grazie a te che riesci a cogliere il nefasto. Grazie a te che mi leggi e commenti. Fare la voce nel deserto non mi piace. Meno male che da un’oasi all’altra possiamo chiamarci. Un sereno abbraccio
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L’incipit dedicato al fantasma in canottiera offre la tonalità all’intera tua composizione.
Una sorta di sonata dedicata alla volgarità e ai suoi effetti, che sono sempre più nefasti di qualunque semplice delinquenza.
Insieme a molta sofferenza e ingiustizia, il passato ci ha lasciato un po’ di bellezza sparsa in ogni dove. Il presente delle «care autorità» e delle «buste gonfie di dollari che loro passeranno gli armatori di bastimenti impavesati» ci lascia soltanto un nulla di sporcizia.
Grazie, Pasquale, davvero.
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