È nota la capacità dei palloni e dei gatti di gonfiarsi sponte propria. Da qui, da questa vedetta sull’atlantico, di rado chi scrive ha parlato di sé. Questa volta si mette in guardia il lettore, contravverrò alla regola, mi chiamerò io. Anni e anni fa ebbi la ventura di allestire a Ravenna una sfortunata edizione di Fanciulla del West. Ai tempi facevo anch’io il regista di mestiere e, stante il mio ruolo che dovrebbe essere in contraddizione con il successo dal momento che non crea nulla e non ci mette la faccia che spende l’attore, mi accontentavo di portare a casa l’indispensabile al ménage familiare. Ciò benché tra gli addetti ai lavori, tecnici soprattuto tecnici, fossi molto sinceramente stimato, persino sopravvalutato, qualche volta ammirato, di rado invidiato. In generale e soprattutto, il mio lavoro riscuoteva inoltre il consenso del pubblico e ciò mi dava la soddisfazione dell’artigiano che si dice, Ho girato bene i dadi, le viti sono buone e adesso un bel bicchiere, una bella pastasciutta e vado a dormire contento. Ebbene con la Fanciulla non fu così. Si provava in due trincee contrapposte, da una parte la compagnia, il direttore d’orchestra e chi scrive, sodali, dall’altra l’architetta/scenografa e la direzione del teatro che ce l’aveva appiccicata, per chiara fama lei e chiaro fumo delle sue gauloises. La fine della rappresentazione fu esaltante per tutti gli interpreti, tutti giusti nella parte che l’autore Puccini aveva loro assegnato e che nessuno, nemmeno l’architetta poteva loro togliere, e tutti a posto con la testa; per me fu un subisso di fischi. Mi trafissero perché a guardare ingiusti, il lettore avrà in mente il san Sebastiano qui del Perugino, ma mi afflissero lo stesso perché il pubblico non deve sapere che cosa c’è dietro e, benché i miei compagni volessero trattenermi abbracciandomi per solidarietà e cose del genere, non ressi alla vergogna e me ne scappai ossequioso a quei fischi, meritati. Perché non mi ero astenuto dal colludere con il potere, per un malinteso sul mio potere di dire no, non avevo rinunciato a lavorare; per non rinunciare ai 4 baiocchi che mi pagavano, avevo chinato il capo ai ghiribizzi di una architetta di palazzo che mi aveva imposto seggioline da asilo, ricordo bene, e un arredamento per vetrine a illustrare il saloon dove l’azione fu pensata dal Puccini. Ma si era ai tempi in cui sotto il piede di un tale craksi tutto, anche la fatta di un cane, si giustificava in quanto potere del cane di farla e lasciarla lì. Il pubblico si arrabbiò invece e molto e della vetrina e delle casette e delle seggioline me ne attribuì in esclusiva la responsabilità. Ripeto, mi vergognai come un amante scoperto a tradire l’amata. I fischi erano corretti, qualcuno doveva pagarla. Ricordo un noto trans locale tale Amneris che pure di travestimenti se ne intendeva ma che dalla prima fila mi urlava, Vattene, vattene. E vattene, mi dissi.
Ora ieri sera, 7 dicembre, inaugurazione della Scala, ho osservato invece il sorriso felino di chi non solo ha avvallato la devastazione di un capolavoro ad opera di uno zarevic senza dominio, gusto, stile e competenza di mestiere, arte lasciamo stare, il quale ha compiuto un’opra senza nome, qualcosa come appendere sotto sopra las Meninas di Velasquez per vederle da un altro punto di vista, che non è loro proprio, non solo, non solo; appeso il quadro al rovescio le vibrisse di questo conservatore di museo dei rovesci ha aggiunto pennellate personali di verde veronese e bianco cadmio, giusto per passare alla storia del marketing culturale rispetto al quale la pubblicità di un pavesino è un’opera d’arte, perché meglio di questa pornografia del reale dominante egemone suscita l’immaginazione sul che cosa fa la Pellegrini quando non si allena e non mangia biscottini. Ha fatto egli come fan tutti i felini e i sordomuti, ha strascinato i tempi ma senza le gustose cime di rapa, ha aggiunto, rimesso in piedi cose tagliate o dall’autore a suo tempo, e allora perché ricacciarle dentro per compiacere l’ignoranza di un istituto di ricerche filologiche di chicago, non è una parolaccia ma un toponimo, o dall’uso di maestri antichi che, intendendosi di teatro, sapevano che un’opera d’arte non è una giustapposizione iterativa di episodi ed elementi scazonti, ma l’equilibrio sulla corda di un funambolo contemplato dal fondo dell’immobilità e del silenzio. Il fondo dell’arte autentica che si dona con la staticità di Gottfried Benn; quindi niente ripetizioni o aggiunte che tradiscono non solo Verdi, è morto e non se ne accorge, ma il fare del teatro che è vivo e che il Verdi capiva benissimo. Ma il felino dicevo, sotto i buuu e i fischi dolcemente accomodato nella poltrona della sua obesità, in sé offensiva perché pare raccontare il proprio me ne frego del vostro giudizio con tutto il mio corpo, ostentava in ribalta il sorriso di chi sembra dire, Fate fate che io ho il potere e voi no, io sono pagato a palate e voi no poveri coglioni, dissentite dissentite, io resto, perché sono il potere, Io; io ho il presidente della repubblica e le banane anche dalla mia parte. Io sono la fatta del cane che il padrone non raccoglie.
Ho capito di colpo il dramma di questi Macbeth la cui mancanza di prospettiva nel guardare sé medesimi li porta a interpretarsi come interpreti del reale, senza orore di sé stessi, per citare petrolini, et pereat mundus. Bah nulla ho da aggiungere anche parché mi manca la capacità che è degli animi razionali di stringere con un bullone ben stretto la morsa dell’incontrovertibile e dimostrabile. Soccombo e rimando per questo il lettore a casa di Alberto Biuso www.biuso.eu le cui osservazioni di filosofo dell’umano troppo umano sono indispensabili a chi pensi di dovere pensare prima di riscuotere la gratifica del consenso, anzi che da questa gratifica si tiene lontano. 145 lettori dopotutto sono di più dei 25 previsti dal Manzoni per sé. Amen e arrivederci. La chiusa amen e arrivederci non è mia ma di Friedrich Nietzsche, Umano troppo Umano.