La signora C*, che indossa occhiali chiassosi e senza deroga, senza deroga alcuna, dalle lenti marroni degradé, tutte le mattine da tre mesi alle nove si presenta all’ufficio giacenze delle poste repubblicane che giace, come le lettere che ivi si custodiscono per 6o giorni, in una strada dimessa e sbieca. Con l’espressione dell’ariete al portone del castello, da tre mesi la signora C* posa sul banco di detto ufficio la stessa busta di plastica trasparente in cui esibisce la copia fotostatica della propria carta di identità e, senza por tempo in mezzo, con la voce che le si fa via via maiuscola, reclama la sua raccomandata; quella che non si trova, l’inesitàta, recita il regolamento postale della missiva non giunta al destinatario. Da tre mesi, da dietro il bancone, lo stesso impiegato assicura alla signora C* dalle lenti marroni degradé, che di ogni lettera raccomandata che il postino non sia stato in grado di consegnare, egli lascia un avviso di giacenza, ossia un cartoncino bianco in cui egli deve trascrivere il numero, il codice della spedizione, sottolinea l’impiegato al banco con il tono che spiega ogni volta come fosse la prima; in assenza di quel numero una raccomandata è, di fatto, introvabile a meno che, A meno che lei gliel’ho già detto non telefoni al numero verde. Ma la signora C* non ha telefonato e non telefona al numero verde perché, interroga retorica, monotona e secca, Le ho detto o non le ho detto io che il fisso io non ce l’ho e non lo voglio. Su questo particolare, da tre mesi, l’impiegato fa del suo dire una variabile sempre più concreta della perplessità e con trimestrale pazienza ma senza successi, cerca di portare la questione nei limiti del, Sì ma veda, se non c’è numero non c’è lettera. La signora C* però da tre mesi protesta che lei lo sa per certo, la raccomandata, Quante storie, mica son matta, partita è partita, non mi son mossa di casa in luglio. E senza vi sia un perché di tanta precisione e sicurezza, insiste decisa e deraglia che il postino non le ha mai suonato, Né una né due e nemmeno tre volte. Qui, sia inteso senza equivocare, a l’immagine del postino che pigia il suo bottone, si sovrappone d’un tratto nella mente della signora C*, ma nessuno nell’ufficio è in grado di intravederla, quella di una coppia abbracciata nella placida mestizia del sonno, un viluppo di braccia, di gambe e di lenzuola dopo l’amore, ovvero dopo il sesso, come nei film si traduce dall’inglese l’acconto e il resto del significante nulla, adombrato dell’ideale, della dicerìa, della recita, dell’ineluttabile di cui la pulsione funzionale alla specie rappresenta tutto il significato. O viceversa. Con uno sprimacciarsi dei suoi neuroni la signora C* si sveglia bella-mente persino dall’eventualità di distinguo così arditi che al suo pensiero si presenterebbero ma soltanto in abiti capziosi; del resto, da quel che raccontiamo di lei, occhi bassi da scolara interrogata e proterva nel giurare di avere studiato ma di essere nervosa, proprio il distinguere parrebbe il problema della signora C*, tanto insiste a ripetere quanto le paia incongruo che una lettera si faccia numero: un bisticcio transustanziale…l’osservazione finale è di chi narra… mentre lei da tre mesi, E dai ma perché mi chiede il numero, taglia corto ingrandendo di nuovo la voce per battere quella dell’impiegato, Lei mi perde il mio tempo e io non so di numeri ma di lettere e se il portalettere doveva scrivermi una lettera e non mi ha portato il numero io che ne so. Questa battuta, che è un lapsus alle orecchie dell’impiegato, è l’ultima oggi di una non piccola serie; prima di oggi per qualche tempo, all’ufficio giacenze delle poste repubblicane l’impiegato, che pure si diletta di poesia e pubblica anche, qualcosa, in un foglio locale, versi burleschi firmati epi gràm mius ma di non disdicevole fattura e meno ancora disdicevole contenuto, e che dunque non è ostile o sordo all’altrui estro birichino, per qualche tempo ha dubitato che quelli della signora fossero allegri giochi per far colpo sul proprio amor proprio, o su di lui in persona, chissà; dall’ultimo, da quell’insospettabile lapsus, egli ha capito che la signora C* non scherza, non ha mai scherzato, anzi egli rammenta di avere osservato che da tre mesi la signora C* non reagisce ai blandi, modesti, rispettosi tentativi che l’impiegato mette in atto per buttare la questione nel ridere; niente da fare; è evidente che la signora C* è priva della logica che permette di beffarsi dei fatti quando montano in passerella con il loro più ridicolo doppio. Quel nodo numero-lettera è da tre mesi l’ostacolo privato della signora che spedisce l’immaginazione dell’impiegato epigrammius alla mattutina agonia delle falene, allo schiantarsi delle vespe d’autunno contro vetri che le povere scambiano per cieli aperti. Gli viene in mente infine e tenta di mormorarlo in versi, Com’umano che quotidiano/legge e rilegge il suo gazzettino/dell’ordinario; dal suo puntiglio/… la rima in igliopuntiglio gli ostacola il pensiero di quell’umano che legge il suo quotidiano e si ostina nel voler sapere ciò che desidera gli venga detto, accenna tra sé l’impiegato epigrammius e ratto ad alta voce conclude.. dal suo puntiglio/del noto non del ver, fatto coniglio… hmmm, hmm, hm. Già. Altro non può, l’umano in oggetto. Crede dunque bene l’impiegato di aver inteso che la signora C* non può del suo fare, fare a meno. La signora C* ritira dal bancone la sua busta di plastica con la sua carta d’identità ed esce dall’ufficio, via per la pesante porta tagliafuoco. Sklank. Inesitàta.
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L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
Lui si fece prendere dal panico pare, e aveva con sé tanta morfina da morirne. Ecco il problema dei nostri tempi; non ti lasciano nemmeno morire. Allora era molto più facile procurarsi veleni e a nessuno importava più di tanto. Pensa che hanno proibito persino l’assenzio. Tutto questo ha a che fare con l’appropriazione del corpo di cui scrive Foucault? Credo di sì. Di fatto apparteniamo allo stato non meno di quanto il pretame ci pretende proprietà di un dio. Questo mi fa incazzare. Un abbraccio P.
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Una piccola aggiunta, nella risposta ad Alberto, quell’accenno ai vecchi giocattoli in latta mi ricorda molto lo stile del grande berlinese suicida a Port Bou
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Sincero è un gran riconoscimento Diego; così appaio in definitiva. Quanto allo scultore, ben mi inchino riconoscente e dico sì sono bravino, sì; non c’è niente di male. Sopra di me vedo giganti e lo so. Ma non svalutarti. È che siamo diversi. L’unica cosa che so per certo è di essere uno scrittore. Fatto che importa molto poco a chiunque ma che l’unica cosa che a me di me interessa. Anche se ho esercitato, come te, immagino, una professione pratica per campare, e la esercito ( dio stramaledica la fornero) al meglio delle mie possibilità e anche con qualche riconoscimento ma… non mi interessa. Siamo un esercito, le persone il cui talento non coincide con il modo di pagarsi il pane. Ma non mi interessa. TI ho già detto che tu ha il dono di fulminare certe realtà con un rapido aforisma. Non è poco cara el mè filosofo. Un caro saluto P.
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Sei l’uomo più sincero che abbia mai letto. Scrivi cesellando, il metallo è freddo e rappreso, ma al principio era bronzo fuso, spaventosamente caldo. Sei uno scultore del racconto, non un esangue pennellatore d’acquarello come me.
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Alberto grazie ancora. Quanto al proposito di restare cattivi finché morte non ci separi e finché son lucido garantisco per me. Garantisco anche che non c’è giorno in cui non pensi come farla finita dovessi perdermi nei gironi della demenza o dell’inabilità o del cancro. Non sono ancora pronto al suicidio, e non ne ho motivo, ma è contemplato dai miei protocolli personali. E prevederlo è una cautela. Care cose Alberto.
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Grazie per aver donato ai tuoi lettori -che sospetto siano in ogni caso assai più dei venticinque del Lisander- un impetuoso e lucido racconto autobiografico, che è dichiarazione insieme politica e di poetica.
Poche righe di risposta alle mie pochissime, le tue, ma capaci di squadernare luoghi e tempi. Eh sì, la letteratura uno o la possiede nel sangue dove intinge la propria penna oppure redige semplicemente il verbale del “titillamento dei propri sentimentini noti su visini confusi; cerca esso gli autori che dicono loro ciò che essa vuole sentirsi dire che già si è detta da sé: canzonette” al servizio del “regime dei buoni, (a nulla), dei Kulturphilister”.
E infatti entrambi gli odiatori dei filistei della cultura -Schopenhauer e Nietzsche- erano ben convinti degli enormi danni che i buoni producono nel mondo.
Speriamo di rimanere sempre così cattivi.
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Ignoro, se non per accenni, in che cosa consista la vita della signora C* al di là dell’inesitato ufficio.
Ma la sua entomologa tenacia affonda certo in un’assenza. Questa:
“La signora C* è priva della logica che permette di beffarsi dei fatti quando montano in passerella con il loro più ridicolo doppio”.
Perché è il possesso di tale logica che si può definire per l’appunto “intelligenza”.
La tua, Pasquale, a me sembra una narrativa scientifica, nel senso più pieno della parola.
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Cogli nel segno al solito e di là di quello che colgo io scrivendo ché, è ovvio, non ho programmi, obbiettivi, ammaestramenti da impartire, non progetto, non penso scientemente, ma so quello che scriverò quando scrivo almeno per capire se continuerò a scriverlo o no; ich wiederhole, cogli nel segno, schiarisci, scrivendomi: Ma la sua entomologa tenacia affonda certo in un’assenza. Quanto alla scientificità è un complimento inaspettato, gradito oltre ogni limite benché costituisca un limite, il limite che non mi permette di essere apprezzato che da una ventina di lettori o poco più; tu per esempio. Con Hillman si intravede una noce, un destino, in uno che a due tre anni di età stava nascosto sotto il tavolo del tinello, così si chiamava la cammara da ricevere del bilocale dei miei, ad ascoltare i grandi, osservandone le gambe e dilettandosi ad aprire con qualche metodo balocchi di latta; il loro vuoto, dei giocattolini, non mi ha mai sconcertato, qualche molla talvolta mi conduceva al suo fulcro e la smontavo, tagliente la molla. L’assenza, il vuoto ulteriore non mi ha mai turbato, mai deluso, anzi, forse ci vedevo qualcosa. Avrei voluto diventare chirurgo neurologico un tempo molto passato, per aprire e sfruconare in scatole di latta evidentemente. Un cranio però, l’ho visto uno aperto e vivo, mostra meno di quel che rivela, non più di quello che si veda in un banco di macelleria, occorre una mappa o un méntore. E molto da ultimo, analista; troppo costosa l’università. Mi sono accontentato di aprire la mia personale e privata di scatola, da analizzante; confesso, con molto gusto a volte nel constatare le molle nel balocco pasquale. Come tu hai detto una volta, con il proposito, fosse o no confessato, di andare al limite, vedere che cosa c’è anche se la scoperta può non essere per niente piacevole. Lo dicesti della filosofare, ricordo bene. Questo mi pare, con molta immodestia, il segno del coraggio che ci accomuna e non si vede. È, credo, il coraggio di Leopardi. Del resto vivere qui ai confini è per me, un altro segno, una conferma del mio/nostro modo di essere. Toccarli i confini, come ho fatto anche ieri, a piedi e dovermi fermare scientemente per sfinimento delle gambe e promettermi di tornarci e di passarli, ist ein andere Wort für seine Statik, Perspektivismus…Metodo.Per me è una gioia, un’ebrezza. Le ginocchia mi sgridano oggi ma sono contento della scoperta. Ora essere così, tu dici scientifici, non paga, allontana; alle corte, la gente che legge, farebbe meglio a volte ad evitarlo, cerca nella lettura il titillamento dei propri sentimentini noti su visini confusi; cerca esso gli autori che dicono loro ciò che essa vuole sentirsi dire che già si è detta da sé: canzonette. Capisci il successo di una Nemirowski, in articulo mortis, una che non sapeva scrivere ciò che non aveva da dire; e il maglio in testa a Céline. E non solo. Capisci perché gli scrittori sono una decina da sempre, gli altri buone tate per brave mogliette, gli uomini leggono saggi per sAntirsi tali ovvero grilli parlanti. Se ci pensi, l’aver fatto di Manzoni un autore cattolico lo ha reso innocuo al sistema, all’eterno regime, al regime dei buoni, (a nulla), dei Kulturphilister. Non ricordo come lo scrive Nietzsche. Grazie Alberto. Serberò per me questa tua bruciante osservazione.
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