Virginia Woolf in Craftmanship – BBC 29 -04- 1937
Matutina cacatio est bona beneducatio; sono le cinque del mattino, la terra arranca ancora incontro al sole, il cielo è com’è, vuoto, con l’espressione stupida di un dio convinto di essere l’unico al mondo o stupìta di un dio tra i tanti e che ponderi, Guarda un po’ quanti siamo qui nell’olimpo e non solo, mormora edìpo il vecchio, che parla spesso da solo, per fare due chiacchiere intelligenti si compiacerebbe di commentare a chi glielo facesse notare, e che ora si alza dalla tazza in cui ha appena deposto una soddisfacente quantità di feci, frena con uno stralcio di carta igienica l’eventualità che all’ano ne sia rimasto attaccato un frìccico e prima di gettare la carta lievemente sporca, osserva il convolvolo scuro, sano, opaco che occupa il fondo della tazza. È una sua abitudine, Matutina cacatio est bona beneducatio, si ripete come spesso i vecchi, soddisfatti della ripetizione, memorando il suo transito nel ruolo di studente di medicina, tanti e tanti e tanti anni fa e i frizzi e i lazzi osceni che distinguevano l’esercizio dello studentato, tra bevute rivoltanti ed ebetudini dietro giocaste vogliose. Per quella nota faccenda si sente da sempre a disagio ma non in colpa; giocasta non l’ha mai raccontata del tutto e mai del tutto giusta, alla fin fine se l’è raccontata, lui non crede di avere violato né lei né alcun limite; impiccarsi è stato l’atto di un cuore impulsivo, ancora adolescente nonostante l’età e senz’altro legato a uno spunto mitico, crede edìpo che gli studi e poi la vicenda di scrutatore d’anime hanno legato per sempre all’esplorazione dei significati dietro l’apparenza dei significanti. Vedovo, edìpo si deve contentare delle sue due cagnoline che dormono di là, antìgone e ismène, poveri cuori trafitti dalla superstizione, comune in tutti i figli, di considerarlo un oracolo e di credersi e rendersi utili a lui, di coccolarlo, di dovergli lustrare gli occhi che esse credono vuoti e ciechi. Ci vede bene invece edìpo, nonostante la fotofobìa che un lontano intervento di laser gli ha procurato e che lenisce indossando lenti molto molto scure; è presbite inoltre, dato comunissimo passata un’età di cui stenta oramai a indovinare di quanto affondano nella terra le sue radici; sul senso di entrambi i difetti, avvertimenti li chiama, edìpo ha indagato e gli pare chiaro ciò che l’oscurità forzata gli indica, quanto il vedere lontano meglio del vicino, vuole dirgli, Non avvicinarti troppo alle cose piccole, guarda periferico, guarda oltre, affinati all’oscurità e proteggi gli occhi con la giusta distanza ottica. Edìpo si lava per bene, a luci spente, si striglia, indifferente al rumore dell’acqua che può o non può raggiungere le stanzette delle piccole custodi della sua tarda castità. Si rade a modìno e, nettato e asciutto come una magra foglia di lattuga, monta sulla bilancia; 66,640 brilla il peso dalla finestrina elettronica. A scendere, annuncerebbe il pilòto di un sommergibile in quei film di guerra e di abissi che gli piacciono tanto. Poi edìpo si veste con la cura appropriata al suo ruolo di escursionista, pantaloni di fustagno antichi, maglie e maglione, fa fresco stamane e il riscaldamento al solito non partirà fino alle sette, ora in cui lui sarà già fuori, di aria pieni i polmoni. Lo cattura una tentazione paterna e si avvicina alle camere delle ragazze; a piedi ben calzati in spessi calzettoni di lana e larghi zoccoli di gomma da ospedale, che usa per tema di scivolare in casa su dell’acqua incauta come in sala operatoria sul sangue, lo colse un tempo la seduzione respinta della chirurgia, socchiude l’uscio prima della stanza di ismène poi di antìgone. Oh come dormono bene i loro occhietti desiderosi di fonti ondulatorie di chiaro per vederci bene nei loro sogni, di cui nulla di solito afferrano, che le tengono attaccate alla litanìa delle interpretazioni sulle quali la loro pochezza giovanile amerebbe costruire cuori e capanne per ricompensarsi dell’affanno che i sogni, capita, portano con sé; Oddio ho sognato una cosa terribile, ha raccontato tempo fa ismène, tra le due la sorellina più convinta da saperla lunga, Un uomo con un gozzo enorme, grigiastro, gonfio e floscio, umidiccio come la testa di un piovra, oh sì, poi diventava la testa di una piovra e si muoveva e mi parlava e non aveva bocca né naso ma enormi occhi, ma non ero capace di sentire le parole. Cagnette come molte persone, donne non di rado, in cerca di un ruolo sotto il quale scodinzolare e più sostanzioso di quello di esseri più o meno umani, più o meno disumani, afflitte dal dubbio di non sembrare abbastanza cagnette e desiderose di un riconoscimento che appagasse la loro naturale isteria; ah no, loro no, loro no non si accontentano di accettare la parte, propria e comune a tutti, di malviventi naturali, di lupi, di vagabondi, sfaccendati e attaccabrighe, per ricorrere a immagini ottocentesche; nèèè, le piccole donne non crescono mai e vogliono mammare e mammarsi, svolgere, avvolgersi e svolgersi nella loro tela personale di tante piccole penelopi dal cui telaio non smàmmano mai. Cassandra è stata la migliore, pensa edìpo, invece di ma-ma cominciò la sua carriera di bebè incanutito anzitempo, strillando mor-te. Edìpo le riconosce il primato, di poco offuscato dalla trista violenza che le toccò. Amen. Edìpo si prepara la sua colazione, pane, tanto pane e burro e formaggio, biscotti, integrali, fichi secchi, qualche nocella, di fatto qualunque cosa avanzi e che gusta in piedi in cucina bevendoci sopra, per sovralimentàrsi il cuore, un tazzone di caffè nerissimo inasprito da qualche goccia di limone ma appena passato per un enorme percolatòre, caldo da bruciare e oltremisura zuccherato. Il resto nel termos, insieme con un cambio completo di indumenti nello zaino, con tutto il necessario per le sua viandantina su per i monti; ogni volta conta che potrebbe trattarsi dell’ultima. E via, via via, prima che le cagnoline lo sentano e si mettano a uggiolare e, Babbo dove pensi di andare, Babbo le pillole, Le hai di nuovo prese tutte quelle di una settimana insieme, Ma insomma, Lo sai caro che non ci vedi, Oh cielo caro, gli dicono caro come si fa con gli scemi per giustificare a se stesse tanta condiscendenza, Potresti morire per un nonnulla. Ma poi tra loro, lo sa, le ha ascoltate, le ha viste, in ciabattine di velluto e camicia trasparente o quasi, convinte di essere invisibili, ben fatte sotto sotto, appetitose per uno che sappia guardare ma nessuno che si prenda la briga di buttarci un occhio sotto sotto quelle camiciole e che lo liberi dalla loro incombenza, le ha sentite mormorarsi, Che dici ismène/antìgone, Sorella cosa dici, Che dobbiamo prendere una badante, Che saremmo un po’ più libere, Che in fondo miglioreremmo la qualità anche della sua vita, Ma è che costa tanto, Butteremmo via i soldi, In fondo non vivrà ancora a lungo, Ci dobbiamo pensare, Con calma, Dobbiamo parlarne, Più tardi. Auff l’uscio di casa, lo olia sempre per bene tanto che glissa sui cardini uguale a una nave affilata nell’acqua, è fuori edìpo, non dà un giro di chiave casomai a qualcuno/a venisse l’idea di andarsele a chiavare quelle sorelle con la vocazione di figlie. Fuori. Aria. Il babbo cattivo peggio della nonna di cappuccetto rosso se ne va allegro per le stradine del paese dove solo i tipi svegli, anche se ubriachi della notte precedente, sono per strada a chiedere al mondo il silenzio di un cavallo, per batterlo in lungo e in largo il mondo, come gli spetta. Buongiorno dottore, buongiorno tonio. In tasca cerca la forma del telefono portatile che non carica da quando non ricorda ed era già al lumicino, Via via, via, edìpo è già sulla sua stradina sterrata appena fuori casa, su per i gradini di una mulattiera che lo affatica e più su, nell’intrico del bosco che la stagione ha reso chiaro quanto un’anatomia comparata, sul sentiero cosparso di foglie di ineguagliabile autunnale bellezza e che bordeggia il piccolo abisso arterioso di un torrente gentile ma non meno pericoloso. Casco giù di qui e mi spezzo qualcosa, pensa edìpo, basta un braccio, ferirsi, ma ci si può rimettere la schiena su uno di questi tronchi, resterei appeso tra i rami a patire chissà per quanto prima di morire, magari a sentire il cloc cloc del mio sangue che se ne va giù in fondo nel torrente, già, ma non sentirei il cloc cloc, il torrente se lo mangia un cloc cloc sanguigno in un a-men-che-non-si-dica. E sale edìpo re e sale, e più che salire pensa di essere in punto di addentrarsi nel geroglifico del sentiero, in un labirinto che quello stolido di un tesèo, lui sì cieco a non vedere i segnali che il labirinto offrirebbe, avrebbe avuto bisogno di inseguirli lungo un filo, un pelino di fichétta un filìno di pelata, al menotauro che ficàta, gliel’ho proprio soffiata, esclama edìpo nel compìto disinteresse della natura per gli ottonari. Tace e, ancora non sa dire perché o non sarebbe un’intuizione, e intuisce che sta entrando sempre più in sé fino ad allargarsi fuori di sé, dove è la solitudine a svelarsi, ninfa o dèa non saprebbe decidersi, ma necessaria, indispensabile anche a far partecipi altri, a spiegarsi che eliminarla è nonsense perché noi riusciamo a vivere proprio perché siamo soli, staccati, distaccati, separati dagli altri e, nello stesso tempo, è grazie a questa solitudine che dopo un po’ di tempo, cammina e cammina, ci può sembrare che il resto intorno a noi, piante e acque, e foglie secche, animali di ogni sorta, salamandre dalle belle chiazze gialle, persino gli umili serpenti che nell’autunno avanzato del mondo dormono, e persino le persone cui diremmo buongiorno tutto, o quasi, respiri con noi. Senza fiato, alle sue parole scagliate tra un tronco spoglio e un’ultima foglia che resiste da un ramo al proprio martirio, edìpo aggiunge un, Punto. Siede stanco su un sasso. Si guarda intorno, la temperatura è scesa e nell’aria si sente un profumo di tempo che cambia, buon odore di vento, delle nuvole che ora oscurano, ora scoprono il sole, scendono a fare cucù.
Edìpo è arrivato là dove la gola stretta che ha risalito scollìna ma su una cresta, una bocchetta stretta dove il passo continua per un precipizio giù per il quale il sentiero si cela e si svela su una cengia stretta, dove mai vada non si sa ma scende, per incerti gradini, aggira massi garantiti cent’anni dalla gravità, giù giù dentro un dirupo in fondo al quale un laghetto è toccato in quell’ora dalla volubilità della luce che vi si riflette. Forse riflettendo riflettendo, pensa di nuovo ad alta voce edìpo, ho perso il sentiero principale e ho preso per questo, forse un tracciato antico, una deviazione, una scorciatoia di pastori, di capre più che di pastori, le capre hanno occhi verticali, o forse…Bon, si dice, questo passaggio me lo voglio proprio godere. Caccia il telefono di tasca e schiaccia il tasto per chiamare casa, c’è campo anche lassù al giorno d’oggi, sente il segnale di centrale, schiaccia il tasto vivavoce e infatti si fa viva la voce di antìgone, Papà. Oh c’è una gran ansia laggiù in sole due sillabe. Lui non risponde e con cura inusuale cerca accanto a sé sul sasso il posto più sicuro per posarvi il telefono perché, perché lì resti; si leva, si aggiusta la cinta dei calzoni che gli ciondolano un pochino di più oggi, Olimpo arrivo, mormora e si rimette in marcia. Papà pa, continuerà a strillare il telefono fino ad esaurire la sua residua carica, pà.
Eh sì, ho pensato a te e mi sono detto, Via questa volta questo qui non facciamolo morire o Diego mi dice che i miei racconti hanno la caratteristica dell’ecatombe. Disperdersi. Mi fa molto piacere sentire che è stata colta questa faccenda della solitudine necessaria. Grassie Diego.
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«intuisce che sta entrando sempre più in sé fino ad allargarsi fuori di sé, dove è la solitudine a svelarsi, ninfa o dèa non saprebbe decidersi, ma necessaria, indispensabile anche a far partecipi altri, a spiegarsi che eliminarla è nonsense perché noi riusciamo a vivere proprio perché siamo soli, staccati, distaccati, separati dagli altri e, nello stesso tempo, è grazie a questa solitudine che dopo un po’ di tempo, cammina e cammina, ci può sembrare che il resto intorno a noi, piante e acque, e foglie secche, animali di ogni sorta, salamandre dalle belle chiazze gialle, persino gli umili serpenti che nell’autunno avanzato del mondo dormono, e persino le persone cui diremmo buongiorno tutto, o quasi, respiri con noi.»
perdona la citazione, poi tanto la ficco anche nel mio blogghetto
solo un escursionista scrittore puo’ descrivere così bene la solitudine, che è solitudine dolorosa quando è ancora relativa, e diviene invece pienezza quando è assoluta e coincide col sentirsi parte dell’ambiente
edipo sceglie di andare direttamente a disperdersi, anticipando il banale evoliano spargimento delle ceneri
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Non so commentare meglio di te; ti leggo come se tu parlassi di cose che non mi riguardano e questo mi dà una gran bella e robusta sensazione. Supremo riso, suprema ironia, espressioni da Federico. I greci del resto si sono estinti. Quello che resta della loro lava è la buona terra nera che nutre ancora. A voler vedere. Quanto a me, ti dico, sto provando per scherzo con alcuni colleghi e studenti, così per dopolavoro di lusso, Antigone di Anouilh. Lo scopo è quello di far gruppo intorno a un arte condivisa. Così dopo la prima prova sono tornato a casa e in meno di un’ora ho scritto tre cartelline di getto. Evidente che non funzionava. Troppo poche parole per un’astronave galattica. Insomma poi è successo quel che hai letto, ma confesso che nel toccare una tale materia la sentivo bruciare sotto le dita; non sto a farla lunga ma poiché sono il committente di me stesso e cioè mio antagonista, arte che ho imparato dal teatro di cui mi riconosco l’abilità di formidabile potatore, un po’ di timore per il troppo o il troppo poco e quindi per il giusto c’è sempre, qui in particolare; ma mi fido in genere della mia infantile sicurezza nel giochiamo che io ero e tu eri. Sicché, ti giuro, dopo una notte insonne, certo per l’influenza e la tosse, ma anche perché il finale andava rifatto, e qui mancava un aggettivo e lì andava tolto, sono arrivato a questa misura che lascia dei buchi e ne rammenda forse tanti; il resto all’immaginazione degli astronauti. Grazie Alberto, push the red botton to start the engine.
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Vortice della vita, del mito, del tempo. Vortice. Nel quale la suprema ironia non è blasfemìa, no. Ma è radicale rispetto per quell’enigma lontano eppure nostro nostro qui e ora. Spesso penso -e se càpita dico- che nonostante millenni di filologia i Greci non sappiano proprio chi siano, chi furono. Come abitanti di altre galassie. Ecco, un racconto come questo, Pasquale, è un’astronave di parole, che ci avvicina al loro supremo riso.
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