Altare di Pèrgamo – part. Berlino
A vedere questo film Roma occore andare come si andava una volta al cinema, parlo di molto una volta quando l’andiamo al cinema aveva sostituito senza eliminarlo il rito del teatro, sempre rito però e di quartiere – intorno a casa mia c’erano quattro, forse cinque sale, la cena poi l’uscita, qualche volta il contrario ma di rado – si andava al cine senza propaganda preventiva, attratti dal titolo, dai nomi, ah gli attori, dal genere, western, guerra, giallo, dalla curiosità; Roma appartiene a un genere che è raro al cinema, o non esiste non mi pare, l’epica; esiste bensì in poesia, dunque per questo Roma è poesia; perciò occorre non averne letto niente prima, ma niente proprio, è necessaria la scoperta. Allora Roma accade. Dunque chi vuole qui si fermi, e vada a capo con se stesso. Scriverne è puro piacer dell’intelletto.
Ci sono film di cui c’è da dire poco, per non dir tacere; occorre ascoltare Roma, appunto come la poesia e la musica, che non si spiegano, che non si devono spiegare, bon come l’arte in genere, salvo esser suore, capesse scout, professoresse di natura più che di professione. È un film Roma per il quale ha dunque senso parlare di struttura, di forma, di tecnica persino, per questo motivo appunto, così come si analizza la struttura di un sonetto di una sonata, di una sinfonia, di un melologo, di una ballata, di uno Shakespeare; ma di più è necessario farsi capire dalla narrazione intelligente, dalla macchina da presa che si muove dentro un lento gorgo, il cui orizonte degli eventi – termine in voga in questi giorni – è di parole e suoni filtrati da una garza temporale, di visto, ma non già, che tutto attira e inghiotte. La forma coincide con sé stessa, col contenuto, benché a certuni piaccia che vi sia una schisi tra due, la frattura in cui personalmente proprio non credo, la stessa che s’immaginano tra corpo e mente. La forma canta sè stessa, senz’altro scopo. Distante, proiezione all’occhio di un architetto. O di un pittore che della prospettiva abbia fatto sua rètina.
Roma è un capolavoro, ahi che noia dirlo, di poesia, forse anche di cinema. Poesia épica, immagini musicali prive di musica. Finale sulla spiaggia che evoca in chiaro e scuro, che è molto più di bianco e nero, le figure dell’altare di Pergamo. A voler vedere. Naufraghi e isole tutti i personaggi si abbarbicano l’un l’altro, Yo no querìa naciesse, mi bebé, singhiozza la serva Cleo, non volevo che nascesse il mio bambino; lacrime di Briseide, ma ha più robusta voce l’Oceano. Non c’è nessun sentimentalismo, allo spettatore il ruolo di scuotersi dal torpore ed osservare il cielo immenso degli dèi sempre intersecato da una linea, un aereo un filo, e il cielo semplice dei poveri; un terrazzo per stendere la biancheria.
Fa d’uopo ricordare la più piccola delle figurine di questo nobile poema per immagini; fulmina chi ha orecchie per intendere, con i suoi, Quando ero grande ero… Dunque, Ero un pilota da guerra ma ora sono morto non posso parlare; e la serva Cleo, di rimando, Sai cosa penso che non è così male essere essere morti. Bon, ho detto troppo ma mi perdono.
Nota: Qui ho tradotto quattro parole per pudore, ma per fortuna qualcuno ha impedito che il film venisse doppiato, amputando così la bellezza dello spagnolo e messicano. Così la forma ne sarebbe uscita più che compromessa; insultata. Lassù qualcuno ascolta i film.
Tutti coloro che hanno visto Roma me ne hanno parlato molto bene. La tua riflessione, così empatica e insieme trattenuta, mi sollecita ancor più a (cercare di) vederlo.
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Cerca, poi preparati al disaccordo. Ma un dato è certo, dove non c’è trama, intreccio, spettacolo, allora c’è qualcosa. Un abbraccio
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Ecco, grazie Pia, sono contento.
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