La Iole Crêuza de mä a Tolone
Un amico che d’ogni cosa al mondo sa più di me, e che conosce, perché ha in mente i molti trucchi per far sembrare l’esistere una necessità, quanto io tendo a lasciar perdere, se si eccettuano quelle quattro o cinque nozioni che, l’una con l’altra ben accostate, ricombinate e fatte oggetto di oculate associazioni, tutte insieme, io dico per miracolo, riescono a sembrare cultura, metafisica cioè; questo amico, dottore in ogni senso, che bene ha chiara la distinzione degli uomini in due categorie, i medici e i pazienti, di questi ultimi tra vivi e moribondi e tra i primi quei che patiscono abbastanza e quelli che patiscono atroci sofferenze, non ci fosse il rimedio, i medici, la morte; ebbene questo amico mi ha condotto a scoprire un luogo ricchissimo di cui ho apprezzato l’humus, la sensazione che veleggiava di bellezza, a modo suo, divagazione, e di sapere o saper fare, incapace come sono, ignorante di cosa sia ogni navigare, importa poco se a remi, a vela non parliamone, o a motore… la raccolta della barche di Pianello Lario (Co). Allestita nell’edificio che un tempo fu una filanda la raccolta illustra secoli di una sapienza nell’immaginare la navigazione, prima ancora che nel renderla possibile, quella dei mastri d’ascia. Prodotti, beh semplici, le barche, ma quanto ingegno in chi le costruiva e che, chissà, magari manco le utilizzava. In ogni modo con una barca non si va da nessuna parte, si torna sempre al punto e a capo; Odìsseo, come dicono le persone dabbene, insegnò. L’unica volta che mi trovai nella condizione di mostrare una qualche valentia di marinaio fu a largo di Pozzillo(Ct) su un gommone con un fuoribordo che s’impiantò in capo a un’ora e, come spesso accade nella vita mortale a chi della propria insipienza non fa tesoro, su quel battello mi trovavo fuori luogo dal luogo e dalla situazione; situazione in cui ci si incontra con uno, sé, del tutto estraneo a quel tale cui, per convenienza, siamo abituati. Mi ero imbarcato nel mio dondolare alla deriva. Fortuna volle che a terra capirono; i segnali che mandavo non erano di saluto ma di disperazione e qualcosa di più. Esseri capaci di barcamenarsi per di su o per di giù trassero in salvo me e chi mi stava accanto. Da allora anche uno scoglio mi è sembrato non sicuro.
Gli scafi dei contrabbandieri erano lunghe barche da voga, Iole, che partivano lievi a notte, da Musso sulla costiera comacina di occidente, cariche delle bricòlle recate dagli spalloni nel buio su e giù per coste impervie, le più impervie e disagevoli per mettere in difficoltà e pericoli le guardie di finanza in agguato. Poi via via veloci a caricare e poi ai remi, voga. Dalla riva l’equipaggio staccava da non accorgersi la barca, e se l’acqua le filava un destino benigno, voga voga voga via via a doppiare il capo di Bellagio, veri pirati dio santo, capaci di remare tutta la notte, rapidi e invisibili gli scafi color oscurità, oh li avesse visti Catullo altro che phaselus ille, e voga voga voga, fino a Valmadrera, attracco, scarico, un ristoro più veloce del timore di essere avvistati dalle guardie sulle loro barche lunghe e veloci e costruite dallo stesso cantiere, buone sì alla corsa ma non alla manovra. Così, voga alla via così, doppia di nuovo il capo di Bellagio e qui ecco magari la barca della Legge, silenziosa alligatrice, governata da vigorosi quanto i pirati o quasi quasi; e allora vai, inseguimento tra simili se non eguali. Smussata a poppa per rapide manovre, la barca contro ogni bandiera; bislunga quella della legge, per correre pronta all’alt, che è di rigore, affiancare, arrembare coi grappini ma accidenti, i pirati hohop un colpo di remo poppiero e vira vira che più di così non si può immaginare, i grappini volano in aria e pliff pluff in acqua, l’abbrivo spinge lontana la barca grigia della legge mentre i pirati sagaci filano via nel lutto della notte, e voga voga voga di nuovo fino a Musso. Si approda, mica occorre parlare, forse qualche mezza bestemmia in un dialetto norreno, si leva il tappo dal fondo della Iole, quattro sassi ben pesati e la barca scompare tra i flutti molli del lago dove solo il pirata, quando sarebbe, saprebbe ripescarla per il prossimo carico, per la folle prossima corsa. È quasi l’alba, si va a casa, si mangia, si dorme forse qualche mezz’ora. Dopo, tutti e cinque i pirati, non uno di più o v’è l’aggravante di associazione per delinquere, eccoli sereni nell’ombra del giorno, ciascuno all’usata fatica quotidiana, all’osteria, alle carte anche giocate con le guardie, ché lo star contro in banda cela e conforta di denari sudati assai e pagati dal rischio, talvolta dalla morte e prepara a una fortuna più ridente. Anche per oggi la miseria o il desiderio del di più sono lontani. Anche le guardie tranquille, fumano sigari e tabacco piovuti giù dal cielo. Qualcuno tra loro ama di un pirata la figlia o la donna. La guerra per essere capita è da sempre una questione privata. O chissà.
Ci sono leggende sul lago più antiche, di flotte mercenarie e piratesche, di assalti ai convogli mercantili, di battaglie sull’acqua, del Gian Giacomo (de’) Medici, il Medeghino(1498-1555), fratello e cugino e parente di papi, giureconsulti e patrizi d’ogni sorte, conte di Lecco, marchese di Marignano signore di Porlezza e Valassìna, castellano a Musso, castello appunto ora in rovina, al confine allora coi Grigioni; non li avesse irritati questi passando da una all’altra e all’altra bandiera ancora e fermati a Chiavenna e Valtellina, saremmo adesso svizzeri e luterani. O chissà che dio sa cosa.