Tema: Tosca

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Faccio per lavarmi i denti ‘stamane ma lo spazzolino elettrico non va in moto. Se sono macchine bastonate diceva mia nonna, fa un sergente scozzese armato di bastone a un blindato in panne su una delle spiagge di Normandia; nel Giorno più lungo; tira una mazzata al radiatore e rrronronron-ronronron, il motore si riavvia; così batto il culo dello spazzolino sul bordo del lavandino e vrrrrrr che riparte. Il principio del s’ha-da-cambiare resta interdetto dalla contraddizione. Bastonate.

Parrà strano ma di me a me non piace parlare, salvo quando si tratti di inserire il punto di vista degli occhi e dei sentimenti a mia disposizione in un contesto epico che possa coinvolgere; ci tornerò; usare il pronome identificativo di quella imponente torracchiona che tutti adorano, con quelle eccezioni che hanno ritegno in sé, parlare insomma a nome di quello lì che nelle situazioni più delicate si presenta per io, mi procura non poco fastidio; sono anni che mi affatica la coabitazione con altri, non eletti non prediletti e inseparabili e, che  interviene a mio nome  benché sia il più brutto, con Pasquale, quello che cinguetta di più; Giuseppe è un taciturno, di mestiere; Edgardo imprevedibile; mi rendo conto peraltro che allontanarlo del tutto dal tavolo da gioco non è poi così semplice salvo precipitare nel baratro di un’ingovernabile schisi. Diverso è intravedere affiorante dalla propria memoria, nella propria distanza un’epoca, e parlarne comme en sortant de sa peau, facendo di sé un chanteur di Jemaa el Fna, a possederne rispettosamente almeno un po’ il talento. L’epoca ci sarebbe, l’ho attraversata alla periferia, quasi da fuori  senza tanta partecipazione come mia abitudine, osservando; epoca migliore direi, molto più libera, nei limiti di un paese qui che dell’essere liberi coltiva un concetto o restrittivo o debosciato; allora bastava stare a Parigi, dico frequentare solo i suoi caffè per sette giorni, per sentirsi cigolare alle spalle, rientrando alla frontiera di Domodossola, le porte della prigione Italia; e adesso l’ultimo trentennio ha prodotto i guasti di cui ognuno che abbia orecchie per intendere e occhi per pensare può darsi conto; per dirla con Camillo Bensò di essere Cavour ha imputtanito e sputtanato la patria che ci è data.  Dell’epoca e di nient’altro non ho alcuna nostalgia, né dolce né amara, men che meno per una giovinezza anagrafica che se mai, talvolta quando torna alla mente produce noia se non rammarico. Epoca in cui mi trovai a principiare una carriera, prima con la guida di un ometto straordinario, attore strutturato da un’arte della commedia dalle radici affondate nell’età di Spinoza, il mio primo maestro, Checco Rissone; e poi sotto la direzione del dottor Grassi, uomo di teatro, intellettuale e uomo di partito, il socialista, non quello di Craxi però, quello dei rivoluzionari repubblicani di Spagna, quello dei soci rifondatori a modo loro di Milano, città oscura, nebbiosa, albergo dei poveri, Dresda in minore dopo la guerra; sapessero i rampanti leghisti, quei pochi che si lavano, sapessero gli gné gné né destra né sinistra, sapessero le file di baracche dei sinistrati di guerra in viale argonne e al lorenteggio-milano, le non bastanti fucilazioni di fascisti, assassini, colpevoli di tutto lo sfacelo possibile prima e di fortune non ostacolate poi a proseguire l’esproprio di un paese intero da parte di pochi cappotti di cammello con bordo di pelliccia… golf club di Monza… merde alors. Fu messo in piedi tuttavia nel dopoguerra, il primo teatro pubblico d’Italia, il Piccolo Teatro sotto la direzione del dottor Paolo Grassi, appunto, persona a dir poco eccezionale insieme col suo amico Strehler, chi era costui, che non perse mai l’accento e il dialetto di Trieste, evviva. Dèi, del far bene il loro lavoro d’arte, mica piagnoni – oh pardon anche le piagnone sennò si offendono – sardinisti/e e volémose bene, neutri e trans. 

1974, Dicembre. Ordunque, alla sopravvenuta sovrintendenza del dottor Grassi alla Scala, mi ritrovai tra gli assistenti, Carutti, Tommaselli (e me), più tardi Testi, Abbado, Stetka a costituire l’ufficio regia del teatro, guidato da una che poi sarà nota nel mondo della lirica, Sonia Frisell, regista inglese con una cosa chiara in mente, farla breve… ayeaye sergeant. Punto e basta. Ma non era cattiva e sempre prima di noi nella fatica; precisa, pedagogica; un’intransigente dal volto umano, col vezzo obnubilato di essere bella donna; ci insegnava che ogni nostra esitazione o ritardo o errore erano soldi pubblici che se ne andavano in fumo; insegnava a lavorare… virgola… e in una enorme struttura pubblica e augusta come la Scala e che molti faticheranno a immaginare; a music-box con  macchinisti,  elettricisti,  meccanici, attrezzisti tutti come se piovesse, un reparto di sartoria lungo un chilometro e sarte, cape, capi, vice, aiuti, nuvoli; la scuola di ballo e il corpo di ballerine bellissime e odore di sudore sotto il cerone, coristi, oops artisti del coro bisognava chiamarli e i bambini anche del coro; un’antro di artigiani, pittori, falegnami polifemi alla Bovisa (20158 Mi); un mondo a orario da ferriera, persino con una guardianìa interna di pompieri, bomba antincendio al piede; ivi, noi piccoli e ambiziosi, molto sognatori, ci saremmo sfiancati anni durante con orari sovietici, meravigliosi, stachanovisti. Del resto questo era il mestiere del teatro che tutti intendevano, tutti, voto monastico a un ordine, e lo è(ra), ma se n’è perso il sentimento e il fare. Ho cercato negli anni di insegnarlo, inocularlo negli  allievi miei, solo talvolta con successo. 

A ogni recita noi assistenti dovevamo al dottor Grassi una relazione sull’andamento dello spettacolo in corso, sul rendimento di cantanti e comparse e tutto… come mai fosse in ritardo e perché l’effetto 35bis, e se il sipario e se i ponti mobili non a battuta, ma di un zic, quanto mai, prima o poi, e se il tenore avesse in mano la gelida manina e la situazione. Il dottor Grassi la leggeva, la relazione, e la restituiva commentata. Il foglio veniva messo agli atti in un faldone. Ciò non impedì mai al telescrivente, che era amato si badi, di esercitare il sarcasmo e un qualche diritto al mugugno, una ribellione. Talvolta trovavi una breve del dottor Grassi in portineria; busta chiusa, una sferzata o una lode, tutto motivato. Ostie consacrate che ho conservato. Il dottor Grassi era adorato, temuto, rispettato, bestemmiato ma tutte le mattine entrava dall’ingresso pedonale e attraversava a salutare il palcoscenico al lavoro e a capo scoperto, ché il palco era tempio, del lavoro, in cui scoprirsi. La Scala, gli uomini e le donne che vi lavoravano come benedettini con diritto di bestemmia – oh la meraviglia dei porcatroia che schizzavano come frecce su su pei ballatoi del palcoscenico fino alla soffitta dove colpivano una minoranza etnica, i soffittisti – la Scala mi ha formato. Si piangeva talvolta dalla fatica. O si ciondolava. O si leticava. O ci si sdava per obbedire alle bizzarrie, non di rado geniali, alle rodomontate, non di rado oppressive, di uomini che se dicevano, Qui sarebbe bello avere  un cuscino un coltello  dodici schermidori una tavola che si rompe in due un… si trattava di cercare  e trovarlo e subito il qui-sarebbe-bello. Le parole Eccolo maestro erano accolte con un sorriso di compiacenza, Eh bbravu picciottu, da parte di quei mostri, registi, direttori, cantanti, ma sacri; Montserrat Caballé al colmo del suo stracolmo desiderava sedie, oh in stile certo, per sedersi o appoggiarsi qua e là data la fatica che faceva in scena a trascinare l’enorme pondo, ma ella del canto, nel canto casta-diva tutto il suo stile; stile, ascoltare ascoltare come visse d’arte colei.

Ebbene, quelle relazioni si chiamavano Note di regia. Sono critico e musicale ma non le due cose insieme; Tosca; può essere l’occasione per dire qualcosa di estetica; cioè di etica. Ecco dunque l’ultima mia nota di regia, a posteriori, dicendo poco o niente di regia, non direttamente. 

Sulla scena altissima, buissima, si muoveva lui lo scaccino tra colonne dipinte, poi un Te Deum sontuoso, come nel quadro di un David reazionario e allestito dal regista Faggioni in un tutto prospettico, quinte, ogni cosa dipinta tranne un coro infinito di nobili romani, preti; allusioni, velatino davanti per avvolgere tutto a distanza di incenso. Secondo atto, i classici candelabri a piè del morto, un assassino non lo farebbe mai d’accordo, ma allora si usava così e la scena piombava in un’ombra giallastra di enorme suggestione, Innanzi a lui tremava tutta Roma… coùpet… poi il terzo atto, a notte, con un fondale largo miriametri, illuminato solo da una ragnatela di lumini accecanti, le stelle che lucevano e, che pian piano impallidivano, minuit e minuti e minuti di un effetto ingenuo e tale da destare la ma ra vi glia finché l’alba svaniva per sempre nel sogno suo d’amore e un accenno di rosa toccava il fondo; in controluce l’enorme mole di Castel Sant’Angelo sbavata qua e là di luce per farne sentire il volume, seguiva fucilazione; Mariomario; ovazioni del loggione, bravo maestro, Molinari Pradelli se non ricordo male; un che conosceva l’opera, more antiquo. Rimasi sbalordito benché conoscessi poco l’opera e fossi piuttosto uno snob tutto quartetti, sonate e sinfonie. Ma quanto mi piacque quella Tosca solenne senza una trina né un bottone fuori posto, un impiattamento perfetto.*

2019, Dicembre, 7. Ebbene eccoli lì riuniti davanti alle telecamere; un Bruno Vespa col sorriso da carogna trionfante che abbia appena fatto sterminare un battaglione ma perdìo, la posizione, la quota è sua con tutto, salmerie e salumerie; eccoli lì i pupazzi della comunicazione a rivendicare per sé l’avvento della misteriosa dama, la sciura Cultura – siamo mica per niente a Milano, presempio della cultura – eccoli lì a sbavare sui microfoni gli Scarpioni… ah i giovani da avvicinare la tradizione da rinnovare o no maestro oh maestro… così da sentirsi bien au-dessus; il microfono ben impugnato si sa che alza la statura ed equipara lori, senza talento né arte ma molta parte nei palchi reali, benché declassati a repubblicani, agli Impirei sensa distinsione, e massime a quelli della Tosca che, s’è scoperto oggi, è cinematografica e pulp e thriller e grand Guignol…  noi siamo i giovani/ i giovani più giovani/siamo l’esercito/ l’esercito del surf; ma davvero; cultura,  oh quanta merdità in tuo nome. 

L’occasione ladra fa di ogni erba un fascio d’ambaradàn intorno all’evento inaugurale di ogni stagione; a sostegno dell’opera, intesa come genere, disen lur; ma l’opera di Puccini o di chi vuoi tu, ne avrebbe punto bisogno. Basterebbe ascoltarla con qualche po’ di pazienza perché è vero, risulta difficile; lo è oggi più che mai; lontana e all’apparenza irraggiungibile; bella e impossibile… lo è per i masticatori di Preprecotto doc. Bref, una meraviglia che persino un giovane – chi  è costui, borgataro, ignorante funzionale, anencefalico, bollito misto, ma chi sa chi lo sa – se ne accorgerebbe, a volere. Le genti insistono a cercare e a dire di qualsiasi fatto di cui non trovano la chiave di accensione, sarà ibrida; di quel che non toccano col dito, la luna per esempio, ah dev’essere un’altra cosa, ma che cosa ma che cosa; si aggrappano a trovare la corrispondenza con le loro vitine, senza escludere le brugole, e i pensierelli e, oh che emozione che emozione sciura Cultura, che gioia l’inno alla gioia, basta spiegare; Tosca le risulta sciura che l’è un inno alla libertà, che è donna beninteso, libertà parapà parapà parapappapappapà. Ma v’là.

Tutta l’arte ha in sé il lutto, altro che, quel canto di morte, chiù, che fa la differenza e sprimaccia il dubbio, il pensamento, infine anche le lacrime, perché ogni cosa che vola, è un banchetto di dèi sotto l’ali non dell’angelo ma della Sfinge o di chi altro, di Apollo, direbbe Nietzsche. C’è la fine, gli ultimi, i miserabili, il piccolo tamburino nella neve di  Adorno (Wagner-Mahler) o le due parole che chiudono Lezione di lingua morta di Andrzej Kuśniewicz, E gela; presagi. Tosca alla fine non sfugge a sostanziarsi in presagio. Ogni opera è presagio, quella che più quella che meno. Pensare anche solo al Walzer n°2 di Shostakovich, aaa Lolita, aaa Portnoy, aaa Guerra e pace. Importa assai che la Sagrada familia sia una chiesa, vardé il tessersi della recondita armonia da restarne annichiliti, cascare sbalorditi dalla rivelazione dell’intelligenza tutta terraterra che ha potuto concepire quel sovrapporsi di linee e volute e volumi e temi, di sincronia che è sinestesia; Puccini e/è Gaudì. Intorno invece una corolla di scempiaggini, Tosca è da cinema, femminista dice nel foyer una vieille rombière scordatasi di sé quaranta fermate indietro così che esibisce il proprio ego-fui, esibisce cioè il vestibolo della tomba sotto chincaglieria e veli; che nessun li disciolga per carità chè il tessuto si sa è più longevo della pelle umana. Tosca non è cinema grulla perché è teatro e il teatro è sincronico, il cinema cronologico, non lo complicasse il parlato e la musica, che sono sovrapposizioni, non sostanza.

Sono per natura ostile, scorgo, afferro e rigetto  l’inganno in qualsiasi forma di propaganda in genere e massime di un’opera d’arte che non sia l’opera stessa e dunque Tosca; Tosca, la musica in genere è inascoltabile senza che il troppo psicotropo che inietta, che monta l’anima a neve soda, che fa anima direbbe Hillman, erompa di necessità fuori  dal soggetto, lacrime o canto; loro i cantanti che possono tanto, loro possono, o i ballerini; quelli bravi; che cos’è un bravo cantante se non chi si fa canto e un ballerino colui che si fa musica o cosa balla a far cosa… E chi scriv(eva) e chi pittur(ava). Che non insegue progetti, che non ha un’idea. È il suo cantare che ne incarna qualcuna. Canto è esserci, non finirò di ripeterlo, ma non lo dico io, lo scrisse Rilke nel sonetto IV dei tanti elevati a Orfeo. Da credere che attraverso qualsiasi arte si manifesti questo assunto. La letteratura ha il dono e il privilegio dello straniamento, die Verfremdung. La pittura anche, ma tutta l’arte è esserci. L’opera d’arte scaraventa su una spiaggia al buio, tra mare e mura di Ilio e arrangiarsi. Tolstoj lo capì bene in Sonata a Kreutzer. Si gioca in un altro mondo; già all’altro mondo.  La musica, l’arte non è innocua. Consiste nell’apprestare una sedia in più a tavola per l’ospite inatteso… la maschera della morte rossa… come nel vivere, come, solo che qui si tratta di fabbricarne apposta un altro. 

Sembra l’ovvio ma a parlare di cultura si confondono le acque; ah ma mica un caso, l’abilità del giornalista è confondere, ascondere, ridurre a sé; l’arte, oltre che dal giornalismo, è di là dalla cultura, benché quella di questa possa costituire lo scopo, di qualsiasi coltivarsi che sia impegno e costanza e voluttà. Farla breve l’arte praticata si avvale anche di una cultura – i musicisti furono non tutti ma furono colti, ciascuno a suo modo; sapevano, conoscevano, leggevano – e produce l’opera, l’artefatto in cui la cultura se mai è sotto traccia, talvolta la traccia ne scompare egualmente anche quando sembrerebbe palese… a margine, attenzione alla facilità scempia con cui si attribuiscono patenti di genialità e di artisticità a qualsiasi sciocchezza, così che l’abbattimento, la riduzione di ogni opera all’uno dell’indifferenziato, di ogni lavoro alla marmellata della  più bassa qualità, ma più appetitosa, più marketing, più cinema, più pulp, più giovane. Più amen e arrivedercela. Ecco l’artista, declama Tosca al cadere sparato di Mario Mario.  

Ecco. Quarantacinque anni dopo il sette dicembre 1974, il sette u.s. non ho visto nulla più di uno di quei teatrini di giocattoli epilettici che girano in tondo, allestiti fuori dalla stazione Centrale del Milano da singalesi, qualche pakistano, tutti globalizzati, vrrr vrrr vrrr e ron ron ron petit patapon.

* Poscritto. Quando raccontai alla signora Frisell del mio entusiasmo per quella Tosca così tradizionale, nel 1974 era naturale, lei accolse il mio sentimento con una misura di sarcasmo inglese, Ma come, un rivoluzionario come te. Sì sì, mi pare di essere soltanto riuscito a replicare ma avrei voluto dire che la rivoluzione è una questione di stile. Era epoca di eskimo e finzioni operaie; operaio sindacalmente e normativamente parlando lo ero e mi cambiavo per lavorare, Strehler mi chiamava camicia rossa per via della stessa in flanella, ma fuori, me, loden e papillon come il mio maestro Rissone, che mi chiamava sogno di un walzer ma era stato comandante di una formazione partigiana nell’astigiano su per i bricchi e non si vestiva né da rivoluzionario né da artista, lo era. 

About dascola

P.E.G. D’Ascola ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: "Le rovine di Violetta", "Idillio d’amore tra pastori", riscrittura di "Beggar’s opera"di John Gay, "Auto sacramental" e "Il Circo delle fanciulle". Sue due raccolte di racconti, "Bambino Arturo e il suo vofabulario immaginario"" e "I 25 racconti della signorina Conti", i romanzi "Cecchelin e Cyrano" e "Assedio ed Esilio", tradotto questo anche in spagnolo da "Orizzonte atlantico". Nella rivista "Gli amanti dei libri" occupa da molti anni lo spazio quindicinale di racconti essenziali, "L’ElzeMìro".
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3 Responses to Tema: Tosca

  1. Biuso says:

    Grazie, caro Pasquale, per questo racconto, ulteriore e magnifico.

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  2. Biuso says:

    Un capitolo di storia del teatro contemporaneo, caro Pasquale, con il quale fai entrare il lettore negli spazi della Scala, nei suoi pensieri.

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    • dascola says:

      Ecco, caro Alberto, fatto centro allora. Da dire ne avrei, ma in grossa sostanza fu così; allora non ci rendevamo conto, non tanto; qualche volta la voce di un anziano ci ricordava, Ti rendi conto di dove lavori;non davamo tanto retta, anzi quella devozione un po’ superba al tempio, almeno a me che, lo sai mi si arruffa il pelo quando sento odore di sante memorie, dava un po’ sui nervi; mi sembrava troppo, tutto troppo. Non mi sentivo all’altezza e prova ne sia il fatto che mi amazzavo i lavoro per esserlo. Ti dirò una cosa che nessuno o quasi sa, di tutto mi piaceva da matti essere di servizio la domenica o meglio lunedì mattina, quando tutto il teatro era di riposo. Toccare il palcoscenico deserto o percorrere i corridoi vetusti, che sapevano di tappeto e scala, odore particolare, un misto legno e detersivo, ti giuro mi dava le vertigini. Allora mi domandavo se davvero ero lì. Una sensazione che Barrault descrive bene nel suo bel libro Réflections suo le Théatre, il grande silenzio della platea vuota, l’odore del sipario, Proust capì bene il valore dei profumi per la costituzione di un essere, ma che senza ricorrere a qualche po’ di letteratura è impossibile restituire. L’è che i teatri, non tutti, certi, hanno un anima, un po’ come le chiese antiche ( Proust), come se i muri conservassero l’eco delle voci, dei cortigli, delle proposte amorose sussurrate, delle imprecazioni o delle preghiere.Di fatto le costruzioni moderne senti che non suonano. Vabbè perdonami questa deriva spiritualista. A parte la quale oggi se penso a quell’epoca, davvero di storia del teatro, se penso alle persone che ho conosciuto, con cui ho lavorato, sai il Gotha, quale non si è più rinnovato; se penso a Abbado a Kleiber, a Prêtre, a Böhm che andavo a prendere in camerino per accompagnarlo in buca che aveva novant’anni, e Gavazzeni, che mi invitò a un pranzo al gran hotel di Salsomaggiore dove villeggiava per farmi passare un esame di cultura generale onde stabilire se fossi o no degno di lavorare con lui; a parte Strehler, che era quello che fu andai al suo funerale, che ne so Chazalettes, lo stesso Crivelli che ha novant’anni e che sento ancora e mi chiama Virginia, Woolf naturalmente, o Zeffirelli, che mi fece una corte senza vergogna, e garbatamente declinata, roba che dovrei iscrivermi a metoo, se allora non esistesse un naturale senso della cavalleria e dell’umorismo. Ponnelle, odioso sgorbio ma che sapienza nel dirigere, sempre con un fiasco di whisky accanto e non so quanto pacchetti di Gauloise in tasca. Patroni Griffi, un conte in tutti i sensi, uomo del Regno di Napoli. Pizzi e poi e poi, la Fracci, che vidi nuda in camerino, non per errore, lei non si scomponeva, la sarta la stava asciugando tra il primo e il secondo atto ed era un preparato anatomico, la Razzi; ah Nurejev, Bejart. Non parlo di chi dirigeva che erano persone alte, a parte Grassi che fu quello che era anche lui. Ho visto il mondo che non c’è più, che non esiste. Che non è possibile. A tutti i piani, domina il pupazzo, o il joker. O la sardina.

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