Jonathan Wateridge – Matinée, 2011
Concludo con anticipo che seguirmi sarà difficile non poco. Nemmeno io so esattamente dove e come annodare il filo dei discorsi che finisco per accozzare qui in forma tripartita, di sonata; il cui adesso, primo tempo, appunto si può dire…
I – Adagietto. Sehr laxsam*. C’era una volta il dottor Lax, chi era costui poco importa, reduce o esiliato o residuato del mondo dove vissero Roth, Bruckner e Canetti; nei giorni in cui era a pranzo da certi signori e dopo ore di musica, verso sera levava di tasca il suo ferroviario imperialregio Roskopf, già di suo padre doc Lax the elder, e senza deroga, senza deroga alcuna, Oh il tempo avanza ma io vedete che lo tengo al guinzaglio, usava dire e aggiungeva, Gli orologi da polso sono manette insopportabili. Qualcosa di ferramenta detentiva, lui che fino al 1943 era stato a Ferramonti, ne sapeva. Avvenne da ultimo che Àtropo, Ἄτροπος colei che non si volta, stava lì a gingillarsi con le sue luccicanti cesoie e con lo scampolo finale del tempo di lui, senza decidersi se troncarlo o no, sicché sfilando a lei dal fuso tomo tomo quel frustolo ecco come finì il dottor Lax; aveva preso a non mangiare, fu ricoverato e dell’ospedale rifiutava il cibo; paranoia o verità, non poteva tollerare che il suo riso, le sue carote, la scarola e le cipolle fossero schiumate dalla stessa pentola dove bollivano i cadaveri, diceva lui da vegetariano, il brodo ovvero di carni pe’ pazienti altri, i sarcofagi; tutto il cibo di mense e trattorie era a suo modo di vedere condannato dalla promiscuità con prosciutti e cotolette. Morì di fame il dottor Lax per non partecipare all’olocausto quotidiano.
II. Allegretto. Lebhaft con sentimento. Qualche alba fa mi è apparso un pensare inusuale, di pensare cioé, with all due respect, ai detenuti; in particolare a quanti lo sono in questo momento ma, in generale attenti, ché il conto è infinitesimale. Tutti sapete il mantra caro a certi mali ceffi che si ritengono alieni all’animalità, In galera e buttare la chiave; in più, da tanta parte d’Italia mi suonava una domanda, retorica come tutte le domande che rispondono senza interrogarsi, tranne talvolta, Che ore sono; una domanda all’indicativo imperfetto, nel campo del reale immaginato, dunque retorica, e che mi sono volto al condizionale, condizionale come una pena detentiva, se avrebbero potuto i detenuti giù per la penisola, aspettare tempi migliori per ribellarsi, e poi perché saccheggiare li codoni, ossi, meta e naloxoni delle infermerie. No, la risposta al condizionale perfetto è stata, non avrebbero potuto. Probabilmente per paura ma con maggiore probabilità perché vivere assediati anche da un morbo oltre che da una cinta di mura e dal brutto egemone e istituzionale che domina, con poche eccezioni, l’ambiente carcerario, vivere senza l’unico motivo di Mitsein e di conforto dei colloqui col loro extra-mondo, genera chissà quali mostri di sconforto, angoscia, furore o rabbia, la banale rabbia dell’animale all’angolo; e con animale mi riferisco senza differenza a tutti bipedi e quadrupedi, sciacalli come Salvini, artropodi e jene come la Meloni (aspetto la denuncia ma jena e sciacallo non sono insulti ma tassonomia) Quanto alla droga, ebbene, ci si droga per in qualche modo suicidarsi; diritto così insultato gravemente; la cintura dei pantaloni o il cordone della radio chiedono una dose di coraggio che non tutti; la cintura, esser chiari, non frantuma le cervicali, mal applicata strangola, un po’ per volta finché morti non ci separi e, c’era una volta; riempirsi di tutto che si trova nell’armadietto d’un dispensario medico, è magari più indolore… le brave e pie Dame di San Vincenzo negli anni del boom che si domandavano come mai la signora D’Avàno facesse la la là, sa sa sà la vita… ebbene l’unica che il destino le aveva provocato o procurato; funziona a muzzo il destino, vùm vum vùm vum, è in do minore il destino e la signora D’Avàno forse, sarà morta, sicuro, magari per mano del marito, libertà libertà libertà, che la vendeva tot a chilo. Tutto vero si badi.
III. Finale. Vivace. Ausdrucksvoll. A prescindere dalla necessità della pena per il reato messo in atto, a volte orrendo non discuto, il detenuto vive la più curiosa delle privazioni, ma sotto pelle non dico nello spirito che aleggia sulle acque, la privazione del tempo, chissà se lo sa; lui tempo che cammina sulle sue due gambette, come tutti, il detenuto si trova nella condizione di privazione più metafisica, domanderei al mio amico Biuso se tale è corretto definirla, la condizione di chi è costretto a vivere a ripetizione un istante segnato da inceppate sfere, al tempo del delitto per esempio. Un tempo a macchine ferme. Il vivente cammina avanti; la religione razionale, la legge, il sistema dei delitti e delle pene e del controllo, tranne nei pochi casi virtuosi, marcia sul posto, fissa per sempre nel suo reparto orologi l’istante del delitto, della condanna, e offre con la privazione del tempo la sua pena principessa. In questo è quanto mai cristiana. Ora pare che una detenzione del terzo tipo riguardi tutti, tutti alcatrazzi senza uccellini né gabbiettsaviae, tutti i ragazzi with all due respect del ghetto di Varsavia (belli loro la polizia ebraica, bei bastoni per incarognirsi sulle schiene cugine), tutti with all due respect dei ghetti di Gaza, di Hebron, di Betlemme, tutti ingabbiati dai gadget di sopravvivenza comune, giochi per macchine, carte da giochi; tutti ammanettati ai propri buttare via la chiave, ai propri te la do io, pregiudizi, arrières-pensées, a idee tanto mummificate da essere sarcofagi (alla lettera, magnamorti) ingabbiati, coatti, sotto assedio; e se mancasse la corrente che ne sarebbe dei computer più veloci del mondo… e se si intasassero tutte le pornotube dei server di falloppio… augurarsi che Apollo non artigli con le sue frecce i nanetti delle centrali elettriche. Dunque come e perché rispondere a una domanda che, essa sì avrebbe potuto/dovuto, dovrebbe aspettare e non ripresentarsi alle porte. Ogni assedio è una macchina del tempo. Che macina e rigetta du weißt wohin. Lì sullo smeriglio dello specchio in bagno mi vedo farmi un cenno. Fuori suona le sue trombe la protezione civile.
*(ted. molto e giochetto di parole con langsam, per lento.)
Caro Pasquale, in questa tua densa e bella cronaca/invenzione/racconto mi poni una domanda sul tempo di chi si trova in prigionia. Ti rispondo con le parole di un altro facitore di cronache/invenzioni/racconti:
“Ils flottaient plutôt qu’ils ne vivaient, abandonnés à des jours sans direction et à des souvenirs stériles, ombre errantes qui n’auraient pu prendre force qu’en acceptant de s’enraciner dans la terre de leur douleur .
Ils éprouvaient ainsi la souffrance profonde de tous les prisonniers et de tous les exilés, qui est de vivre avec une mémoire qui ne sert a rien. […] Impatients de leur présent, ennemis de leur passé et privés d’avenir, nous ressemblions bien ainsi à ceux que la justice ou la haine humaines font vivre derrière des barreaux”.
Albert Camus, La peste, Gallimard 1985, p. 72.
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Oh, Je ne me remémorai plus de ces belles lettres ; de ces mots sombres et profonds dont tu m’as fait ainsi cadeau. La peste, lue a 18 ans, peut-être, aimé certainement, mais j’envie ta faculté de resituer un discours dans sons contexte précis. Alors j’en ferai le prochain exergue. Merci, merci, merci Psq.
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