Sono venuto a New York perché è il più miserabile e abbietto di tutti i luoghi. Lo sfacelo è dovunque, la disarmonia è universale. Persone infrante, cose infrante, pensieri infranti. La città intera è un ammasso di rifiuti. Paul Auster-Città di vetro
È una scrittura solid state quella di Patricia Odriozola, solida; ogni parola, frase, complesso verbale, interpreta il ruolo di detrito, di avanzo murale, di memoria delle costruzioni demolite e seppellite sotto una coltre di terra, la mal riversata dal generale d’aeronautica Osvaldo Cacciatore – https://es.wikipedia.org/wiki/Osvaldo_Cacciatore – e intendente di Buenos Aires 1976-1982; il tutto ciò che le dittature congenite al sud delle Americhe, hanno cercato di nascondere senza riuscire a seppellirlo – viene in mente Un sorso di terra di Heinrich Böll e l’ossessiva lì come qui in Felisberto presenza dei guardiani – e il cui fiato di tomba alita tra le righe scritte e le dighe erette a fingere un oasi naturalistica, la reserva costanera; affacciata sulla Plata, è quest’ultima il teatro di questo mirabile lavoro letterario, Felisberto, traduzione di Alberto Aséro, Orizzonte Atlantico edizioni, lavoro che subito, per antica deriva professionale, ha rifiondato me su un palcoscenico.
Va detto tuttavia e con pudore al lettore esperto, e più esperto di me tout court di letteratura atlantica, per dire argentina, che appunto non ne sono né un frequentatore né un noto conoscitore; sì il minimo indispensabile ma ammetto di avere poca esperienza di Borges, un po’ migliore di Marquez, con piacere sommo tuttavia, perplessa di Neruda – il cui nobel, opinione contestabile, mi parve come in tante occasioni attribuito alla militanza con poco riguardo a una poesia, modesta, sentimentale, puerile come le canzoncine di Dylan, nobel alle adenoidi, opinione contestabile –; minima di Cortázar, frammentaria di Puig sì, amable, qualcosina insomma e con quella mancanza di cognizione delle differenze autentiche che impongono i chilometri e le altitudini tra Cile e Perù e Argentina e Messico; scoperta infine e da poco una stella splendente, Alejandra Pizarnik, che nacque a Baires, visse a Parigi e si suicidò – i periodisti mascherati direbbero si tolse la vita per farlo suonare un poco come si slacciò il reggiseno – 37 anni anni dopo a Baires.
Questo per dire che il luogo di partenza e di arrivo conta, noms des lieux, scrisse Proust. Felisberto si apre su un luogo immenso, l’estuario del Paranà col suo mar de la Plata, immenso, come immensa appare la Reserva Costanera, 3.5 km quadri, in cui approda Ignacio, l’altro nome del romanzo, con l’intento di liberarsi di uno zaino di oggetti e oggettini ammassati a costituire il suo bagaglio di ricordi – il carillon della nonna, la lettera di addio della moglie Úrsula titolare unica di un vero nome secondo Ignacio – sopravvivenze tutte da affogare, cancellare, dimenticare gettare via – gesto che non riesco a non associare ai lanci in mare di quelli che verranno chiamati desaparecidos; olvidados mai – là dove è stata sepolta un parte di città, in altri termini di memoria, di romanzo; romanzo poi, lo sarà sì lo sarà no Felis-berto. È racconto quel dell’infeliz-berto, cunto in napoletano, conte di conteuse, non sto divagando, cerco di non farlo, credo che la precisazione sia utile. Il cunto è in principio un parlato, narrazione – in cui per quel che mi riguarda ritrovo bellamente me stesso –, basti pensare a Saramago le cui opere sono principalmente contate prima di essere scritte. Questo discorso si può applicare anche ad altri autori ma ognuno rappresenta, come l’autrice, voce di Felisberto, la propria differenza. Qui però è bene fermarsi prima di perdere la testa in una non nuova teoria del romanzo. Luogo e clima continentale variabile, inquietante, fiori e ragni e serpenti spaventosi, vegetazione apocalittica. Mi piacerebbe che il lettore già fosse intrigato alla lettura di questo Felisberto. Clima. Geografia. Esterni/Interni, Cinematograficamente parlando la signora Odriozola stacca da esterni, giorno o notte – ma il tempo tende a essere una linea – a interni incapsulati nella memoria, senza tempo dunque, salotti, cucine, camere da letto, fino a una pasticceria che è il luogo solido del finale, luogo del ricordo, luogo impersonale, luogo del Godot. Non è casuale il salto, è sceneggiatura. Non si vuol dire con ciò che Felisberto aspiri a divenire film, non lo credo possibile; Felisberto, che è un desaparecido al reaparecer sobreviviente e Ignacio sembrano costituirsi in un terzo atto mai scritto per Vladimiro ed Estragone; del tutto anticinematografici; se mai uno sceneggiatore dovrebbe puntare a mettere a fuoco i molti dialoghi stralunati e incoerenti di Felisbo e Gnacio; se Vladì ed Estrago sono surreali gli altri due come dire, sono schizofrenici… ohi ohi come sono stupide le etichette; il vaga(me)nte io che scrive, le trova simili al professor Unrat dell’Angelo azzurro, clown sotto il colletto duro. Ci sono migliaia di parole in Felisberto da leggere una a una, quasi dimenticando che un romanzo è una costruzione da visitare ma come quest’ultima vale per ogni singolo corridoio, andito, terrazzo, solaio – ricordo molto bene la visita a casa Batló di Gaudí a Barcellona – occorre sentir risuonare di Felisberto ogni svolta che la traduzione oltrepassa in modo magistrale, ovvero creando un italiano plausibile in spagnolo e non viceversa com’è comune ai traduttori – per tradurre occorre essere artista quanto, se lo è, l’altro; per scrivere occorre essere pittori o musicisti, mai giornalisti o pubblicitari, vade retro allievi di corsi di scrittura, la scrittura è un dono degli déi non la pagella di una scuoletta; ricordo l’uggia delle traduzioni da Molière o Shakespeare che sconciavano gli originali usando il vernacolo toscano o una lingua asessuata, se si potrà ancora dire asessuata oggi che di sesso non si può dire, ma di genere e sono trentacinque, a stare a sentire, ma tutti uguali, il che a logica è illogico –. La traduzione qui è una sorta di italiano straniato dall’italiano, una traslitterazione del voluttuoso idioma ispanico del Baires – lo immagino, non lo so come sia l’originale ma mi piacerebbe saperlo – in un italiano voluttuosamente acquisito e ripensato dal catalano, così come quest’ultimo fu ripensato per una comunità di luoghi costruiti, per l’appunto, sulle memorie di persone dalla memoria ricostruita, tali gli emigrati. Il bello di una traduzione è quando rende plausibile la sensazione, fino a tramutarla nell’ipotesi che di traduzione non si tratti ma di originale; così ogni tanto il traduttore Aséro sagacemente lascia suonare parole locali, campanelli che ricordano al lettore, guarda che sei lì non qui dove credi; sei in volo sopra Buenos Aires non per Buenos Aires. Scendi, pilota/ fammi vedere, scendi/a bassa quota/che guardi meglio/e possa raccontare/cos’è che luccica sul grande mare, cantava Paolo Conte in Aguaplano e Yo tengo la suerte de ser argentino, cantava un vecchio vals, valzer, mi appartiene il destino di esser argentino…