We are, famously, a nation of escaped convicts, younger sons, persecuted minorities, and opportunists. This fame is local and racial: white America’s myth of itself. It does not, obviously, describe Native Americans and African Americans: though they are theoretically free to partecipate in mythic America’s notions of vigor and self-creation, to do so involves sustained acts of betrayal or disloyalty toward origins they conceivably had no communal wish to escape. Oppression, for these groups, did not define the past; it replaces the past, which was transformed into a magnet for longing.
The myth elaborates itself in images and narratives of self-invention––drive and daring and gain being prized over stamina of fortitude. If the Englishman imagined himself as heir of a great tradition, the American imagined himself as the founding father. This difference resonates in political rhetoric: American aggressive might (usually called defense) and acquisitiveness (sometimes called self-improvement) as opposed, say, to the language of appeal that links Churchill to Henry V, a language that suggests the Englishman need only manifest the virtues of his tradition to prevail. These appeals were particularly powerful in times of war, the occasion on which the usually excluded lower classes were invited to partecipate in traditions founded on their exclusion.
Like most myths, this one has some basis in fact.
Louise Glück – American originality, essays on poetry – Farrar_Straus and Giroux N.Y. 2017 – INTRO
Non credo, non mi parve a suo tempo e in modo impreciso non mi pare adesso – mi smentiranno i risultati – che l’America sia in toto that Pink-yellow Tramp, il roboante killer di fiumi e foreste, il faccione mascellone asso pigliatutto; trovare definizioni divertenti è un mio sport che non serve né conclude niente quindi basta. Come vada o come non vada è evidente che quel lì è un dei peggiori mali venuti dall’America del Nord, secondo a chi non saprei ma in lizza per il primo posto, e tant’è. Se il giudizio balordo del popolo dal dio pellegrino, avrà il potere di farci risvegliare tutti domani in un altro incubo di guerra lampo all’universa terra e non nell’allegro Westernworld stile Patto di Monaco in cui ci culliamo con tutte le sue dichiarazioni d’intenti soddisfatti (i principi i principi), e la sua drôle de guerre a colpi di machete, bè che vi vuoi fare, china il capo senza avvicinarlo troppo alla zip ( lampo); dei pantaloni altrui s’intende. Stop.
Ma l’America per noi, dico per me bambino delle elementari sessant’anni orsono, era il gusto di disegnarne la carta geografica tratteggiando con impegno e voluttà il verde delle praterie, il bruno delle catene montuose e il blu dei laghi, i più grandi s’intende i grandi laghi e di là il Canada; il Canada non suscitava tutto l’excitement che invece ci scatenava quasi tutti in classe a sapere e memoria e quanto è alto l’Empire State ( empire eh già) Building e quanti 48 ( allora) sono gli stati e quale l’ultimo degli uniti, e alta quanto la cima di una rocky mountains e lunga quanto la ferrovia da New York a San Francisco e quando il golden gate e quanto il brooklin bridge. America per noi era il paese delle iperboli e delle meraviglie, del Coca Cola e del sevenap, porcherie colorate a me vietate senza omissioni (ahi le feste dal compagno ricco dove ne scorrevano fiumi e poi facevo indigestione e poi vomitavo senza deroga alcuna), delle gelatine di frutta in estate dagli zii a Firenze; di frutta non avevano dentro niente tranne un tremolante color limone o lampone, squisite nefandezze che si trovavano però soltanto all’Esselunga di Firenze in viale De Amicis; unico negozio italiano insieme con quello di Milano, via Bergamo, semiperiferia, ma a Milano dove si capisce gli Americani saranno stati tre, la roba americana non si trovava, Firenze invece, sapori di casa e la compagnia del resto era del Caprotti milanese e del Rockfeller americano.
L’America era il cinema. Anch’esso grande e mirabile, inconfondibile. L’America era, Siluri uno e due fuori, di John Wayne e Robert Mitchum, l’America era, Sissignore signore, l’America era, Fammi tacere quei nazi figliolo, l’America era i lanci di sten per i partigiani di cui avevo in casa un campione privato e personale, mio padre, eroe decorato che con gli americani faceva l’intelligence, l’America era il nostro privato amico americano. L’America era la sorella di mia mamma in bikini seduta sulla sua Chevrolet Impala a Fort Lauderdale. L’America era il mito dell’America, guadagnato col sangue e incrinato ma non estinto molto tempo dopo dal sangue e dalla critica sanguinosa delle malefatte che via via si scoprirono dell’America, a cominciare dal Vietnam. Quando tuttavia nel 1976 per un’estate fui in America, oh cielo, oggi si avvera il sogno e siamo in America. Ricordo l’arrivo al Dulles di Washington, sera acqua come se piovesse, fradici, e poi nella cantina dell’albergo bianco e rosso di mattoni a vista, alto e lungo come una fabbrica di qualcosa, il primo pollo fritto (non ero vegetariano allora e benché mi nutrissi quasi in esclusiva di dolci, pasta e minestroni, un polli fritto mai e poi mai l’avrei rifiutato, come in Green book) cotto e servito nel cartone, oh meraviglia, da due immense ostesse viola tanto erano nere. Allora esistevano davvero i ne(g)ri, ricordo bene che pensai in incognito, chi ne aveva mai visto uno se non al cinema. Ma il cinema è il cinema. L’America esisteva davvero. L’indomani mattina uscii alle sette, camminai in mezzo agli americani, osservai operai americani srotolare cavi in una condotta, macchine americane sfilare in strade larghe come autostrade, bambini americani; mi infilai in una enorme caffetteria brutta proprio come in un film americano, con le panche rigide di pegamoide rossa, sissignori un orrore alla Tarantino (non che qui i bar e i caffè fossero le sciccherie tutte figa e architetto di oggi) e sissignori ordinai e mangiai uova e pancetta col pane a cassetta che più bianco non si può e caffè, caffè americano, mezzo litro almeno, un’overdose di caffeina. Basta ero diventato americano come des Esseintes in À rebours diventa inglese cenando al café Anglais di Parigi e così decide di non partire più per Londra avendo già assaporato aria inglese a sufficienza. E poi e poi il ristorante chic dove mi fu assegnata una giacca e una cravatta e me la scelsero persino, e poi e poi New York per andare dove presi lo shuttle ma ormai mi sentivo veterano del volo come, come un americano e non sto a dire l’emozione di farsi domandare da un marinaio del ferry per Staten Island, Da dove vieni ragazzo dal Texas, (cercavo di frullare il più possibile il mio non brillante ma pare piuttosto mimetico inglese) e giù a ridere quando seppe che ero italiano e milanese; seppe situarmi con compiacimento sulla carta dell’Europa al nord dell’Italia. Ripartii con rimpianto benché sapessi che mai avrei potuto sopravvivere senza l’Inam, la ASST di allora, l’Univeristà gratis, cui ero stato costretto a iscrivermi da mio padre dopo la scuola del Piccolo Teatro; che non avrei superato nessuna prova di coraggio americano per fare in America lo stesso mestiere che facevo con diecimila garanzie alla Scala, salvo renderle in ore di lavoro forsennato e sissignora alla mia capa canadese. Non avrei anzi mai superato nessuna prova; New York era un’isola violenta non diversa da quella di Iena Plisski in 1997 Fuga da N.Y.; si girava con 20 dollari in tasca, il prezzo di una dose di eroina e il resto ben nascosto nei calzini se ti fossero serviti altri soldi; gli americani pagavano con tesserine di plastica. Che cos’era la carta di credito me lo dovettero spiegare. Ecco. Eppure l’America era altro allora ed altro è adesso, altro dal confetturato rosa, e da quel Kissinger che condannò il Cile a Pinochet. L’America mi parve allora e pare ancora ma la terra crudele del cimento e dell’invenzione, del cinema, della musica, della pittura di Schnabel. Un’isola New York, probabilmente ancora assediata da un contorno di masse villane, villini e proletariato mentale, i grandi elettori obesi persi che vanno alle manifestazioni con la bandiera confederata alzata sulla sedia a rotelle, le vittime dell’alimentazione forzata a ormoni e antibiotici arachidi e t-bone-steak.
Ecco perché in definitiva questo Voices of America. L’America che con un misto di ingenuità e ammirazione amo, l’America di Allen (dispetto dell’indignazione qui e là delle intecherite zie Begonie dal Rimprovero), degli Auster e dei battere della E Street Band di Springsteen che piovono dal cielo esatti come paracadutisti delle 101ª aviotrasportata sulle Ardenne, del mito degli eroi rurali, dei poveri spazzati a margine da un sistema iniquo come un tempo dalla frusta dei cocchieri nella Russia degli Zar. Quei poveri si rivoltarono, non saprei prevedere se il voto di oggi potrebbe rappresentare una rivolta e di chi nel caso.
‘Neath a crowd of mongrel trees I pulled that bothersome thread
Got down on my knees, grabbed my pen and ed my head
Tried to summon all that my heart finds true
And send it in my letter to you
Whoa!
Things I found out through hard times and good
I wrote ’em all out in ink and blood
Dug deep in my soul and signed my name true
And sent it in my letter to you
In my letter to you
I took all my fears and doubts
In my letter to you
All the hard things I found out
In my letter to you
All that I found true
And I sent it in my letter to you
I took all the sunshine and rain
All my happiness and all my pain
The dark evеning stars and the morning sky of blue
And I sent it in my lеtter to you
And I sent it in my letter to you
B. Springsteen – Letter to you