C’è tutta una letteratura, critica, epistolare, biografica e agiografica, anadiplòica, che tratteggia lo scrittore, l’artista, come vittima e la scrittura come passaggio per tormenta, tra le fiamme. Ho letto di recente, a proposito di chi non importa, in una rivista peraltro bella e intelligente (Pangea) di voragini, vertigini, incendi e fiamme appunto; ma che c’entrano mai con la meticolosità dell’arte (interrogativa retorica): Ai postumi l’ardua sentenza, ma solo in caso di cirrosi. Mito autodistruttivo e tortura, e ddolore e morte e ssilenzio e angoscia e cche palle, diceva in un bellissmo brevissimo sketch la geniale Anna Marchesini. (vedi e impara)
In realtà no, sì e no, non credo. Certo che eliminarsi – in qualche modo, non solo cruento – è il bout, il perfezionamento via via dell’opera, qualsisiasi, ma poi ma poi caro mio si scrive o si pittura o si compone perchè si scrive e si pittura e si compone, non c’è nessuna sofferenza, nessun travaglio, nessun abisso, lo disse bene e in chiaro De Chirico a suo tempo. Poi sì, certo che si passa per le fiamme al ca(m)mino. Ma del crematorio. E allora vien via chissenefrega.