E come potevamo noi cantare


Con il perplesso interesse dovuto al recente eccesso di standing ovation leggo l’esornativa voce Måneskin in Wikipedia. E ti esorto a leggertela. Supera in righe Dickinson, Sexton e Benn giusto per dire qualcuno, regge Cimarosa tuttavia. Nell’articolo, tra tutti i riconoscimenti attribuiti ai quattro bravi ragazzzi, manca il premio Bella-di-Cerignuola; riconoscimenti tutti che, forse perverso, un sistema tributa a tutto ciò che è qui-e-adesso, in una sorta di attualismo presentista che presenta e ripresenta tutto l’identico al minimo, al niente, alla Tale told by an idiot, full of sound and fury, Signifying nothing: basta che duri un minuto. Mi pare sia la cifra del Momento; contenitore che ho l’impressione abbia superato in capienza quello dell’Oggi, e che sia al troppo pieno. Per il resto, e parafrasando il filosofo, fratello del più o meno noto pianista per mano sinistra Wittgenstein, Su ciò di cui non c’è proprio niente da dire, occorre tacere. Qualsiasi riga in più è propaganda.

Ricordo in proposito una bella canzone di qualche successo nell’a.s. 1963/64, nella 1a sez.  C della Media Statale Emilio de Marchi, quella che fa, e come potevamo noi cantare/ con il piede straniero sopra il cuore. Ecco il piede non è più straniero, non ha corpo, non è nemmeno un piede, non ha nazione di riferimento, è un incantesimo senza incanto, senza il fascino delle streghe di Macbeth; non bolle sangue di drago in calderoni: fa squittire i registratori di cassa. E vince su tutto, spiana, avvilisce, svilisce, spaccia una ganja tagliata con soda caustica, la fa saggiare alla massa che a San Reminbarca va alla consueta messa prodefunctis. Cantata. Male come da concilio vaticano e col prete che ignora chi sia il morto ma ne parla benissimo a telecamere unite. Applausi. Amen a mai più.

Signore e signori, Alle fronde dei salici. Canta Salvatore Quasimodo

«E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento».

in Giorno dopo giorno

 

About dascola

P.E.G. D’Ascola ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: "Le rovine di Violetta", "Idillio d’amore tra pastori", riscrittura di "Beggar’s opera"di John Gay, "Auto sacramental" e "Il Circo delle fanciulle". Sue due raccolte di racconti, "Bambino Arturo e il suo vofabulario immaginario"" e "I 25 racconti della signorina Conti", i romanzi "Cecchelin e Cyrano" e "Assedio ed Esilio", tradotto questo anche in spagnolo da "Orizzonte atlantico". Nella rivista "Gli amanti dei libri" occupa da molti anni lo spazio quindicinale di racconti essenziali, "L’ElzeMìro".
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2 Responses to E come potevamo noi cantare

  1. azsumusic says:

    Per quanto vi saranno più caratteri nella biografia di un fenomeno modaiolo piuttosto che in un evento letterario di interesse riconosciuto a livello accademico, all’anno 2032 d.c. il trend potrebbe invertirsi ed essere a favore dell’evento colto, a parità di righi, in fatto di consultazione. Si dubita, alla luce della curva inesorabilmente discendente dei fenomeni pop, che testi scritti per riempire un ostinato musicale siano destinati all’infinito. Semmai, questi si proietteranno all’infinitesimo.

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    • dascola says:

      Devo ringraziare il riverito collega blogger per l’ostinata fiducia che mi riserva lasciando sempre più che graditi like. Raddoppio i grazie per questo commento ottimistico, ottimismo di cui sono del tutto privo ma che apprezzo negli altri. Nel 2032 non so se sarò vivo abbastanza da vedere avverarsi la convinzione che, “semmai, questi si proietteranno all’infinitesimo”. Vivo o morto me lo auguro e lo auguro a tutti, Azsumusic in primis.

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