Artemisia Gentileschi-Bathsheba
En passant. Te tu mi dichi che ’un sopporti la rethorica in corso d’opra circa l’icché succede. Ma alle corte occorre a mio avviso domandarsene un poco. Sarà che se ne cattura la dismisura? Percepire questo confine è questione di sensibilità, maniere, anche intese per buone ∽, buona fede, empatia e onesta intenzione . Virtù contraria a quella che Don Giovanni ostenta nel voler sedurre Zerlina La nobiltà/ ha dipinta negli occhi l’onestà./ Orsù, non perdiam tempo; in questo istante/ io ti voglio sposar, dove sposar è facile facesse allora ridere o indignare assai, tutti che da un pulpito o da un letto intendessero una sola cosa: scopar. Con una definizione che ho usato per anni nel mio piccolo ambito, molto ristretto ma ben frequentato, una questione di educazione estetica.
Se scrivo, come qui sopra, per anni, non faccio che segnalare a me stesso prima e al mio altro di là dalla schermo, che un certo atto si è protratto a lungo, per anni. Ma sorvolo. La definizione traccia un cerchio, tende ad avvalorare l’atto legandolo alla sua variabile tempo che, appunto lo circoscrive. Gadda avrebbe scritto chissà per anni 4, mesi 7, giorni 12, incalcolati minuti; e se avessi scritto io, per secoli, ecco che con due tipi di iperboli molto distanti tra loro benché simili, si passerebbe all’esercizio della retorica.
Dall’usque tandem Catilina di Cicerone, fin su al blood, tears, toil and sweat di Churchill passando per gli otto milioni di baionette del Buce, si usa della retorica per vari scopi, convincere, anche nella variante imbesuire, usando la lingua e non solo in modo impressionante, emotivo, seducente anche nel senso di manipolatore. Tutta l’arte, se è tale, adotta stili, gradi, livelli, registri retorici. La differenza è fatta da chi sa usare con metro e giudizio e a proposito questi mezzi.
Se osserviamo nell’oggi, le pagine delle autorevoli testate estere, autorevoli in quanto estere, si può osservare che allo stile asciutto del comunicato AP si associa l’immagine. L’immagine ben inquadrata, giusta di luci, colta fresca senza apparenti mediazioni, del pompiere, del soldato, delle lacrime, del sangue, fornisce al resoconto il suo indispensabile clockwork emotivo, in assenza del quale qualsiasi comunicazione somiglierebbe a un bugiardino medico, anche meno, al libretto di istruzioni della lavatrice. Avrei scritto assai di preciso dispositivo, o avrei potuto usare il giornalistico enfatico detonatore, ma clockwork è la parola fulminante che sa di orange, di Kubrick del ghigno di Burgess e MacDowell; certo è eccessivo ma vuole incidere nell’immaginazione dell’ascoltatore un tratto, persino una ferita o un graffio in qualche modo convincente, forse chissà indimenticabile.
Cosa avrebbe fatto Malaparte di un libretto di istruzioni ? Un campionario di aggettivi triplicati: lavaggio forte, impetuoso, insistito, clorotico. La centrifuga sarebbe per lo meno folle, vorticosa fino a diventare turbinio di mille maelstrom in cui i panni sconvolti si squassano contro le pareti del cestello (come)battuti dalle mani di mille lavandare meccaniche. ( Qualcuno ricorderà in Kaputt la totale invenzione dei soldati russi infissi dai tedesci nel ghiaccio a far da cartelli stradali o quella delel donne granchio in La pelle) A Malaparte non bastò mai un aggettivo, il suo stesso narcisismo era retorica.
Il celeberrimo distacco brechtiano, lo straniamento epico è retorica. Vuole indurre al pensiero e non alla reattività ma in ogni modo colpire i sentimenti. Brecht del resto mai lo negò. Sono retorica i colpi di grancassa nella 1812 di Čajkovskij, gli abbellimenti, i virtuosismi; l’aggiungere o l’asciugare un testo, o un discorso è esercizio di retorica. Non per niente considerata arte in antico. Fu retorica la celebre (in Spagna) quanto secca, e retorica appunto, replica di De Unamuno al, Viva la Muerte, del fascista quanto retorico José Millán-Astray y Terrero (in questo blog più di una volta citato) all’Università di Salamanca nel ’36: Venceréis pero no convenceréis.
Il limite della retorica è tuttavia la dismisura. Percepire questo confine è questione di sensibilità, maniere, anche intese per buone∽, buona fede e onesta intenzione, attinenza, ; questione di educazione estetica. A mme mi pare perciò stesso ‘e si possa dire che di retorica è intriso il nostro modo di comunicare. Icché? I fatti, direbbe qualcuno, eppperò a confonderne il senso, ovvero la direzione? Sì e no, i fatti non esistono propriamente. Esiste invece ed è inevitabile, il qualcuno che li registra, e che senza eccezioni li riveste, traveste, li perpetua con un inevitabile apparato retorico dovuto a personale sensibilità, maniere, anche intese per buone ∽, cultura ed educazione estetica. Nota caro mio che non ho trascurato e ho tre volte retoricamente citato di includere la buona fede e l’onesta intenzione. Riguarda meno l’ambito artistico ma pensa la fatica di Šostakóvič per confinare entro limiti accettabili l’obbligatoria enfasi popolar bolscevica necessaria alla sua musica per sopravvivere a un pericoloso crucifige in effige, poi Siberia. Riguarda invece sempre il giornalismo il cui esempio più deteriore che io conosco si ritrova appunto in Malaparte. I corrispondenti telegiornalistici di Stato/Rai di oggi ne sono esangui epigoni. Avrei potuto scrivere, modesti o pallidi, ma vuoi mettere, esangui?
La dismisura. Forzare oltre lo stile, di cui la retorica è parte. Qui è il punto: la retorica seve all’espressione, non di per sé al comprendonio. Perché, come diceva qualcuno, per suonare nella vita “ci vuole orecchio”.
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Esatto, ci vuole orecchio. Ma o lo si ha o non lo si ha. Si può poi, educarlo. Grazie per la citazione di uno che di orecchio ne ebbe.
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