Ti dico, io al pari di altri vengo da un pianeta dove si mettevano da parte in apposito cassetto e/o scatola ex di biscotti, americani nel mio caso, gli spaghi dei pacchetti. Dovunque le cose comprate erano fatte su nella carta, prima oleata per il cibo, non esistevano vaschetta e alluminio, poi carta semplice per chiudere e… ricordo alla perfezione il gesto del salumaio, allora non ero vegetariano, che troncava con la stessa coltella del formaggio o del prosciutto la coda dello spago con cui, credo per magia aveva chiuso il pacchetto; le asole sul nodo permettevano di girare con la confezione appesa a un dito. Abiti o che so, le commesse, tutte donne, li infilavano nella carta velina prima e poi, niente sacchetti ma altra carta, la piega abile dei lati minori e l’abile gioco della mani per voltare e rivoltare il pacco slandrone sul banco per porgerlo fatto al compratore, stretto da un nastro colorato, ma non di rado da uno spago più robusto. A casa la carta veniva stirata e piegata e anch’essa messa da parte per usi prossimi. Si conservavano anche il sacchetti del fornaio e del fruttivendolo. Si conservavano i giornali con cui si pulivano i vetri ma soprattutto con cui si riempivano, appallottolati, le scarpe fradice di pioggia. Inoltre il giornale si metteva sotto il maglione per il freddo o nelle scarpe ben ritagliato a misura per isolare. Non era in voga la doccia, il bagno lo si faceva con poca acqua tanto poi ci si sciacquava, spesso con la spugna. Una mia amica d’infanzia in casa aveva la baciassa di zinco, la ricordo a bagno lì dentro. A dire il vero qui c’era un po’ di spreco. In compenso scarpe e vestiti e tutto andava usato per anni, finché duravano la pelle o le suole che poi venivano rifatte da abili ciabattini, gli abiti finché non mostravano la trama. Ricordo benissimo di avere tenuto per venticinque anni un maglione, rosso vermiglione, passatomi dalla mamma di un altro bambino. Si usava così. I fratelli maggiori passavano ai minori tutto, calze comprese: se bucate si rammendavano con l’apposito uovo di legno. Oggi io le butto tanto il filato è così scadente che ad accomodarle ci vorrebbe più fortuna che pazienza. Ma si faceva. Non sto ad elencare tutte le cose che permettevano di vivere lo stesso quasi senza sprechi, la spesa si faceva giorno giorno, i due supermercati di Milano erano luna park per scatolette; mia madre non sapeva che cosa comprarci: rare volte certi budini di gelatina americani per me che li adoravo per il colore, e la chatka, un amalgama sovietico credo a prezzo sovietico di polpa di granchio. Del cibo gli avanzi via sul davanzale in inverno, via in ghiacciaia d’estate, chi l’aveva: l’uomo del ghiaccio passava col suo carro, un sacco di iuta in capo come un mezzo saio di cappuccino: sulle spalle caricava le stecche di ghiaccio tagliate e misura e le portava nelle case. Il mondo mi sembrava più sobrio benché avvolto in una nebbia, quella che si vedeva solo lei tanto era nebbia. Sono il replicante di Blade runner : I have seen things too ma molto terra terra. E la guerra fredda garantiva la tranquillità delle nostre tiepide case. Rimpianti no, osservazioni, If a memory is something you have or you’ve lost. È la battuta di chiusura in Another woman di Woody Allen
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E la carta da zucchero? Che si conservava per assorbire l’olio eccedente dei fritti? E gli spaghetti in confezioni blu – credo da un chilo: ero bambino e mi sembravano grandi – che mantenevano loro la curvatura, dovuta, immagino, al fatto che venivano appesi per l’essiccazione? E le “cucine economiche” con i cerchi di metallo di varie dimensioni per adattarvi le pentole di dimensioni analoghe, con il tubo di scarico dei fumi fornito di un aggeggio dotato di stecche di metallo a raggiera per appendervi i panni ad asciugare? Ma quello era il tempo di “Ladri di biciclette”, di “Napoli milionaria”, “Roma città aperta”, “Sciuscià” di “Miracolo a Milano”, “Cinque soldi di speranza”, “Il cammino della speranza”, “Il ferroviere”, tanto per citarne alcuni. Era il tempo in cui il senso del vivere era riposto, oltre che nei sentimenti più profondi – nei fondamentali, si potrebbe dire -, anche nella dignitosa accettazione della fatica del vivere e nella modesta felicità di saperla superare con la conquista di piccoli traguardi: era il tempo dei piccoli eroismi quotidiani. Poi c’è stato il boom economico e Alberto Sordi, nell’omonimo film – non a caso – di Vittorio De Sica, vende un occhio per mantenere il tenore di vita che rischiava di dover ridurre per affari mal condotti. E da allora il senso della vita è stato riposto nell’accumulo di sopravvivenza, come lo chiamavano i situazionisti, che gli economisti chiamano crescita e che ora si sta trasformando in accumulo di rifiuti che non si sa più come smaltire e che soffocano il pianeta. Sarà che sono vecchio e, si sa, i vecchi spesso vivono di ricordi e nostalgia, però mi pare innegabile che il modello di vita che si è venuto imponendo dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso stia portando alla rovina quanto meno la specie Homo. D’altronde Bennato cantava “giù per la discesa” e si parla della sesta grande estinzione di massa….
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‘Era il tempo in cui il senso del vivere era riposto, oltre che nei sentimenti più profondi – nei fondamentali, si potrebbe dire -, anche nella dignitosa accettazione della fatica del vivere e nella modesta felicità di saperla superare con la conquista di piccoli traguardi: era il tempo dei piccoli eroismi quotidiani. Poi c’è stato il boom economico e Alberto Sordi, nell’omonimo film – non a caso – di Vittorio De Sica, vende un occhio per mantenere il tenore di vita che rischiava di dover ridurre per affari mal condotti.’
Si c’è nostalgia, q.b. è umano. Per ciò che, dal virgolettato proposto paro paro, riassumerei coll’espressione, desueta vero?!, senso della misura. Il resto è appunto la dismisura del ‘Boom economico‘ : la ὕβρις. Tra noi si può dire in originale. I Greci vecchi se hanno ancora qualcosa da raccontare è che di hùbris si muore. Q.E.D.
Ciao.
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I film che raccontavano queste realtà, di noi, se li guardavano pure nel resto del mondo. Ora è già tanto se i film che sparano in sala se li filano i vicini di casa. Anche volendo andarci, al cinema, la proiezione di un titolo te la ritrovi per non più di una settimana. Pellicole che ricevono finanziamenti dalla “collettività” che poi nessuno sa che stanno là. “Abbiamo bisogno di far lavorare la gente del settore!”, dicono, gli “addetti ai lavori”. Appunto: addetti, mica artisti. Onestà, perlomeno, nel dire che ci siamo ridotti nell’ammirare “superman” più che il “superuomo”. Forse, continuare a vedere la miseria umana ci fa ribrezzo? Eppure l’umanità è quel che siamo: tragicommedie ridondanti ispiratrici di capolavori. Opere che non si trovano più, se non nei ripiani più bassi negli scaffali del supermercato. Confezionati ficcati in modo da non farteli quasi vedere: “Se quella roba te la mettono all’altezza dei piedi, pensa che gusto deve avere! Con tutte quelle persone che ci passano davanti ogni giorno…sarà impregnata di chissà quale schifezza. Bleah, non farmici pensare! Buona giusto per dei feticisti”. L’arte è diventata materia per feticisti.
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“Onestà, perlomeno, nel dire che ci siamo ridotti nell’ammirare “superman” più che il “superuomo”. Frase felice. Su tutto ciò c’è da vedere ‘Luomo delle formiche’ che narra uno scandalo di mille anni fa, io avevo mica pochi 15/16 anni. Fu una vergogna. Sono molto curioso specie adesso che la Meloni si accinge a ripulire il paese da deviati, culi e negri bisogna andare a vederlo. Per il resto l’arte è un po’ roba da feticisti. Infatti è una realtà con un’uscita di sicurezza che ci sia o no un happy ending.
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grazie Pad, bello bello
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Grazie grazie: cosette che del resto tu conoscerai e ricorderai bene. Mi pare che il mondo attuale sia frutto di un colossale delirium tremens.
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