Dieci o dodici mila anni fa, poco più poco meno la datazione è incerta e per dirla tutta improbabile; al tempo, per chi ne avesse sentito parlare, della questione dell’acqua a Corinto, Zeus che già allora era molto vecchio ma non si dava per vinto, con l’astuzia mielosa e quèrula dei vecchi pederasti, per dilettarsene, catturò le attenzioni prima e il resto poi, di una ragazzina, Egìna, figlia di Asòpo dio delle acque. Del fatto fu testimone Sisifo, un uomo infaticabile.
Ovvio che Asòpo avesse dei sospetti, ovvio che sapesse vita, morte e miracoli, si dice così da non si sa quanto tempo, di Sisifo, probabile che avesse adottato dei trucchetti da Serpico per non farsi sospettare, perché Zeus, che dirige, ma sarebbe meglio dire comanda senza tante storie e senza incertezze sulla plausibilità e ragionevolezza dei suoi ordini, una banda di pari malfattori, la cui attività quotidiana tra le tante, inutili e fastidiose e pericolose al genere umano, consiste nello spiarsi e spiare; una sorta di polizia politica che non si fida nemmeno di sé stessa, arriva dappertutto, segue chiunque, anche nei tàlami, come usano dire gli dèi per bocca dei loro aedi, i poeti, dei letti in cui consumano tutto quello che c’è da consumare, la vita ad esempio, predilige e ripaga chi meno se lo aspetta, anzi proprio lui, ma non dimentica mai nessuno, tanto che ognuno sulla terra vive con l’ombra di questa Okhrana, per non parlare del fiato che spesso è vinoso, sul capo. Solo i fortunati sulla terra, ci ballano, per così dire, una sola estate, trafitti da un raggio di sole.
Servivano prove ad Asòpo e contava di avere una buona mercanzia di scambio con Sisifo, sa che gli preme trovare acqua per Corinto e, poiché Asòpo dirige e amministra il groviglio sopra e sotto di acque che costituisce il sistema circolatorio della terra, una buona fonte per il nome del mascalzone che gli ha sciupato la figlia è un prezzo onorevole da pagare. Sisifo, prima tentenna, diffida in genere ma specie di chi promette acqua agli assetati, ma poi parla. Asòpo, contentone, paga il prezzo pattuito per la soffiata, la fonte Pirène, non si sa se perenne. Le cose sembreranno sistemate se Zeus, pro tempore, tutti nell’Olimpo sono abituati a questa manfrìna, rimesso al suo posto, chiederà scusa a Asòpo, a Èra la sua legittima, termine questo, legittima, privo di senso per uno cui tutto sembra legittimo e legittimato, il novero delle sue nefandezze è ad oggi infinito, e poi la farà contenta, pare che Èra sia contenta di Zeus quando ogni tanto le scivola nel letto e fa quel che gli pare. Ebbene no. Zeus è ancora incapricciato della bambina o selvaggiamente ego-riferito e vuole sapere chi ha dato ad Asòpo la dritta su Egìna. È ovvio che per fare i fatti gli ci vuole meno tempo che a fabbricare false prove; salta fuori il nome di Sisifo e Zeus pensa che la cosa migliore è mandargli uno che risolva problemi. Ci manda Tànatos, anche un bel nome per uno che da tempo immemorabile fa il sicario, ma nella maggiore parte delle lingue vive che dicono quel che c’è da dire altrettanto bene di quelle morte, Tànatos sta solo per Morte, quello che risolve problemi agli Dèi ma mai ai mortali. Questi arriva a Corinto; Sisifo però ha preparato una trappola, l’imbriaca, lo sbatte in galera e quest’atto ha il temporaneo vantaggio di sospendere sulla terra di ognuno la sua morte, per esempio in battaglia dove ci si accorge di potersi ammazzare quanto si vuole e subito dopo tornare a fare i propri comodi bell’e pronti come prima, persino di ammazzarsi di nuovo, senza entropìa, si potrebbe dire.
Non lo sopporto questo Sisifo levamelo di torno, strilla Zeus a Marte, un tipo forse più rozzo di Tànatos, ma più spregiudicato e soprattutto toccato dritto al cuore dei suoi interessi di dio della guerra. Infatti libera Tànatos dalle catene, cattura Sisifo e per sicurezza estrema lo sprofonda in un buco nero, il Tartaro*, con pareti lisce invalicabili, buio e così profondo che gli storici, allora si occupavano di queste faccende, assicurano ci volessero nove giorni a un’incudine per arrivare lì in fondo ma, anche arrivata, l’incudine non avrebbe visto un bel nulla, un po’ perché le incudini non hanno occhi che per sé stesse e un po’, perché sul fondo, intorno nient’altro che un nero assoluto, il nero della placenta per intenderci, quello da cui tutti veniamo e che infatti non ci ricordiamo trattandosi di un bel buio uniforme senza vie di uscita apparenti, almeno finché non ce ne tirano fuori a strattoni e spintoni, per il breve periodo che intercorre prima che, nel medesimo modo, nel buio si venga ricacciati. Là sotto nel Tartaro, Sisifo passa ma non consuma le sue giornate, l’espressione è priva di senso in un posto dove la luce non arriva e non si genera in alcun modo, a spingere su per un’érta, un sasso; arrivato in cima, quando pare che il lavoro dia diritto come per tutti i coristi e gli orchestrali, a una pausa di dieci minuti, il sasso da solo rotola giù e per quanto Sisifo sia consapevole di non volerlo fare, nondimeno costretto a non ribellarsi, si butta alla cieca giù per la discesa, riacchiappa il sasso e ricomincia la faticata. Dopotutto ci sono due tipi di uomini, quelli con un sasso per le mani e quelli senza, pensa forse Sisifo, e ci medita. Su cosa, come, non ci è dato saperlo, i buchi neri hanno la caratteristica d’intercettare tutto e tutti e anche la più infima particola di materia che in loro è intrappolata non se la lasciano sfuggire. E per l’eternità. Ma Sisifo questo non lo sa.
* Tartaro da cui forse Tar, catrame in inglese, tartaro dal greco quindi e non, come immaginano i tipi superficiali, dal francese tartare, riconducibile forse alla leggenda dei tartari appunto, non si sa se incatramati o no, ma cuochi primitivi usi a conzare le carni per i loro pasti tra sella e sudore e peli di cavallo; assaisonner, tritartàre la trita con succo di limone, pomodoro, pepe e sale, senz’ombra i dubbio, fu un grande passo avanti per l’umanità