All’età non saprei dire se di otto o nove anni, età in cui meglio si sta facendo o già ben si è fatta strada la capacità di distinguere il proprio dall’altrui pensare, mio padre credette potesse interessarmi una gara di corsa equestre. Il perché non so dal momento che né s’intendeva di cavalli, né amava le gare in genere tanto che me ne tenne metodicamente lontano finché non interiorizzai per benino la diffidenza per il competere, né aveva i soldi da gettare in scommesse; ma mio padre era convinto di dovermi educare in tutti i modi e in qualche modo gli rendo onore al merito che si è conquistato là dove con ogni probabilità egli si convinse di avere fallito nell’opera. Ebbene andammo all’ippodromo. Galoppo. Non ricordo nulla di più preciso che la caduta rovinosa di uno dei cavalli, in curva. Il fantino, sbalzato di sella si rialzò subito zoppicando, ma in buone condizioni, la fortuna lo aveva già tirato per il cappello sottraendolo al peso del cavallo. La gara che si sfalda, arruffio di fanti e fantini, gli altri cavalli frenati, il medico per il cavaliere, zolfanello dal copricapo acceso più che uomo intero, il veterinario per il cavallo, lo sparo del revolver pietoso. Di questo dettaglio sonoro non sono certo, nella misura in cui il ricordo sgradevole si fa immaginazione simbolica. Ricordo benissimo invece il mio sentimento disperato per il quadrupede. La morte si sconta vivendo* è vero ma perché un cavallo. Questo sentimento, che grazie a Tolstoj, si rinnovò in risentimento e con grave intensità leggendo anni più tardi Anna Karenina, allora lo misi in parole amare, e alate credo, in uno dei miei componimenti letterari, quei temi liberi costituenti tutto il mio gusto per una scuola che, un tempo, allo scrivere ci faceva esercitare con metodica cadenza, ed era abbastanza buona e sana da non richiedere l’accanimento terapeutico né di Pinocchio né di petulanti fate per farla fuori. Fu scandalo preoccupato tanto della maestra S. quanto e di più della direttrice M., la strega buona con la borsa nera piena di fruttini siciliani, che giù a spiegarmi come equualmente accanto alle parole spese per la sorte dell’equus, avrei dovuto accorgermi e compiangere il danno, per quanto minore, subìto dal sapiens. Comprensibile l’intento pedagogico cui non seguì alcun fatto se non l’avviso ai genitori acciocché in casa rincarassero la dose di ammonizioni e virtuosi penso. Ricordo i visi afflitti, più che corrucciati, ansiati dal sopettare me piccolo hitleriano covato in seno. Memento dunque: i post-neanderthaliani vanno considerati animali a tutti gli effetti anche di compassione. Di fatto, io con le dovute modifiche sono rimasto a lungo fermo nella mia convinzione, non contraria, diversa. Poi si sa l’età e l’esperienza, se non paralizzano, stimolano a rivedere l’affettività a senso unico; i sentimenti si formano, guizzano or qua or là come primule rosse, si fanno accoglienti per tutti, ma specie per i piccoli e gli indifesi ed è un bene. Per molti ma non per tutti, non per il divino legiferatore, colui che non solo ha il buon viso di farsi chiamare padre ma che santo si aggettiva da sé solo, intervenuto per distinguere su un tema caro all’unigenita causa sui, ossia in merito alla specialità gerarchica di quel bipede, primo persino innanzi allo struzzo e al canguro, che da sé non solo ha il buon viso di farsi chiamare homo ma che sapiens non si è mai pentito di aggettivarsi. Unicità, specialità che dai tempi di Adamo, Smith non escluso, lo obbligherebbe a una sorta di curatela elettiva verso i propri simili; animali e piante sono da quel dì, oggetti buoni per tassonomici e taxidermici riguardi, ma poi, visto che siamo stati nati per soffrire, noialtri, a causa della sventurata che rispose all’epìtome del pitone per un boccon di mela, liberi di cupidigia predatoria e di malcelato macello, tra dissimili per diritto, tra simili per sport. In sostanza si tratterebbe di dar retta ai lai della vicina di casa, solo perché bipedale, laddove e anche se ella sia la sesquipedale Ninètta di Ivan della Mea**
A l’han trovàa distes in mezz a i orti
i oeucc a eren ross e un poo sversàa
me piasaria savè chi l’è quel ostia
che al me gatt la panscia al g’ha sbusàa.
L’era insci bell, insci simpatich
negher e bianch, propri on belée
se ciapi quel che l’ha copàa
mi a pesciàa ghe s’ceppi ‘l dedrée.
I amis m’han dit «L’è stada la Ninetta
quella cont la gambetta sifolina
l’emm vista in mezz a i orti ier matina
che la lumava ‘l gatt cont on cortel».
L’è malmostosa, de bruta cera,
e l’ha g’ha on nas svisser e gross
vedella in gir fa propi péna
e tucc i fioeu ghe dann adoss.
Incoeu a l’hoo spetada in via Savona
dopo mezzdì, quand lee la torna a cà
ghe sont rivàa adrée a la barbona
e su la gamba giusta giò legnàa.
Hoo sentù on crach de ossa rott
l’è ‘ndada in terra come on fagott
lee la vosava «oi mamma mia»
me sont stremì, sont scapàa via
Stasera voo a dormì al riformatóri
in quel di Filangieri al numer duu
m’han dàa del teddy-boy, del brutt demoni
mi sont convint istess d’avegh reson.
Se g’hoo de divv, o brava gent
de la Ninetta me frega niént
l’è la giustissia che me fa tort
Ninetta è viva, ma el gatt l’è mort,
l’è la giustissia che me fa tort
Ninetta è viva, ma el gatt l’è mort.***
Per quanto possa essere proiezione di un desiderio del soggetto umano, qui umano ci sta, nego che l’affetto per e soprattuto quello di un animale, inutile dimostrarlo, anche le galline hanno un cuore eppure si lasciano ammazzare appese a testa in giù per i piedi, la testa abilmente traforata da bastevole forbice, nego dunque che tale simpatia o affetto reciproco tra reciproci possa considerarsi in qualche modo minore e di minor conto di quello che gli umani, gli adami ed evi del momento, tra loro affermano, millantano e, non dico di no, qualche volta provano davvero, sotto forma per solito di tremotìo indistinto , che in qualche caso si fa prurito o grattacuore e tale da rendere imprescindibile l’accoppiamento; una definizione dell’affetto, ammesso sia essa possibile senza essere solo passabile, esula dalla mie capacità e dallo scopo di questo veemente peana animalista. Ho l’opinione, non destituita di valore, che dell’amore si possa parlare come una delle forme con cui l’intelletto, l’intellègere, si manifesta alla coscienza del soggetto più accorto. Ma da qui appunto occorrerebbe sceverare ciò che di rumore si crea nel sentire, nel sentimento quale sentimentalismo, di voluttà e cupidigia e infine di godimento, dall’affezione che, negli animali, pare manifestarsi con la forma non rara di un’intimità fedele a se stessa fino all’abnegazione, fino alla morte o, non necessari questi limiti, questi oltre, con una corrispondenza di amorosi sensi, con un quantum non raro, che del gatto bianch e nègher fa il compagno minuto e muto per lungo tratto nella vita di un ognuno. Sia chiaro che non faccio distinzioni se non fenomenologiche e di qualità dell’affetto tra animale e animale. La gallina di mia zia aspettava mio padre nei pomeriggi d’agosto in campagna per il suo pisolino en plein air; gli si accomodava accanto e sgnaccava un sonnellino anche lei; al risveglio ognuno per sé. Gli animali hanno vivo il sentimento della solitudine e lo rispettano come ineluttabile. Fu mangiata, quella gallina, un certo giorno. Lei si accocontentava dei frutti della terra. La differenza sta nel fatto che gli animali non odiano, hanno paura dei bipedi spesso, li ucciderebbero nel caso, ma non sono determinati a nuocere, né godono nel farlo. Perlomeno non è dimostrato. Gli animali al contrario sono capaci di passioni immacolate quali il bipede, struzzi e canguri non so ma forse proprio per il carattere del loro deambulare sì, soltanto alla fine di un cammino saltellante e in virtù di una notevole capacità di sublimazione, la stessa che porta all’arte, di distacco non solo dall’altro, dall’oggetto, ma e soprattuto da se stessi. Ovvero dal compiacersi di se stessi.
Ricordo anche il dì della morte procurata del gatto di casa. Il suo sguardo stanco, consenziente ma vigile sul lettino del veterinario che gli tastava per l’ultima volta le dimensioni del tumore ai reni. Nonostante il valium, la sua zampa, del gatto non del veterinario, si allungò nel palmo della mia mano e con molta ponderazione gli occhi al piccolo socrate si addormentarono, non saprei dire se in un gesto di riconoscenza o no. Volli immaginare che significassero, Sei qui con me, con me. Infine lo scivolare di medusa dall’esserci all’essere per la morte. Il pensiero mi scuce ancora una lacrima sul viso. Ma non è dolore. O non solo. Compassione. Sentimenti che provai un poco dopo per mio padre. E molto dopo, per mia madre. In entrambi i casi all’interrogativo senza risorse dei medici risposi con un cenno di assenso e consenso e bastò. Qualunque significato possa assumere la frase la morte si sconta vivendo, il sapiens però tende a farla scontare ai viventi e al pianeta stesso, ovvero ai suoi abitanti naturali, per questo vezzo che alimenta in sé, di considerarsi non naturale, naturato e soprannaturale. Il papuccio in babucce ha scatenato la belva. Se, se ne renda conto non saprei, ma le vicine di casa possono stare più tranquille. Amen e rallegratevi
https://www.youtube.com/watch?v=KdBW4ZETtfA&index=16&list=PL0EEDA30EBEBD5098
“io in Europa vorrei esserci di più..” ma non ci sarà dato: al contrario con tutta probabilità ne vedremo la caduta prima ancora che ne sia stato costruito l’edificio; quella che c’è non è diversa ma dall’assemblea di un condominio i cui appartamenti siano in mano a un unico padrone. Più di un nulla è un nonnulla. Il resto non dico ma ho chiuso nello zaino delle cose da portare meco su pei monti e oltre quando me ne andrò. Un grande buongiorno. P.
LikeLike
Sì, è dall’agosto del 1914, da quel suicidio dell’Europa: insensato, comprensibile e infame. Da allora qualcosa di estraneo, di veramente barbarico è penetrato nei corpi sociali dell’Occidente e come una leucemia toglie loro forza, vita, presente. «Tanti che vorrebbero lasciare l’Europa. Io in Europa vorrei esserci ancora di più», afferma Canetti ne “Il cuore segreto dell’orologio” (Adelphi, p. 137; pensiero del 1982). La fine dell’Europa è la fine di un mondo arrogante la sua parte ma anche razionale, disincantato, teoretico. A sostituirlo sono i fanatismi religiosi e i gli estremismi yankee.
Ma al di là di tutto questo c’è il canto di un merlo nella sera lacustre, nella pace, nella bellezza.
Di tale incanto fa parte anche l’amicizia, quella universale (alla quale Proust a ragione non credeva, tanto è rara) e quella nostra. Grazie per le parole che mi rivolgi. Sono, per l’appunto, un dono.
LikeLike
La pietà per il cavallo e non per il fantino è una prova, Pasquale, che nobile sei dalla nascita.
Hai ragione: “La differenza sta nel fatto che gli animali non odiano, hanno paura dei bipedi spesso, li ucciderebbero nel caso, ma non sono determinati a nuocere, né godono nel farlo. Perlomeno non è dimostrato”.
E hai ragione anche nel ricordare che “qualunque significato possa assumere la frase la morte si sconta vivendo, il sapiens però tende a farla scontare ai viventi e al pianeta stesso, ovvero ai suoi abitanti naturali, per questo vezzo che alimenta in sé, di considerarsi non naturale, naturato e soprannaturale”.
Per quanto riguarda l’inutile uscita di Bergoglio su cani e gatti, essa conferma -se ce ne fosse bisogno- la sapienza di Schopenhauer:
“Si guardino invece le atrocità inaudite che nei paesi cristiani la massa commette contro gli animali, ammazzandoli, ridendo e spesso senza nessuno scopo, mutilandoli e torturandoli, e perfino quando si tratti di animali che direttamente procurano il pane all’uomo, come i cavalli, che anche in vecchiaia vengono strapazzati fino all’estremo delle forze, perché si cerca di tirare l’ultimo midollo dalle loro povere ossa, finché non crollano sotto le bastonate del padrone. In verità verrebbe da dire che gli esseri umani sono i diavoli sulla terra e le bestie le anime torturate. Queste sono le conseguenze di quella ‘scena di insediamento’ nel giardino del paradiso. Infatti soltanto la violenza o la religione possono avere influenza sul volgo: ma per quello che riguarda gli animali il cristianesimo ci pianta vergognosamente in asso. […] Non già pietà, ma giustizia si deve all’animale”.
(Arthur Schopenhauer, ‘Parerga e Paralipomena’ tomo II, Adelphi 1981, pp. 488-489).
Grazie, amico mio, anche per come ‘senti’ gli altri animali.
LikeLike
Caro Alberto, io ti ringrazio per l’affetto con cui mi copri, ci copriamo forse a vicenda, mentre ci aggiriamo da infiltrati, ma disarmati, tra le macerie di questo mondo, così ben dissimulate dalla scenografia da sembrare vere. È dall’agosto 1914 che è il progetto di estinzione di tutto è in atto. Secondo qualcuno mancano 25 anni. Un mio amico di giovinezza e di pari età sospettava di avere un carcinoma allo stomaco, oggi per sua fortuna ha saputo che è un tumore benigno ma, Per quel che mi riguarda, mi ha detto, non fosse stato così, ho già visto abbastanza e riuscito in niente a cambiare qualcosa.’Stasera qui sul lago è una sera meravigliosa, non rara, ma di rara bellezza. Tutto un rincorrersi di richiami nell’aria gelida, Andiamo a nanna andiamo a nanna, o forse, Occhio ai falchi occhio ai falchi. Un merlo abitudinario lancia la sua voce incantevole dal colmo del nostro tetto, sempre in cima a uno dei comignoli. Non ho fatto niente per amare tutto questo, non è virtù, né merito, compassione, non saprei. Adesione. Comprendere credo, cioè portare dentro di sé. È stato tentato molto per farmi cambiare point de vue. Mai riusciti. È perlomeno straordinario che le parole di Schopenhauer ci abbiano rincorso sin qui, eletto amico. Grazie per averle riportate. È un dono. Grazie al cielo esisti. Ave atque vale. P.
LikeLike