Wang Yidong (1955) – Letter from a far place
Due fatti recenti e dal punto di vista di Saturno equidistanti, cioè lontani, benché suscettibili to be entangled (vedi entanglement in Treccani). Il primo. Commentando con qualcuno un documentario anti-agricoltura industriale, intensiva, giudaico-capitalista, dopo la proiezione esprimo con chi non so la mia perplessità circa la volontà politica di porvi un freno, al giudocapitalismo, e mi trovo non dico attaccato ma fronteggiato dall’esternazione volante ma polemica d’una signora, tanto fiduciosa della propria identità di caravella da indossare maglietta camouflage aderente e pantaloncini strangolavulve; the future belongs to us, nella versione tedesca den morgigen Tag ist mein sembra proclamare la signora… Goods mit uns… nel primo caso e nel secondo alludo alle parole del presidente Tramp -discorso del 4 luglio- e al ritornello della canzona nazista del bel Hitlerjugendstil nel film Cabaret; farla breve, nella mente dell’ardita il possibile dunque ci appartiene e ci sono speranze ché, Gli strumenti per cambiare… literaly… Gli abbiamo… abbiamo il voto ma certo bisogna votare bene eh… eh bislunga da milanese al Bagno Piero del Forte de’ Marmi. Gli occhi e il tono le luccicano non tanto da pulzella, ma da fanatica sì… oh lo conosco il genere pensare-che-c’è-gente-che-non-vota-piccì… da partigiana oggi e collaborazionista ieri di chi crede e che dunque a giorni e ad ore rinuncia all’intelligenza perché ha la grazia di appartenere, conta niente l’oratorio di competenza; ma nel caso della signora poco ci vuole a capire che si tratta di commessa viaggiatrice del partito demotragico, la fenice che non finisce mai di estinguersi affannandosi ogni volta tra le proprie ceneri, ceneri di Gramsci. Replicato me che non crede nella democrazia rappresentativa e che, con l’eccezione chissà del comitato centrale cino, non vede nel mondo un’entità politica attenta all’unica faccenda che accomunerebbe i demi, non la fede ma l’evidenza del collapsus, la ristrutturazione a breve del pianeta in habitat per cactus; dunque se mai provare col terrorismo, un terra-terra in culo alla Casa Banca. Va benon, fatta anche troppo lunga diranno i lettori benché, superata l’età e l’interesse per fottere, mi diverta sfottere. Secondo episodio. Treno per Tirano in sosta alla stazione centrale di Malanno, la città di Sala’mboh. Solo nel compartimento sto leggendo sudate carte quand’ecco che piomba sulla terra un né troppo né troppo poco giovane, malmesso assai, ma a suo modo ordinato, i denti radi, da etiope forse, un africano ascetico, il quale, fatte le sue scuse, mi si dichiara, Sono un concittadino nero sono uscito appena di prigione mi hanno derubato e picchiato e nessuno mi crede. Egli parla benissimo italiano e glielo dico, Ah ma sono italiano… sono nato di Roma. Ecco ora situo l’accento, italiano pulito degno di lode oggi e a me gradito; non delle borgate o de Trastevere, ma di una certa borghesia romana coltivata, per capirci l’accento di Verdone, magari migliore, quando fa quello che è, il figlio del prof. Verdone. Il signor Africa mi racconta molto rapido una storia inverosimile ma verosimile… gli manca un qual rubàb d’accompagnamento… di botte appunto, di furto dei suoi pochi averi, di chiedo aiuto e di sapesse cosa me ne sono sentite dire, lei è il primo che mi ascolta; un odissea un’epica. Pausa. Gli chiedo se ha bisogno di denaro, ovvio ma la domanda è lecita ché pure è la stagion dei folli; che sì che sì che sì, dicono gli occhi e bocca tace per modestia, gli allungo cinque euro. Li prende con distanza e si esibisce in mille grazie, mille grazie mio signore, Lei… oh, niente tu da ragazzina che fa spese a Zanzizàr… Lei lei sì ha un cuore grande ma sa non che l’Italia sia cattiva è che mi presento male guardi, questo del suo cantar è il guizzo strepitoso, Guardi che capelli me li sono tagliati da me ma il risultato hmm, mi chiede come gli stanno i capelli e a occhio gli rispondo che non è mal così grave il taglio, tutto sommato regolare. Questo lo rassicura, sorride, giravolta, ossequia, e si allontana verso la testa del convoglio. Ma non cala il sipario. Me ha nel frattempo riflettuto che con cinque euro ci combinerebbe nulla l’homme e senza esitare lo fermo, Con cinque euro va poco lontano prenda qui, cavo il portafogli e gli do tutto quello che ho, sempre viaggio leggero, venti euro. L’uomo mi guarda con lo stupore di un bambino di sette anni di fronte a una vetrina di balocchi, si vede che ha distillato già di quei denari il valore, non poco per me che campo di pensione, e certo non poco per lui che non sa più a che dio appellarsi per benedirmi; dio tace nel suo isolamento, sa che la sua bontà da boia, il suo volemose bbene mi sono parti estranee e la scena resta all’uomo, al collega che con sorrisi rapinosi chiude il sipario. Poi mi rimetto a leggere. Tuttavia, tempo di sillabar due righe ecco che il conteur ripassa, fuori dal vagone, batte il finestrino con le mani, ultima chiamata alla ribalta, gioia e anzi di più, mano al cuore e alla fronte, si inchina sapiente e via. Alla fine penso che venticinque euro per tanto e per un solo spettatore, sono bene spesi, meglio che dieci per un Progetto bellepòc a Belluso. Poco m’importano i se, perché, ma come ma, ma va’, m’importa niente. L’avvincente armamentario epico, il gestus autentico, altro che Valentinecortesi per carità nemmeno fare il confronto, di un cantastorie o un contaballe già v’è poca differenza, per molti versi, oh Saba, era fraterno alla capra me. Benché lo abbia fatto il mestiere degli apostati, si sa il teatrante, e benché oggi molti mi possano rimproverare con la parola, mica verbum, verbulario, di perseguire la strada del conteur in entrambe le accezioni sopraddette, ebbene con quel tipo del treno condivido a distanza di particella elementare il non appartenere, l’esilio ma da una terra a nessuno consacrata. Il non poter volere appartenere. Li mia venticinqui euri sono serviti a niente, a mangiare benino sì, il guadagno di una giornata fortunata. Certo tuttavia ch’egli non m’ha considerato lo scemo ricco e buonannulla da spillare, macché; ha recitato, scena di strada per spettator di strada, benché in giacca e cravatta, mio quotidiano abilissimo travestimento. Ci vuole occhio per capire con chi si ha a che fare per non strafare. Me estrae dal loro flusso, quantico, delle cose che già prima di aggregarsi in fatti ed eventi sono interpretazioni; perché trasformate in parole che sono un’altra cosa dalle cose, cui solo parole di riconoscimento possiamo appiccicare. Immersi nel flusso del quotidiano da cui si affiora qua e là interi o scomposti, così che dal punto di vista di Saturno c’è anche il caso di potere essere misurati, oh Heisenberg oh Schrödinger (vedi in Treccani), per estensione mi pare evidente necessità, destino, Tyche la non-appartenenza; anamnesi e nemesi, volersi sottrarre alla quale pare comprensibile illusione quanto balordo attaccamento alle possibilità, e dunque alle speranze, alla fede, la fede della signora con la vulva garrottata. Ebbene signori miei ch’il leggete, me non ha fede, non crede, non può credere, nemmeno del tutto a ciò che scrive, dunque non può aderire né essere iscritto a club alcuno, nemmeno a quel di cui potesse ser il presidente… così com’è, impermeabile alla certezza, factu(m) de materia cinis elementi (cfr. Carmina Burana) nell’indecidibilità del proprio scorrere. Torno… come un cantore passo per un’esistenza per sua natura ondulatoria. Anti-materico, anti-protonico, anti-patico. Fino alla morte.
Una scena fastosa, Pasquale. Teatrale, ironica, antica e fastosa. D’altre umanità, che ai sentimentalismi son capaci di opporre la distanza.
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…”D’altre umanità, che ai sentimentalismi son capaci di opporre la distanza”…
Caro Alberto, tiro un sospiro di sollievo perché sei passato sopra le mie inattuali quantistiche che, come sai incapace me di comprender matematiche, capisco solo come peregrinazioni, accadere poetici; il bosone di Higgins mi pare una meravigliosa pindarata, passibile di ogni deviazione, di ogni inacchiappamento. Deviare è il mio andare. La meccanica del Newton mi puzza di non avrai altro dio. Fin dal liceo tutta la fisica mi trascinava verso pendoli senza legge e mi parve un campo di gravidazioni che la matematica si affannava a restituire alla terra. Cenere alla cenere. Fosse stato per me non avrei dimostrato niente. Del resto la teoria del multiverso è bella così, olimpica, vasta, un verso della Dickinson, o di Leopardi, che si apre all’infinito. Che Bohr mi perdoni per questi strafalcioni. Dunque grazie per avere notata la sostanza grassa dello scritto perdonando sotto sotto le mie pirlate pensose… le dico a Pasquale perché l’altro intenda… e pirlare tu sai che alla lettera vuol dire girare a vuoto o giravoltare danzando come una pirla=trottola; perché poi sia divenuto sinonimo al maschile di stupido o di minchia ci vuol poco a capire l’intelligenza dialettale, tanto lo stupido quanto la minchia, si sa che vanno senza pensare dove sia sia la meta. Finis
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