Book Painting No. 6, Liu Ye (2015)
Che l’implacabile necessità, ananke ἀνάγκη, domini le cose umane è noto a chiunque sia almeno un po’ pagano in cuor suo, e assai poco meglio niente rabbino; e chiunque abbia un po’ di memoria dovrebbe avere chiaro che da tempo, almeno da Whatever works-basta che funzioni e prima ancora, Woody Allen insegue le mosse, gli arrocchi e infine gli scacchi matti della Moira o, a volere, di quei signori Fates, la coppia parodistica di una sua commedia giovanile, God (ne tradussi delle parti per i miei studenti anni luce indietro). Ebbene il sugo dell’arrosto spesso malcotto che siamo è che uno esce al mattino di casa con un proposito e non solo ignora se tornerà, ma facile è che torni con un compiuto diverso o, come per Schubert, con un’Incompiuta, opera quest’ultima peraltro straordinaria. Questo stesso senso di ineluttabile, voltato da un comico più feroce di Beckett, Totò, anima da bassomondo, fu ben espresso nel suo celeberrimo sketch Pasquale. Non così la giornata di pioggia a neviorch. M’è parso infatti che Allen sia uscito una mattina, di pioggia, per fare un film, protagonista una città e la pioggia, ma che la non si veda, né la si senta, sommersa, buffo eh per l’acqua, dai drlin drlon drlan di uggiosi pianoforti americani. Insomma se ne uscì Allen per fare un film e ne saltò fuori un altro che dire sbagliato è rispettosa pietà… che ha detto Mezzacapa che a Milano c’è una nebbia che non si vede, siamo a Milano, la nebbia c’è e non si vede… Non c’è niente di male; all’opera abortita o sconfitta di un grande occorre comunque riservare il rispetto dovuto al grande che, quando sbaglia, quando non l’azzecca, lo fa in grande; sì che del suo lavoro resta sempre qualcosa di buono da ricordare, non fosse che l’ombra, o da dimenticare del tutto per benevolenza. O non si autoaffondò Chaplin con il tardivo La Contessa di Hong Kong, sì, e allora amen.
In questo giorno di pioggia affoga tutto, restano solo alcune ottime battute – chissà dall’originale quanto adattate – ammollate però sul fondo del lavandino di cucina insieme con bucce di carote e foglie di lattuga di una recitazione da macdonald. Il secondo attentato al film, dopo quello agito dall’autore, fu compiuto infatti da protagonisti che sarebbe compassionevole definire tali, macché, comparse di sit-com o di serie messicana Eppure io ho visto una serie di Sky, Euphoria, così ben architettata e con così tanto pathos e con tali bravi giovanotti attori e ben dotati che bastava farne un provino e scegliere, nel mucchio tra le donne metti Zendaya o Barbie Ferreira o Alexa Demie o il giovane Austin Adams tra i maschietti, escludendo dal conto la perversa polimorfa Hunter Shafer che sarebbe stata troppo caratterista sotto la pioggia, ma strepitosa come rivelazione per il giovane Hole-then di Allen, altro che la madre puttana, pe’ccarità. Voglio Sofia Loren, carne e sangue addolorato, in Matrimonio all’italiana. Il punto che tocco è questo e non è la prima volta che mi capita, l’ho detto, insegnato a ripetizione, che qualsivoglia opera, filmo o melodramma o teatrata… ci tornerò… è fatta di attori, a qualsiasi titolo àttuino; capaci di distruggere le meglio intenzioni in capo a Giove, o inetti a sostenere le intenzioni inesistenti di una regia perduta altrove, nei suoi ricordari pallidi e assorti. Gli attori vanno seguiti, nutriti, imboccati se è il caso, amati se possibile, aiutati; i migliori, senza l’intelligenza di un bravo direttore o autore della loro recitazione, sbandano a ogni cantonata, non sanno che farsene delle battute, le sbagliano, si confondono, perdono la bussola; e siccome ogni messa in scena è nei fati un àuto de amor, se non avvien l’innamoramento sul set, e qui si vede che nulla è successo, nessuno poi dalla sala esce innamorato; guardare Sorrentino come ha indicato la polare al cast eccezionale di young e new pope; Silvio Orlando testimonia, ascoltarlo se capita. Come li si dirige, gli attori, cioè come li si seduce e rende seduttori, è altra storia, e non interessa il profano, ma insomma l’onesto Jude Law in questo mare di pioggia, naufraga, balbetta come un dilettante a un provino; fuori parte, ma fuori parte persino i costumi; la fotografia non ci fosse stata, fosse stata fatta in automatico con un iphone, bè meglio; Storaro a fa’ cus’è. Un’opera im Bildung più che bildungswerk… in formazione più che di formazione… ma non passata per la dolescenza dell’autentico giovane Holden; priva di pathos, di sentimenti, ricca solo in autocitazioni e ritorni su tasti già altrimenti suonati. Senza palle. Nei meandri di un film non stupido ma perduto, complesso quanto privo di senso si salva per avventura, non tanto l’interprete Liev Schreiber, opaco ai raggi ics, quanto il suo ruolo di regista, il Pollard della storia; amato e vezzeggiato, però si dispera per la propria ultima opera, ne diserta persino la proiezione privata e finisce per stordirsi con l’idea che una ragazzina stolta possa essere la propria musa redentrice. Ma in questo carattere c’è tutta, nei fatti, la tragedia del dubbio, dell’artista spiato dall’angelo del fallimento e della ripetizione a vuoto. Quod Erat Demonstrandum.
Chi volesse poi farsi del film un’idea più devastante, legga Alberto Biuso con le cui parole sono più che da cordo e de cordo, https://www.biuso.eu/2020/01/04/new-york-linciaggio/
p.s. una menzione negativa speciale alla versione italiana; voci sbagliate e incapaci di rimediare o all’encefalogramma piatto o alle epilessie dei loro originali; finirà che il doppiaggio, piccola gloria italica, si estinguerà se continua così. Infine il missaggio non so come sia stato messo a punto, tutto in primo piano il parlato, ambiente e prospettiva assente.
Labirintico e inappuntabile, come sempre.
Grazie, Pasquale, per aver ricordato la nota che ho dedicato a questo film.
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Nota appunto in do maggiore, me alla terza sotto. Però labirintico e inappuntabile, wow che brividi. Grazie a te.
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