Dicono si inchinassero le belle bandiere su lor aste al passaggio del treno che riportava il Maestro da Parigi a Vienna per morire, e i pavesi inalberati a cantare una radiosa primavera di sentimenti grati e festosi, di inni alla gioia gratis per viaggiatori di commercio e turisti idròpici. È il maestro Mahler, il nasuto Mahlerlein* che passa con una bella fioritura di fibrina che gli stormisce in petto ai propri soffi primaverili. Endocardìte, nessun chirurgia, nessuna micìna in uso. Per dargli tempo, immaginiamo ancora, di agitare una manina scarna ma riconoscente a un pubblico ammirato, il treno rallenta, nessuna protesta per l’orario che non si atterrà all’orario; la locomotiva buffa e sbuffa educata ai mazzolin di fiori e i direndl, oh i direndl** al suo passaggio si spiegano in omaggio al presagio funerario che si avvera; tutta la musica è presaga, con buona pace di Adorno che al presagire non crederà che a modo suo. L’Italia non sa, canta le sue canzonette, prova già l’irresistibile desiderio di tramutare la tragedia in farsa ghignante.
Ô rage ! Orage, ô désespoir !***, tuoni e fulmini dicono ancora, fuori dalla cameretta di sanatorio, broum. Leide Leise Still, Schweige****, le maître est mort. Morto, telegrafano i telegrafi della civiltà con uno slancio della loro natura telegrafica. Maggio, 18, 1911, il maestro è morto e a occhio e croce è adesso che comincia il conto alla rovescia per la sarajevoleria del 28 giugno 1914, perché un arciducolo impennacchiuto le penne ci lasci e l’umanità, d’accordo con Karl Kraus il resto di ognuno dei suoi giorni a venire, tutti giù giù giù a precipizio giù per la tromba delle antiche scale dei propri apoplettici nazionalismi. In realtà si trattò di fine della civiltà. O di uno dei suoi passabili facsimile. Di quella fine oggi viviamo al tramonto di piccole nane rosse. Nessuno più seguirà un musicista. Ma idoli. Είδολα. Fiori e bandiere per dementi e coglioni, rincoglioniti e banditi non esclusi.
Rilke, 27 ottobre 1925, il proprio epitaffio di fiori scriverà da sé e sarà l’ultima fioritura
Rose, oh reiner Widerspruch, Lust,
Niemandes Schlaf zu sein unter soviel
Lidern.*****
Sono felice, Pasquale, che il mio breve commento a questo tuo scritto venga confermato al di là di ogni metafora e nel nucleo della metafora che è sempre la scrittura. E felice anche dell’orologiaio anarchico.
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Il tuo commento Alberto era breve ma di notevole massa. Sempre grazie. P.
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…la mano di un chirurgo. O di un orologiaio.
Mi colpisce Alberto questo tuo commento e in un modo del tutto particolare. In primissi perché almeno in apparenza ho ancora il polso fermo, non minato da oscuri avvertimenti di demenza. E, due, parafrasando Totò, per un chirurgo è una grossa soddisfazione. Quanto a orologiaio, hmm, siamo lì, i due nomi non sono disgiunti nella mia storia. Piccino piccino, due, tre anni, avevo il permesso di passare parte delle lunghe sere di riunione politica in casa dei miei accoccolato sotto il tavolo del tinello, l’ho già detto ma mi rinfresco, a costruire casette e smontare giocattoli di latta. Non ho ricordo dell’attrezzo, escludo l’osso di scimpanzé, con cui mi potessi aiutare; gli oggetti erano costituiti da due, tre o più parti saldate tra loro da linguette arrovesciate che occorreva sollevare in modo da liberare la parte in questione dalla sua base o dal resto dell’oggetto. Stacca che ti stacca si arrivava al dentro. Che cosa il dentro nascondesse è presto detto, nulla, un concamerato vuoto; nessuna delusione, mi piaceva quel vuoto… o, se vuoi, un dietro e quinte che pure avranno per me qualche futura implicazione… e scoprirne di nuovo in altri oggettini mi dava appunto una grossa soddisfazione. Il vuoto dunque generava dopotutto qualcosa che il suo di fuori rivelava. Ma il dentro, ah era il dentro che lo permetteva. Passa un giorno passa l’altro, passato anche il grosso dell’età peggiore, l’adolescenza, presi a appassionarmi di chirurgia appunto, neuro. Ebbi l’occasione di assistere in un giorno e una notte intera a tre interventi al neurologico di Bologna. Perché di tanto privilegio, non importa. Se devi svenire casca indietro, mi disse la prima infermiera. Ma svenire figurati, non desideravo altro che vedere che cosa c’era dentro una spina dorsale, e dentro un cranio, sangue e cervello, ossa ben lucidate. Oh l’emozione del solco che il bisturi traccia. Ma sotto sotto non si vedeva niente. Il meccanismo si nascondeva meglio di quanto si svelasse. Sotto continui stratti di superficie. Abbandonai l’idea della chirurgia ma, molto dopo, la propensione settoria riportai su di me sezionandomi per dieci lunghi annni in un’analisi puntigliosa. L’idea di chirurgia che maggiormente mi ha soddisfatto. Tanto che avrei anche preso una seconda laurea, pochi anni fa; ma troppo vecchio per studiare con i tempi e la freschezza della giovenizza ormai; e l’obbligo di passare da psicologia invece che da filosofia per prendere i voti di analista mi infastidiva. Non ne feci nulla e scrivo. Con mano da chirurgo. Sai che cosa ne concluderebbe Hillman, caro Alberto; di che gioirne. Grazie mille volte.Tuo P.
P.s. ho conosciuto invece un orologiaio, sempre da piccino, abitava a Malanno, in un meandro di via Tortona, angolo via Cerano. Anarchico, faceva l’orologiaio di giorno, mestiere che gli aveva salvato la vita durante la prigionia in Germania, e il ricettatore di notte. Il motivo è ovvio, contro il capitale. Ma shh, mica parlarne a scuola. Un segreto che ho serbato per sempre.
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“Nessuno più seguirà un musicista. Ma idoli. Είδολα”
Il tuo, Pasquale, è un dire esatto come la mano di un chirurgo. O di un orologiaio.
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