L’oròcchio di Diòniso

Malevich_cavalry

                                                          Kazimir Severinovič Malevič  (1878–1935) Cavalleria Rossa

Quando si conosce un argomento e le sue implicazioni, per studio e lunga pratica critica, asserire pubblicamente in merito il contrario esatto del comune sentire e dire, si potrebbe evitare tacendo, ché  solo quell’atto paradosso aliena simpatie (se a evocare questo sentimento si è interessati) o suscita inutili polveroni, fini a se medesimi; eh sì, ma si finisce per cascarci: correggere è una tentazione. Sfuggirle una fatica.

Una selvaggia espressione mi correva dalla bocca quando ero insegnante di queste cose, Se hai un figlio che vuol fare da grande il regista, fallo vedere da un medico. Esercitato quel mestiere per anni anche dopo essere diventato un umile servo dello Stato sempre ho detto, mi sono detto, ho divulgato la notizia, ho cercato di mostrare che il regista non era/è altro che un insegnante. E che per farlo, come ci insegnava/mostrava la strada il mio maestro Rissone, occorreva sapere di tutto un po’ o di tutto di più: dall’ago al milione. O al maglione. E poi dimenticare. Tuffare le mani nelle pance aperte. Guardandosi bene dal sentirsi intellettuali, termine che quasi mai o di rado rima con intelligenti. Capienti sì.
Sono innumerevoli i quesiti che si chiede al regista di risolvere, tutti pratici, la più parte posta dagli attori che sono le uniche colonne di uno spettacolo, comunque inteso. Nella lirica poi non c’è altro che il canto a saturare l’ambiente: i giocattoli dei registi di oggi sono appunto i giocattoli su cui inciampano bestemmiando gli adulti all’entrare nella stanza dei bambini. MA. Il palcoscenico o il set non sono la stanza dei bambini. SE, come usa oggi, il regista si sente autore, non si tratterrà dal pisciare fuori dal vaso, debordare; perciò stesso scocciare. Impedirne l’attività ope legis. Chiudere le scuole, i corsi, i seminari di regia. Proibire le interviste. La parola progetto. E, per maggior tutela, il termine laboratorio.

C’è una questione, questione dibattuta per anni in tutti i miei corsi al Conservatorio di Milano. La questione è quella che si può etichettare col termine educazione estetica. In soldoni si tratta di allenare la sensibilità. Allora in musica si chiama ear training. Che cos’è, è detto qui: Ear training or aural skills is a music theory study in which musicians learn to identify pitches, intervals, melody, chords, rhythms, solfeges, and other basic elements of music, solely by hearing. The application of this skill is analogous to taking dictation in written/spoken language. As a process, ear training is in essence the inverse of sight-reading, the latter being analogous to reading a written text aloud without prior opportunity to review the material. Ear training is typically a component of formal musical training and is a fundamental, essential skill required in music schools. ( fonte Wikipedia, voce ear training).

Per estensione poi con gli studenti ricordavamo come eravamo partiti da appassionarci da piccoli alla famigerata Ouverture 1812 o al famigerato Pierino e il lupo per arrivare col tempo ad ascoltare con piacere o interesse quasi ogni tipo di musica; spostando sempre più in là il suo confine, non solo si affina ma il gusto cambia proprio, cioè si adatta. Farla breve si impara. Si impara che cosa se non a riconoscere strutture, l’architettura dell’opera d’arte e a possederne gli strumenti. In sostanza è il processo che presiedeva l’apprendimento nelle botteghe.

Astrattista geometrico di bellissima mano, sfortunato e ignoto – dipingeva in pratica per dipingere quanto Salinger (oh certo al riparo della fortuna che gli valse Holden) scrisse per scrivere e senza pubblicare –, ascoltai da bambino un amico dei miei, il pittore Vella Attilio parlare di pittura, di Piero delle Francesca. Mi piacque molto, anche se Piero diventò un amore adulto; mi piacque sentirgli dire ciò che ritenevo, già allora, una ovvietà patente ovvero che, Solo un pittore può comprendere ( avere in sé n.d.r.) un pittore. Questa asserzione, in vari modi declinata in altre occasioni, ricordo che suscitava la polemica con mio padre, convinto del contrario che ci fossero messaggi da sostenere nel mezzo, che ogni opera fosse figlia del suo tempo e di un’ideologia estetica. Che avesse significati intrinsechi e estrinsechi e che fossero questi a catturare o l’osservatore, o l’ascoltatore. Mio padre non capì mai che la musica per esempio, non vuol dire niente di là dalla sua forma, idem la pittura, il cinema. Per paradosso, tutta l’arte religiosa del passato conferma questo detto: è oro, è porpora, è scelta del, mi si passi il termine, del cast – volti diafani o ferrigni trovati tra il popolo di allora –. Quel che si vede in un quadro del succitato è medium e messaggio. Il modus è il messaggio, si guardino La resa di Breda di Velasquez o il Taxi pluvieux di Dalì. Gli esegeti possono dire la loro, l’osservatore neutro non può non essere attratto che dalla forma. Differente in ogni artista, è il suo punto di vista, ma eguale nel permettere all’osservatore di svolgere e riavvolgere il proprio film di emozioni, se ci sono e non necessariamente. L’opera quale sia ha un nocciolo di realtà intrinseca, Stile, che non c’entra nulla con la percezione dell’opera stessa. Il sentimento che l’opera produce non testimonia della sua validità, ammesso che una ve ne sia. In altre parole opera e sentimento sono fatti diversi in campi differenti. Prendete la Sagrada familia di Gaudì. Possono raccontarvi tutto sul fervore religioso dell’architetto. Quello che vi piglia è la meraviglia della forma non la pretesa simbologia. I simboli sono autoreferenziali ma non sempre gli artisti lo sanno e si lasciano fuorviare. Vedi Buñuel ( seduti su wc i suoi borghesi illustrano borghesi seduti sul wc; è un ipèrbole, non una metafora o un simbolo) o i simbolismi dell’insopportabile Jodorowsky. I simboli segnalano un vuoto, un’assenza non un’essenza. Sono un gioco a nascondino. Per questo il simbolismo non funziona, non c’è niente nel simbolismo. Cosa diavolo vuoi trovarci, tu osservatore. E tu autore perché simboleggi ciò che potresti cantare in chiaro. È un trucco. A mio avviso è il motivo per cui Blake si può liquidare con un’alzata di spalle. Non a caso Dalì col surrealismo tagliò corto. Sempre da piccino guardavo affascinato le sue figure con stampelle, i cavalli in fiamme. Non mi domandavo che cosa volessero dire. Mai commesso questo errore. Vedevo manichini con le stampelle e cavalli in fiamme. Meraviglioso (in)significante e significante puro. Idem De Chirico. Ascoltarlo, l’ho scritto a ufo qui, – Domanda del giornalista filisteo, Maestro come mai un sole nero; De Chirico, Perché mi sembra una buona idea –. Eideia =immagine.

Attenzione, nella pratica musicale antica fino a Mahler i fiati, trombe e tamburi, annunciano, non simboleggiano, l’arrivo del potente, del re. Ascoltare Händel. Duncano in Macbeth di Verdi è annunciato da un’allegra marcetta di Busseto, tutta di fiati. L’arrivo di Alfredo in Traviata dai violini, non è un re. Sono modi per imporre l’attenzione. Non spiegano nulla, sono sostanza, architettura, beef, which is where what it is. In Mahler appunto simboleggiano l’assenza, suonano le trombe e non arriva nessuno, solo straordinaria musica. Ebbene quello di intendere un sotto dove c’è solo un sopra è vizio rabbinico, diffuso dalle scuole di ogni ordine e grado, quelle che insegnano a spiegare cosa vuol dire il poeta. Il poeta vuol dire quel che c’è scritto, vaghe stelle dell’orsa, significa vaghe stelle dell’orsa. A sepal a petal and a thorn upon a common summer’s morn, vuole dire – vuole, non il poeta, il verso se la vuole da sé – A sepal a petal and a thorn upon a common summer’s morn. Ciascuno può immaginarsi altro ascoltandolo ma non è autorizzato a domandarsi che vuol dire Leopardi. E peggio di tutto farci sopra un temino. Per carità fantasticare è un giochetto delle perle di vetro. Basta saperlo e non esercitarsi. Bisogna imparare ad ascoltare, a guardare, a leggere. Occorre che si superi la barriera del mi piace, non mi piace, mi angoscia, mi rallegra, non lo comprendo. C’è niente da comprendere se non lo hai già preso dentro. Non comprendo è bardarsi di ostacoli. Col voler capire si elevano barriere al carpire. L’arte per l’osservatore è abbandono. Il resto è chissenefrega.

Ora. Sere fa, dopo un anno maligno, siamo andati al cinema a vedere l’ultimo Moretti, Tre piani, una pena. Una pena sentire, all’uscita da una brutta proiezione, dei parrocchiani dell’anima dichiarare 1. fa pensare ( il dubbio dunque è che nell’intervallo che segue alla proiezione il pensiero si fermi colto da ictus) 2. mi ha fatto venire l’angoscia ( e allora?)
Entrambi i giudizi non c’entrano con l’opera che non vale un metro della pellicola usata per produrla. In parole poverissime, niente. E qui occorre fermarsi a guardare i fatti. Qualunque opera non ha da valere o non valere, ma funzionare o non funzionare. Si potrà obbiettare, ma a che, punto di domanda. Vedremo. Funziona 80% nella misura in cui funzionano gli attori. Non c’è spettacolo, film, teatrata che si regga sulla regia tranne in pochi casi. Cinematrografici. In Fellini per esempio dove gli attori però furono sempre sagacemente usati come maschere, maschere di un particolare forma di commedia dell’arte. Si ricordi la Gradisca o lo stesso Marcello, giù giù fino ai mostruosi vitelloni: maschere. Non persone o psicologie ( la psicologia in arte è illusionismo), ma maschere. La maschera non spiega, illustra, svela. Non simboleggia. Il cinema dei nostri antichi è cinema di maschere. Noi siamo eredi di una forma, la commedia dell’arte appunto, dove è maschera a prevalere e con qualche giustezza. Si ricordi Totò. Totò educa il gusto al gusto.

Tornando a Moretti, egli si è costruito la sua fortuna di dilettante, come al poker i principianti. Giocano e va loro bene tante volte alle volte. Importante è giocare a tavoli che si conoscono e che si sanno amministrare ( giovinezza giovinezza, lambrette, pallanuoto e psicanalisi). Usare una tecnica, o inventarla, tanto servirà solo per quello che serve. Ma trasporre un romanzo è un errore grossolano che costò la reputazione anche a Visconti: Morte a Venezia, non vale due righe di Thomas Mann; né l’Innocente una paginetta del Gabriellino. Nel caso di Moretti, si capisce che ha voluto fare il grande film di concetto. È venuto uno sconcetto. Con attori che non sanno nemmeno se uscire dalla porta di destra o sinistra, lasciati girovagare in un contesto romano che non credo abbia nulla da dividere con quello israeliano dell’originale romanzesco (Ossigenarsi a Taranto è stato il primo errore / l’ho fatto per amore di un incrociatore) Con attori peraltro che sono make up di sé stessi, Scamarcio da vitel-tonné con negli occhi l’ombretto sdegnoso naturalizzato pugliese. La Buy, lugubre come di consueto e che ha raffinato nel tempo l’unica mimica che conosce, la della Bianconiglia, È tardi è tardi, o, come diceva un mio maestro, di cunnus lugens=figa lacrimosa. Né l’uno né l’altra reggono un primo piano di carattere ( character dolly o push in →) perché non hanno i mezzi di una Winslet o di una Dench. Un buon regista che sappia insegnare o lo ottiene con mezzi perfidi ( Prendi Bergman che si spinse a far dire dal suo medico a un attore – non ricordo né il set né la vittima – che aveva il cancro, per ottenerne l’adatto sguardo dolente e smarrito), o lo ottiene con chicchere e chiacchiere, pugilato e delikatessen, estenuante e paziente pazienza in attesa che l’attore arrivi a un risultato. Non sempre quello che si pretende o si spera. L’attore bisogna capire che è un meccano in gestazione; sempre insicuro quando non è saccente e non se la mena. L’attore mette in atto, alla stregua di un paziente in analisi, strategie difensive e creative. Ogni attore si crea il suo cinema per arrivare alla realizzazione del personaggio. Che è fantasma. Ed è o tale o non interessa. Amleto, Tosca, Vladimiro ed Estragone sono fantasmi. Queste cose un regista deve saperle sapere. E contribuire con vari stratagemmi narrativi, cioè architettonici al risultato. Fanno lo stesso i narratori. A partire da Manzoni senza escludere Collodi. I personaggi sono situazioni e azioni, gesto e alla fine tempo. Senza tempo non esiste niente. E basta guardare bene Psycho o anche solo la 24a puntata di ER diretta da Tarantino. Moretti ha sprecato il suo e il nostro tempo. Per la malattia che è di tutti gli italiani, il dilettantismo unito a una prosopopea che l’età peggiora. Affidato a un tranquillo regista americano o inglese, ma chissà anche a Martone o Garrone e magari Sorrentino ( gente che sa fare un cast), forse l’impalcatura del romanzo israeliano – lo ignoro ma se c’è un pur vago residuo del romanzo nel film, mi pare che sia ragionevole aspettare per godersi No time to die (e fosse lasciato in inglese) – sarebbe stata in piedi. Col metronomo.

Poi, tutto questo detto sia lasciato cadere.

About dascola

P.E.G. D’Ascola ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: "Le rovine di Violetta", "Idillio d’amore tra pastori", riscrittura di "Beggar’s opera"di John Gay, "Auto sacramental" e "Il Circo delle fanciulle". Sue due raccolte di racconti, "Bambino Arturo e il suo vofabulario immaginario"" e "I 25 racconti della signorina Conti", i romanzi "Cecchelin e Cyrano" e "Assedio ed Esilio", tradotto questo anche in spagnolo da "Orizzonte atlantico". Nella rivista "Gli amanti dei libri" occupa da molti anni lo spazio quindicinale di racconti essenziali, "L’ElzeMìro".
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2 Responses to L’oròcchio di Diòniso

  1. Nunzio La Fauci says:

    Concordo.

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